I due sport riflettono i due modi di “vivere” gli Stati Uniti da parte dei cittadini americani. Chi promuove il cambiamento e chi lo rifiuta.


I Denver Broncos e i Los Angeles Lakers. FOTO: SBnation.com

Gli Stati Uniti d’America, sotto la più grande lente d’ingrandimento mediatica del mondo, bruciano.


“Uniti” più di tutto dallo sport, baluardo di convivialità domenicale che, in tempi di pandemia, assume un ruolo diverso, inusuale, ma pur sempre cruciale. Sport che si fa specchio dei problemi di razzismo sistematico del paese a stelle strisce e punta il dito e lo sguardo dei tifosi, verso l’ingiustizia sociale. La violenza della polizia nei confronti delle minoranze etniche, spesso sfociata nell’omicidio a sangue freddo, è solo la punta dell’iceberg.

Alcuni atleti come Colin Kaepernick, ex-NFL, hanno pagato a caro prezzo l’aver esercitato il loro diritto di libertà di parola (e di protesta) in tempi meno caldi degli attuali. Altri, come Lebron James della NBA, hanno invece avuto il supporto della lega nella quale giocano. Le differenze tra NBA ed NFL in termini di immagine del brand e di politica sociale sono uno specchio dei valori a cui si rifanno i due schieramenti “politici” che dividono in due il paese, tra rossi e blu, tra repubblicani e democratici.


NBA vs NFL

“E’ chiaro che abbiamo due tipi diversi di leghe – due tipi diversi di proprietari e due tipi diversi di consumatori (tifosi/fans). Ma abbiamo un unico gruppo di afroamericani. Atleti neri che, indipendentemente dalla loro lega di appartenenza (NBA o NFL), sono uniti.”

Il commento del direttore degli studi afroamericani dell’Università del Mississipi Charles Ross sottolinea la disparità già evidenziata. La chiave sta nel modo in cui questo stesso gruppo di atleti viene trattato e pubblicizzato dalle rispettive leghe sportive.

Il marketing della NBA, praticamente da sempre, mette sul palcoscenico le proprie “stelle”, All-Stars, come giocatori dalle caratteristiche quasi mitologiche in grado di condurre la propria squadra alla vittoria: il logo stesso della NBA è un giocatore.

La NFL invece pone molta più enfasi sulle squadre e sulle partite stesse. Il protagonista del logo NFL è il pallone da football e lo scudo che lo protegge, rigorosamente circondato dai colori della bandiera americana.

FOTO: NBA.com; NFL.com

I giocatori della NBA hanno contratti garantiti. I giocatori NFL invece vengono “licenziati” o sostituiti con grande facilità.

Sul parquet, l’identità dei protagonisti è chiarissima: dall’introduzione del quintetto da parte dello speaker alle iconiche divise in campo, il tifoso sa quando il proprio beniamino è in campo.

Sull’erba invece il volto dei giocatori è “nascosto” dal casco che non va tolto per nessun motivo, anche nelle situazioni a gioco fermo. I ruoli che ricevono più attenzione sono in primis il Quarter Back (“il playmaker”) e il Running Back e/o il Wide Receiver: responsabili dell’inizio e della fine di un’azione offensiva nella NFL; tutti gli altri sudano nelle trincee in via quasi anonima.

Se la NBA è uno show da broadway, la NFL è più una parata militare.

Quest’ultima infatti non ha mai nascosto la propria riverenza nei confronti dell’esercito americano, ricevendo finanziamenti per ospitare cerimonie di homecoming (i soldati che tornano dal servizio militare all’estero) e di flyover (il celebratorio volo di velivoli da guerra sopra lo stadio) pre-partita.

Sui social media, Lebron James ha un grandissimo seguito: 77 milioni di followers su Instagram e 48 milioni di followers su Twitter. Tom Brady, storico QB dei New England Patriots, attualmente alla ricerca del suo settimo titolo NFL e presumibilmente il miglior giocatore nella storia del football americano ha “soli” 7,8 milioni di followers su Instagram e 1,3 milioni di followers su Twitter.

È chiaro che alcune delle divergenze tra i due sport siano dovute alle regole stesse, ma c’è anche una chiara intenzione da parte delle due leghe sportive di rapportarsi ai propri giocatori e di comunicare al pubblico in maniera opposta.

