Il 13 maggio 2010 i Cavaliers furono clamorosamente eliminati dalle semifinali di Conference per mano dei Celtics, complici anche due prestazioni sottotono di LeBron James. All’indomani della sconfitta, si fece largo un incredibile gossip… tra Delonte West e Gloria James.

Il viso emerso dalla maglia numero 23, sfilata con rabbia poco prima di infilare di volata il tunnel degli spogliatoi, era un manifesto di delusione e dolore. Non ce l’aveva fatta, ad ascoltare le urla di gioia del Garden; a vedere Garnett alzare i pugni al cielo stretto dall’abbraccio di Pierce. Non dopo aver dominato tre gare di quella serie di Semifinali di Conference. Non dopo averne clamorosamente steccate altrettante due, le più importanti. Quelle dalle quali sarebbe dipeso il proseguo o meno della stagione sua e dei Cleveland Cavaliers.

LeBron Raymone James si ottenebrò, la maglia dei Cavs in una mano, qualche cinque di supporto raccolto nell’altra. Boston volava alle Conference Finals; Cleveland, testa di serie numero 1 sfaldatasi sul più bello, aveva già un biglietto di ritorno pronto per The Land.

Era stato un confronto accesissimo. Due vittorie sulle prime tre avevano portato i colori dei Cavaliers, oltre che la griffe di LBJ. In particolar modo Gara 3 aveva rappresentato quanto di più si potesse avvicinare all’onnipotenza: Boston aveva lasciato il parquet della Q Arena con 29 lunghezze di scarto sulle spalle… e 38 schiaffoni in pieno volto per mano del Re.


Al giro di boa, però, qualcosa era cambiato. In Gara 4 Boston aveva pareggiato i conti, in Gara 5 aveva reso il favore demolendo letteralmente Cleveland tra le sue mura (120-88), e in Gara 6 aveva completato l’opera. Due facce, per una serie che sembrava essersi indirizzata verso l’Ohio ma che comunque lasciava ampio spazio alle incertezze. Certe erano la ferocia e la determinazione di James, condottiero contro i Big Three bianco-verdi. I due postulati con cui aveva dominato nelle prime tre gare della serie: 32.3 di media, arrivando a toccare le vette dei 35 e 38 punti in G1 e G3, con il 54.3% dal campo.

Con tre partite giocate ad un così alto livello, Gara 4 avrebbe dovuto rappresentare una seria ipoteca alle Finali di Conference. Il tabellone finale di sottofondo alla sirena del quarto periodo, invece, recitò un +10 Boston. Serie in pareggio, pronta per essere riportata alla Quicken Loans Arena. Quei 22 punti, con 0/5 da 3 e appena 7/18 complessivo al tiro, passarono di primo acchito come una giornata storta. O un capolavoro difensivo dei Celtics, trascinati dall’altra parte da un Rajon Rondo capace di inanellare una tripla doppia da 29-18-13.

La prestazione decisamente sottotono di LeBron fu in buona compagnia di quella di un altro membro del Roster Cavs. Sesto uomo capace di garantire profondità alle rotazioni di coach Mike Brown in uscita dalla panchina – e amico intimo di James – Delonte West si era reso protagonista di un clean sheet da 0/7 al tiro. Con il suo minutaggio ridotto drasticamente rispetto alle tre uscite precedenti.

In attesa della quinta partita, ci si interrogò con le dovute attenuanti di una semplice partita storta, su quanto successo a Boston. Si dipinse un West poco concentrato, cosa inusuale per il suo ruolo e per l’energia che era solito mettere in campo, arrivando anche ad interrogarsi su di un eventuale problema fisico rimediato nel corso delle gare precedenti. Dal canto suo, LeBron era stato visto eccessivamente nervoso, come se l’effetto-domino degli errori al tiro lo avessero portato troppo in fretta e in maniera troppo evidente fuori equilibrio. C’era attesa, per Gara 5. Per vedere come il Re avesse risposto sul campo a quello che tutti credevano fosse stato un semplice scivolone.

Il mesto silenzio dei 20’000 presenti congedò il 120-88 in favore dei Celtics. Cleveland fu devastata dai 25 punti di Ray Allen (6/9 dalla lunga distanza) e da un secondo tempo nel quale la difesa aveva imbarcato 70 punti. Quella che era parsa una semplice uscita a vuoto, così, si trasformò nell’assordante fragore di un’intera collezione di porcellane rovinosamente andate in pezzi.