Non è dunque sorprendente osservare come le rispettive franchigie e tifoserie (se così si possono definire) reagiscono e hanno reagito ai giocatori che hanno sfruttato il loro status e la loro piattaforma sportiva per protestare.

Tom Brady, Lebron James. FOTO: CNN International


TUTTI HANNO GLI OCCHI PUNTATI SULLA NFL

La National Football League è di gran lunga la lega sportiva americana di maggior successo.

Basti pensare che la partita di esordio tra i neo-campioni Kansas City Chiefs e gli Houston Texans ha registrato circa 20 milioni di spettatori. La decisiva Gara 6 tra i neo-eliminati Los Angeles Clippers e i Denver Nuggets, in contemporanea all’esordio NFL, ha registrato poco più di 1 milione.

La storica Gara 7 in finale vinta dai Cavaliers di James sugli Warriors? 20 milioni scarsi.

Il Super Bowl dello stesso anno? 114 milioni.

Gli americani vi direbbero: “You get the point”. Come a dire, i numeri parlano chiaro.

Eppure quando Kaepernick, ex Quarter Back dei San Francisco 49ers, si è inginocchiato durante l’inno nazionale pre-partita, la NFL non ha saputo come reagire né gestire la bufera mediatica che ne è scaturita.

Ripercorriamo la storia di quel gesto tanto discusso.

E’ il 26 Agosto del 2016. I San Francisco 49ers stanno per scendere in campo per una partita di Pre-Season. Come da tradizione prima di ogni partita, tutti i presenti allo stadio si alzano in piedi per l’inno nazionale. Colin Kaepernick rimane seduto in panchina.

In pochi lo notano, ma alcuni reporter lo interrogano a fine partita: “Colin, perché?”

Kaep risponde:

“Non starò in piedi a dimostrare orgoglio per la bandiera di un paese che opprime i neri e le minoranze. Per me ciò è più importante del football e sarebbe egoista da parte mia girarmi dall’altra parte. Ci sono cadaveri per strada e persone in congedo retribuito che l’hanno fatta franca con un omicidio.”

Due giorni dopo, durante un incontro pre-stagione con i media, Kaepernick approfondisce:

“Non ho protestato per attirare l’attenzione su di me. Ho protestato perché vedo cose che stanno succedendo a persone che non hanno una voce, che non hanno una piattaforma da poter utilizzare per farsi ascoltare e cambiare le cose. Io sono in una posizione che mi permette di fare ciò e continuerò a farlo per chi non può.”

Colin si riferisce, nell’ampio spettro delle ingiustizie subite dalle minoranze etniche negli Stati Uniti, alla brutalità della polizia.

Secondo una stima del Guardian, tenendo conto del numero totale di uccisioni da parte della polizia negli Stati Uniti, nel 2016 la percentuale di omicidi, per mano delle forze dell’ordine, nei confronti di giovani afro americani (dai 15 ai 34 anni) era nove volte maggiore rispetto al resto degli americani.

Il 1 Settembre, prima della seconda partita di Pre-Season contro i Los Angeles Chargers, Kaepernick decide di inginocchiarsi durante l’inno nazionale. Si unisce per la prima volta alla protesta un altro giocatore, il compagno di squadra Eric Reid.

Eric Reid e Colin Kaepernick. FOTO: TheUndefeated.com

Nei giorni precedenti, i due avevano deciso di modificare leggermente il gesto di protesta in segno di rispetto alla milizia americana. Ciò nonostante il gesto verrà ripetutamente frainteso da parte della NFL e da chi preferiva ignorare il messaggio per badare alla forma.

Dopo la partita Kaepernick annuncia che il primo milione di dollari del proprio salario lo avrebbe donato ad associazioni impegnate nella lotta contro le ingiustizie sociali.

Da lì il numero di proteste aumenta e si dirama tra le varie squadre e leghe sportive americane.

Megan Rapinoe nel calcio, le Indiana Fever nella WNBA, le cheerleader di Howard University… e poi ancora giocatori dei Broncos, Dolphins, Chiefs, Patriots, Rams, Eagles… ancora una volta: “you get the idea”.

Lo stesso Barack Obama, allora presidente degli Stati Uniti, si esprime a favore della protesta di Kaepernick, evidenziando come sia suo diritto costituzionale esercitare il diritto di libera espressione.