15 punti, invece, il magrissimo bottino del fantasma del numero 23. LeBron James quella sera fu irriconoscibile. Scarico, completamente succube della difesa disegnata da Doc Rivers. Appena 3 canestri su 14 tentativi definirono quella che era con ampio margine la peggiore prestazione nella post-season da quando era stato elevato a Prescelto. 41 minuti di litigio con il ferro, sconfortato da un evidentissimo abbattimento psicologico.

Delonte, per la seconda volta in tre giorni, aveva fatto registrare un “non pervenuto” sullo storyboard della partita. Appena 9 minuti di impiego, in un match nel quale lo strapotere dei Celtics si era abbattuto anche sulla sua capacità di impatto. Oltre a quella che, ormai, sembrava una carenza di fiducia nei suoi confronti da parte di coach Brown. E dei compagni. I Cavs, in quella sconfitta così netta in una gara casalinga che doveva essere un riscatto, si sfaldarono inequivocabilmente.

Nonostante tutto, aveva lottato. Aveva raccolto le ultime forze, l’ultimo barlume di concentrazione e aveva regalato attimi di autentica speranza a se stesso e alla sua squadra. Ma Cleveland nel secondo tempo si era mostrata troppo sfilacciata, e chiedere due partite di alto livello a Shaq sarebbe stato troppo. La sirena di Gara 6 sancì l’eliminazione dei Cavs in una partita nella quale LeBron tornò ai suoi livelli (27 punti, 19 rimbalzi e 10 assist), nel disperato tentativo di portarla alla settima, dove tutto sarebbe potuto succedere.

The Decision lo avrebbe atteso nemmeno due mesi dopo, ma tra quel 13 maggio e l’8 luglio del 2010 in pochi avrebbero immaginato quale uragano si sarebbe abbattuto su Believeland.

Lo ha limitato un infortunio al gomito.”
Beh, c’è anche da dire che i Celtics hanno giocato decisamente meglio.”
Due serate storte possono capitare a tutti.”

Giustificazioni. Spiegazioni. Ipotesi. Riflessioni. Giornalisti, tifosi, colleghi, addetti ai lavori. Tralasciando Gara 6, in cui tutto era parso già comunque compromesso, spiegarsi un calo così drastico divenne quasi una necessità. Un obbligo. Il destino di chi sulla schiena portava il fardello di “The Chosen One”: quello di essere analizzato a raggi-X sia nelle vittorie che soprattutto nelle sconfitte. Fu straordinario come, però, la stampa – o almeno, una buona parte – non fece spasmodicamente leva sul suo essere “perdente”: stupita, si prodigò nel tentativo di capire fino in fondo cosa potesse esserci dietro un cortocircuito del genere.

Alle 11 del 14 maggio, la casella di posta elettronica della redazione di Deadspin – sito sportivo di New York – iniziò ad essere invasa da email recanti un oggetto comune: “LeBron James and Delonte West.” Secondo tali fonti, voci dapprima vaghe poi sempre più consistenti e dettagliate volevano che dietro la scioccante eliminazione dei Cavs ci fosse stata una clamorosa rottura tra il Re e il suo scudiero. E che di mezzo ci fosse una terza parte assolutamente non preventivata: Gloria James.

Qui a Cleveland si vocifera che prima di Gara 4 LeBron abbia scoperto di una relazione tra Delonte West e sua madre Gloria. Pare vada avanti da qualche tempo. Ovviamente ciò ha distrutto completamente la chimica di squadra.”

La bomba era esplosa, e nessuno riuscì più a controllarne i danni. Una delle tante soffiate sosteneva, anche con un pizzico di ironia al riguardo:

“Tantissimi interni alla NBA hanno ricevuto oggi una mail MOLTO interessante circa gli sviluppi sulla storia di LeBron James. Immagino che quegli str***i di ESPN abbiano già annusato il tutto, quindi ragazzi dovete essere voi a uscire per primi con questa bomba. Ciò che si dice negli uffici di David Stern è che Delonte West si stia frequentando con la MAMMA di LeBron da un paio di mesi. E che LeBron abbia scoperto il tutto recentemente. Per qualche strana ed ignota ragione Delonte è ancora vivo, ma credo non per molto: quando i tifosi di Cleveland scopriranno che questo è il motivo per cui James vuole andarsene dai Cavs, non sono così sicuro che la prenderanno benissimo. Questo potrebbe spiegare il crollo dell’utilizzo di Delonte. E chissà, forse anche il perché LeBron non avesse la testa completamente sulla partita.”