Il 22 Settembre Colin Kaepernick è sulla copertina del Time Magazine.

La sua protesta è ormai al centro del dibattito nazionale.

Colin Kaepernick. FOTO: TIME Magazine

La reazione della NFL è lenta, sconclusionata e dettata dalla consapevolezza di essere supportata da una maggioranza di tifosi e proprietari repubblicani.

Dopo un silenzio durato circa due settimane, il presidente della NFL, Roger Goodell, viene intervistato dalla Associated Press ed in merito alla protesta si esprime così:

“Non sono necessariamente d’accordo con quello che sta facendo”.

A scanso di equivoci, Goodell si schiera dalla parte di chi sta ignorando il vero significato del gesto di Colin (quindi gran parte dei tifosi e dei businessmen che fanno girare la macchina NFL) cercando di non compromettere apertamente il dialogo con gli atleti.

A differenza dell’associazione giocatori della NBA, che può vantare veterani e superstar come Chris Paul e Anthony Tolliver, quella della NFL è perlopiù composta da neo-ritirati e membri delle seconde linee che non hanno leva nelle discussioni con “i piani alti”. Goodell infatti cerca semplicemente di salvarsi la faccia, avere un vero e proprio dialogo con i giocatori non è una sua priorità.

Le proteste continuano, la NFL continua ad ignorarle.

Il 1 Gennaio 2017 la stagione dei San Francisco 49ers finisce per la mancata qualificazione ai playoff.

Colin esce dal proprio contratto nella speranza di trovare una squadra che lo metta in una posizione da titolare per la prossima stagione.

Da quel giorno, Colin Kaepernick è rimasto un free-agent, un uomo senza una squadra e senza un lavoro.

Le proteste raggiungono l’apice verso la fine del Settembre 2017 quando il presidente degli USA, Donald Trump, si riferisce a coloro che non rimangono in piedi durante l’inno pre-partita come “figli di pu***na” che dovrebbero essere licenziati.

Purtroppo, l’originale motivazione dietro alla protesta di Kaepernick ora si confonde con un generale senso di “unità dei giocatori contro Trump”.

Pochi mesi dopo sia Kaepernick che Reid presentano un reclamo alla NFL accusando l’organizzazione di averli ostracizzati dalla lega per motivi indipendenti dalle loro capacità da giocatori. Un anno e qualche mese più tardi i due partiti raggiungeranno un accordo confidenziale. Ciò nonostante, entrambi i giocatori rimangono free agent ad oggi.

Nel frattempo la NFL cerca, invano, di spazzare via il problema introducendo una nuova regola che rende vulnerabili a squalifica i giocatori che protestano durante l’inno pre-partita (con ammende per la squadra). Coloro che desiderano protestare vengono invitati a rimanere in spogliatoio durante la cerimonia, lontano dalle telecamere.

Nel frattempo Kaepernick diventa il volto di una riuscitissima campagna di Nike:

“Believe in something. Even if it means sacrificing everything.”

Quattro anni dopo, il gesto di Colin Kaepernick è diventato un simbolo globale di protesta pacifica contro le ingiustizie nei confronti delle minoranze etniche.

Quattro anni dopo, l’agghiacciante omicidio di George Floyd per mano della polizia di Minneapolis fa scoppiare una bolla di rabbia e disperazione che colpisce l’America e il mondo intero.

Questa volta la NFL non fa finta di niente, non può, e dopo aver comunicato l’avvio di un piano di donazioni pari a 250 milioni di dollari nei prossimi dieci anni per combattere le ingiustizie sociali e il razzismo sistematico, si scusa.

Roger Goodell si scusa, a nome dell’organizzazione NFL, per non aver “ascoltato prima” la richiesta di aiuto da parte di chi, a partire da Kaepernick, aveva protestato negli anni precedenti.

Un comunicato stampa che ovviamente non fa menzione di Colin stesso.

Iniziato da qualche settimana, il campionato NFL ha adesso gli occhi di un’intera nazione puntati sul campo appositamente adornato di messaggi di solidarietà, sulle misure di sicurezza anti-covid e, ancora una volta, sui giocatori e la loro protesta.

La situazione attuale potrà sembrare simile a quella della bolla NBA ma la storia del rapporto tra i giocatori e la lega di pallacanestro più famosa del mondo è agli antipodi della NFL.