Un’altra email rispecchiava le classiche dicerie da portinaia, seppur affermate con una certa insistenza:

“Mio zio è il General Contractor della Q Arena da 7 anni a questa parte. Molti dei pezzi grossi della Quicken Loans sono suoi amici e conosce personalmente Dan Gilbert. Mio fratello mi ha appena detto che una fonte più che attendibile ha informato mio zio di una relazione tra Delonte West e la madre di LeBron, e di come questa stesse andando avanti da qualche tempo. Trovo tutto ciò molto difficile da credere, però proviene direttamente da una fonte interna al front office dei Cavaliers. Pare non sia uno scherzo, anche se vorrei che lo fosse. Oltretutto l’unico giocatore che ha fatto peggio di LeBron è stato proprio West. Aspettiamo di vedere cosa accade: se James resta, è molto probabile che non rivedremo più Delonte in maglia Cavs.”

Delonte. Che due anni prima, durante la Preseason, era esploso in un eccesso rabbia contro un arbitro. Durante una banale amichevole. Gli fu diagnosticata una sindrome bipolare secondaria ad una forte depressione, che necessitò un allontanamento dai compagni e dallo stress dell’NBA alla ricerca di una cura che lo restituisse integro alla vita per la quale si era tanto sacrificato.

Delonte. Che fu fermato qualche tempo dopo dalla polizia per guida pericolosa in sella alla sua Cam-Am Spyder. I poliziotti passarono dalla semplice multa alla constatazione di un vero proprio arsenale costituito da una pistola Beretta – carica – affissa alla cintura, una Ruger .357 pronta all’uso in una fondina legata ad una gamba e – colpo di scena da film western – un fucile riposto nella custodia di una chitarra che portava a tracolla. Il tutto consegnato agli agenti senza opporre la minima resistenza. Anzi, ammettendo quasi candidamente la propria colpa. Ovvia gita al più vicino penitenziario della contea di Prince George, e in una nota commento dei Cavs… nel quale asserivano di voler evitare commenti al riguardo.

Non si era mai tirato indietro. Sin dal primo “infortunio”, LeBron aveva teso una mano a West, nel tentativo di stargli il più possibile vicino in quello che in seguito lo stesso Delonte avrebbe descritto come il periodo più buio della sua vita. “Prima di un viaggio a casa LeBron volle parlarmi, e per un’ora mi disse parole di incoraggiamento. L’allenamento era ancora in corso, ma lui decise di fermarsi. Quando stavo per andarmene mi disse «D, non so dove stai andando, né che farai. Ma sappi che quando tornerai, io sarò qui.»”

Empatia. Come l’abbraccio con il quale lo strinse a sé, quando scoppiò a piangere in pullman per la ingestibile pressione derivante da critiche infuocate per il suo rivedibile stato di forma e per le accuse di detenzione di arma da fuoco. “Nello sport professionistico è difficile avere amici, ma se LeBron decide di essere tuo amico lo è fino alla fine.”

La notizia ormai si era diffusa a macchia d’olio quando un noto sito di gossip – Terezowens.com – se ne impossessò e la gettò sulla propria prima pagina online. “È appena giunta una notizia esclusiva di quella che pare essere una storia davvero inquietante.” E poi di seguito riportata la dichiarazione del general contractor precedentemente acquista da Deadspin.

Fu in quel momento che James capì che doveva esporsi, facendo uscire un comunicato. La redazione di Terezowens.com ricevette una lettera bollata di cessazione e desistenza da parte dell’agente di LeBron, nella quale si definiva il rumor come “categoricamente falso e diffamatorio”, aggiungendo che nessuna persona di buon senso avrebbe mai potuto credere ad una simile sciocchezza. Fu intimato loro di eliminare lo scoop, altrimenti sarebbe stata intrapresa la via legale. Sfacciatamente, risposero di non aver mai specificato la notizia come “vera”, ma di essersi semplicemente limitati a riportarla tale e quale da altre fonti. Salvo poi citare come conferma la dichiarazione dell’ex giocatore NBA Calvin Murphy – in quel periodo indagato per violenze su 5 dei suoi 14 figli – ad uno show radiofonico: “L’affaire tra Delonte West e Gloria James è assolutamente vera. E non è nemmeno l’unico.”

Evidentemente non si erano posti troppe domande su dove provenisse la sua ostentata sicurezza al riguardo… e se Calvin Murphy potesse davvero essere una fonte attendibile. Quel che era certo era che, da qualche parte, gli autori di Beautiful stavano prendendo appunti.

Pian piano, il quadro si delineò fino ad acquisire un pacchetto completo di dettagli per certi versi surreali. Si disse che prima di Gara 4 LeBron fosse tornato in hotel dopo essere stato in un ristorante di Boston, e avesse trovato Delonte e la madre assieme. In che contesto, la morbosità dell’opinione pubblica ebbe (stranamente) il buon senso di non voler indagare ulteriormente.

Fu descritto come completamente devastato nel profondo. Per lui Gloria era tutto, dal momento che lo aveva cresciuto da sola in un contesto tutt’altro che roseo come quello di Akron. Un amore e un legame così profondo da essere completamente sconvolto. Con un tumulto di confusione e stress di tale entità, quelle due emorragiche partite non potevano che essere una naturale conseguenza di una testa ovunque tranne che sui Boston Celtics e le semifinali. L’assordante tonfo dei Cavs ai Playoffs parve ora avere una motivazione. Che ogni minuto, ogni secondo trascorso si arricchiva di particolari ed opinioni più o meno veritiere.

Il popolo di Cleveland temeva sin dall’inizio della stagione una sua partenza. Era stanco, di eliminazioni e delusioni. Era arrivato ad un punto della sua carriera in cui vincere non poteva più essere inteso come un sogno: era divenuta un’esigenza. Ed ogni secondo, ogni alito di fuoco che andasse ad alimentare un incendio ormai pressochè indomabile, non faceva altro che contribuire a portare il Re lontano dalla sua terra. Per la disperazione dei suoi sudditi.

A parte la breve parentesi del comunicato del suo procuratore, James si chiuse in se stesso. Non lasciando trapelare nessun commento o stato d’animo. Anche se, per certi versi, quel silenzio assordante parve essere eloquente. Da una parte ci si interrogava se significasse un’evidente ammissione, dall’altra se fosse invece una tacita condanna. Anche perché le voci restavano voci, e se mai fossero state vere, entrambi i protagonisti di questa storia ben si sarebbero guardati dal confermarle.

Un mese e spicci più tardi, le telecamere di ESPN registrarono la formula della rottura. “I’ll be taking my talents to South Beach.” The Decision aveva appena fatto detonare il cuore di 400’000 persone.

Nessuno si sbottonò mai davvero sulla questione. Le stesse voci messe in giro suonavano sempre più come incredibili che non il contrario. Tempo dopo Marco Belinelli, nella lunga chiacchierata a Sky con Federico Buffa dopo l’annata a Chicago, interpellato sull’argomento, preferì glissare. Segno che forse alcuni, soprattutto i colleghi, sapevano, o immaginavano.

Un muro fu innalzato tra West e la lega. Delonte, la cui reputazione era ormai intaccata in maniera irreversibile, fu con pochissime eccezioni isolato. Cambiò aria, tornando a Boston prima e approdando ai Mavericks poi; confinandosi in seguito in D-League, Cina, Venezuela e poi di nuovo D-League, per ritirarsi poi a soli 32 anni.

Messo all’angolo, non trovò di meglio da fare che sparire. Fece però in tempo a rilasciare una dichiarazione nella quale negava assolutamente l’accaduto, e si diceva anzi sconvolto per ciò che Gloria James fosse stata costretta a passare in seguito a quei rumors. Per una donna come lei, era stato terribile dover vedere tutte quelle persone che avevano tentato di gettarla letteralmente nel fango. Salvo poi, qualche anno dopo, affermare in un’intervista per Vice Sports con in braccio il figlioletto:

“Il suo secondo nome è Delonte, non volevo chiamarlo Delonte West Junior per quel motivo. Non voglio che mio figlio vada a scuola e la gente si prenda gioco di lui per una cosa fatta da suo padre. Non voglio che vada a finire così.”

Parve un’ammissione. Ma come? Dopo aver negato nettamente il tutto poco tempo prima? Ed è in questa contraddizione, nel silenzio di LeBron e di Gloria, nelle mezze dichiarazioni di altri giocatori, che le nubi attorno a questa storia sono destinate a trovare appiglio. In ogni caso, non ci resta che rinunciare a sapere se davvero LeBron avrebbe potuto chiamare “Daddy” Delonte West.