LA NBA HA GLI OCCHI PUNTATI SUL FUTURO

La pallacanestro in America ha una lunga storia di atleti afro americani che sul campo e fuori dal campo hanno lottato per l’uguaglianza tra bianchi e neri: dalle vittorie dei New York Renaissance, la prima squadra professionistica composta interamente da giocatori afroamericani, passando per l’attivismo di Bill Russell e il giornalismo di Kareem-Abdul Jabbar, fino alla simbolica amicizia di Larry Bird e Magic Johnson e alla presenza sociale di Lebron James.

A differenza del football, il rapporto tra i giocatori e la NBA è maturato nel tempo ed ha ormai instaurato un dialogo rispettoso ed efficace. Chiaramente le ‘macchie’ non mancano anche per loro ma grazie al lavoro dell’attuale NBPA (National Basketball Players’ Association), che negli anni ha lottato duramente per ottenere numerose tutele economiche e di salute per i giocatori, la NBA è diventata la lega dalla mentalità progressiva, quella che lotta per il presente e guarda al futuro.

Per proporre una serie di esempi da confrontare con quanto accaduto con Kaepernick e la NFL è opportuno tracciare una linea nel tempo e partire dal 1 Febbraio 2014, il giorno in cui Adam Silver è diventato il commissioner della NBA, in successione a David Stern.

Adam Silver. FOTO: NBA.com

Silver aveva iniziato a lavorare per la NBA già nel lontano 1992, all’inizio della leggendaria dinastia Bulls di Michael Jordan. Fu sua l’idea di avere una equipe di cameramen che seguisse “l’ultimo ballo” (The Last Dance) dei tori rossi, nella speranza che in un futuro Jordan decidesse, come da stipulato accordo, di produrne un vero e proprio documentario.

Lo stesso Silver ebbe anche un ruolo cruciale nella negoziazione di diversi contratti collettivi con l’unione dei giocatori e nella creazione di NBA China, la partnership economica con il gigante d’oriente che ha fruttato alla NBA milioni e milioni di dollari.

Ma se prima Silver aveva il “vantaggio” di poter lavorare dietro le quinte, nel 2014 divenne il volto della Lega, intraprendendo con determinazione un percorso di marketing e comunicazione progressista.

Egli ebbe a che fare molto presto con un caso lampante di razzismo nella NBA, sotto il sole della California.

Il metodo e la velocità con cui rispose alla crisi in questione confermarono a tutti la sua professionalità.

Poco dopo la sua promozione infatti vennero alla luce delle dichiarazioni razziste fatte al cellulare da parte di Donald Sterling, l’allora proprietario dei Los Angeles Clippers di Blake Griffin e Chris Paul (a detta di molti una delle migliori squadre perdenti della storia).

Silver agirà in fretta e con decisione, prima vietando a Sterling l’ingresso o la partecipazione a vita a qualunque arena/evento NBA, poi rifilandogli la multa più salata della storia (e prevista dal regolamento) NBA per 2.5 milioni di dollari, ed infine collaborando con il resto dei proprietari della NBA per costringerlo a vendere la squadra.

La sua posizione nei confronti del razzismo era chiara.

Il Dicembre di quell’anno, alcuni giocatori tra i quali Lebron James, Derrick Rose e Kobe Bryant, indossarono una maglietta nera con la scritta “I can’t breathe” durante il riscaldamento pre-partita.

Le stesse parole pronunciate da Eric Garner, un giovane afro-americano soffocato a morte dalla polizia durante il suo arresto il 17 Luglio di quell’anno.

In quei giorni infatti il gran giurì della contea di Richmond aveva deciso di non incriminare Daniel Pantaleo, il poliziotto che aveva ucciso Garner: omicidio per altro confermato dal medico sul luogo dell’incidente e dalla seguente autopsia.

Los Angeles Lakers’ Jeremy Lin, from right, Wayne Ellington, Carlos Boozer. (AP Photo/Jae C. Hong)

Le regole della NBA ovviamente vietavano l’utilizzo di vestiario/accessori non in accordo con gli sponsor della stagione, ma Silver decise di non ammendare o squalificare i giocatori e, per quanto auspicasse che la “protesta” avvenisse in altra occasione, si dimostrò a favore della libera espressione degli atleti NBA.

Si possono citare i casi di Lebron James, invitato a “star zitto e palleggiare” (shut up and dribble) da parte di una conduttrice televisiva di Fox News o Sterling Brown, dei Milwaukee Bucks, arrestato, ammanettato e colpito dal taser per aver sostato su un parcheggio per disabili: in tutti questi casi la NBA ha dimostrato il proprio supporto, facendo pressioni per ottenere giustizia, investendo nelle organizzazioni che lavorano per le comunità povere e offrendo più di una piattaforma per far parlare i propri giocatori in merito ai problemi che affliggono loro e le comunità in cui sono cresciuti.

Non dovrebbe dunque sorprendere come al centro della discussione e dell’organizzazione della “bolla di Orlando” per la ripresa della stagione ci fosse la giustizia sociale. Moltissimi giocatori erano scesi in strada per unirsi alle proteste in seguito all’omicidio di George Floyd e non sarebbero certo scesi in campo se non fosse stato per gli accordi raggiunti con la Lega.

Dalle maglie con i messaggi personalizzati alle scritte sul campo. Dalle interviste post-partita agli interventi in press-conference. Dalla protesta durante l’inno nazionale pre-partita agli spot pubblicitari che promuovono uguaglianza.

La “bolla” in casa Disney ha rappresentato un luogo unico nella storia dello sport che ha risposto alle esigenze dei giocatori in quanto atleti ma anche in quanto cittadini, perlopiù appartenenti a quelle minoranze che ora più che mai avevano bisogno di una voce che gridasse al cambiamento per loro, su uno dei palcoscenici in parquet più importanti del mondo.

Lebron James. FOTO: Los Angeles Times

In seguito all’incidente del 23 Agosto 2020 in cui un altro afroamericano, Jacob Blake, è rimasto paralizzato dalla vita in giù a causa delle ferite riportate per mano di Rusten Sheskey, membro della polizia di Kenosha, i Milwaukee Bucks hanno deciso di boicottare Gara 4 della loro serie Playoff contro gli Orlando Magic, che si sono uniti alla protesta.

Questa volta i giocatori hanno scioperato nel vero senso della parola: valicando gli accordi e prendendo una decisione spontanea e indipendente. Di lì a poco la NBA/WNBA e l’organizzazione dei giocatori hanno deciso di posporre i Playoffs per il resto della settimana, per riflettere sull’accaduto e in attesa di trovare nuove iniziative e accordi per la ripresa.

La protesta della NBA ha ispirato atleti di tutto il mondo a prendere parte allo sciopero. Alcune squadre della NFL hanno ‘saltato’ gli allenamenti e alcune squadre hanno boicottato anche le prime partite della stagione di Major League Baseball. Naomi Osaka, recente vincitrice degli US Open, non si è presentata alla semifinale del NY Open.

Dopo il simbolico voto delle due squadre di LA per terminare la stagione in quel momento, la NBA e i suoi giocatori hanno trovato un accordo per la ripresa che prevedeva l’utilizzo di alcune arene NBA come seggi elettorali, la pubblicazione di una serie di spot pubblicitari a promozione dell’importanza del voto nelle imminenti elezioni presidenziali e la formazione di una coalizione comune per la giustizia sociale impegnata nella lotta per una riforma del sistema giudiziario e poliziesco.


BLACK LIVES MATTER

Se non fosse stato per tutti questi anni di acceso ma rispettoso dialogo tra giocatori e piani alti, la NBA non sarebbe stata nella posizione di offrire lo spettacolo dello sport più bello del mondo in un momento così delicato per l’America.

I più cinici diranno che tutto ciò viene semplicemente dettato dal mercato e che la NBA stia semplicemente accontentando la propria fetta liberale di tifosi.

Io credo nella direzione che questa lega sta prendendo e credo che dietro alla strategia di business di Adam Silver e co. ci sia la vera intenzione di mostrare agli Stati Uniti e al resto del mondo che è tempo di lottare per l’uguaglianza e che una società più inclusiva, internazionale e democratica può esistere e prosperare.

Che un gesto tanto mal interpretato e ostacolato come quello di Kaepernick sia diventato simbolo di protesta pacifica in tutto il mondo dimostra che il cambiamento è “long overdue” (nell’aria già da tempo) e, soprattutto, inevitabile.


Matisse Thybulle. FOTO: SBnation.com