Il basket è ancora in mano agli Stati Uniti. Il divario si sta restringendo, ma nel team femminile sta per arrivare una generazione d’oro.
Alla fine il colpo di scena non è arrivato, ma sia gli americani che le americane hanno faticato più del previsto, dovendo lottare fino agli ultimi secondi per riguadagnarsi l’oro, che mai come quest’anno è stato sudato e conquistato con i denti. Gli statunitensi hanno lasciato Parigi con una consapevolezza: il resto mondo si sta avvicinando. Per il Team USA maschile è diventato evidente come si dovrà cercare presto una nuova generazione pronta a prendere il testimone – pesantissimo – dei big three (James, Durant e Curry), tutti ormai oltre i 35 anni, e tutti fondamentali nelle vittorie risicate contro Serbia e Francia. Il Team USA femminile avrà lo stesso compito, ma avrà anche la certezza di poter disporre di una generazione di potenziali fuoriclasse.
61 vittorie di fila – and counting
Partiamo dai fatti, e da qualche dato. Team USA, nel basket femminile, ha un dominio più lungo e incontrastato di quello maschile. L’ultima sconfitta alle Olimpiadi risale a Barcellona 1992. Da Atlanta in poi sono arrivati otto ori e 61 vittorie consecutive. La dinastia è rimasta integra per 28 anni grazie anche agli sforzi delle selezionatrici e dei selezionatori che si sono susseguiti. Ma il lavoro di Cheryl Reeve, a capo della nazionale da due anni (oltre che head coach delle Minnesota Lynx), ha avuto qualche scricchiolio. Quello di selezionatrice di Team USA è del resto uno dei mestieri più ingrati: sei sempre a una sconfitta di distanza dal licenziamento e la gogna eterna, e ogni tua vittoria o oro olimpico viene accolto come il minimo che ti viene richiesto. Il compito l’ha portato a casa, ma non è stata esente da critiche.
Il percorso verso Parigi è iniziato con una autentica bufera. Quando, il 15 giugno, sono uscite le prime indiscrezioni sulla rosa di giocatrici scelte da Reeve, il mondo del basket è insorto: Caitlin Clark non era presente. La prima scelta assoluta del draft 2024, la giocatrice che sta cambiando il basket femminile e che sta trascinando la WNBA con record di spettatori battuti quasi a ogni gara, non avrebbe partecipato alle Olimpiadi.
La scelta era sicuramente dovuta al momento che Clark e la lega stavano vivendo. Il campionato era iniziato da appena un mese e la numero 22 era già al centro di tutte le attenzioni: ogni tripla che segnava, ogni fallo che subiva, ogni errore che commetteva finivano nei reel di Instagram e nei TikTok di tutte le principali pagine sportive, e diventava il tema di discussione principale dei talk show televisivi. Clark, le giocatrici che affrontava, e le sue compagne di squadra sono state al centro di polemiche quasi sempre pretestuose, e bersaglio di qualsiasi tipo di accusa: razzismo, razzismo al contrario, gelosia, donne che odiano le altre donne. Mi fermerei qui, poiché il tempo ha dimostrato che si trattava di accuse stupide o disoneste (spesso tutte due insieme), e lesive nei confronti di tutto il movimento.
Reeve, insomma, ha pensato fosse più opportuno non convocare la giocatrice che avrebbe, secondo lei, portato dietro di sé l’attenzione ossessiva di giornalisti e media, e che avrebbe generato polemiche qualsiasi fosse stato il suo minutaggio e il suo rendimento. Col senno di poi, possiamo dire che si tratta di una scelta a lieto fine: le americane, trascinate da una formidabile A’ja Wilson, hanno portato a casa l’oro, e Clark ha finalmente potuto riposarsi, dopo aver giocato ininterrottamente da ottobre fino a luglio, cambiando squadra, categoria e stato, senza mai fermarsi. Ma la finale contro la Francia, vinta di un solo punto e decisa dai pochissimi centimetri che dividevano la francese Gabbie Williams da una tripla sullo scadere che avrebbe portato la partita all’overtime, hanno dimostrato che gli Stati Uniti non possono più permettersi di passeggiare sulle avversarie per arrivare alla vittoria finale. In finale le americane sono state sotto, hanno subito a tratti l’esuberanza delle francesi spinte dal pubblico di casa, hanno faticato a difendere soprattutto quando Wilson non era in campo. E la prima tripla è arrivata solo nel terzo periodo da Kelsey Plum.
È lecito pensare che già a questa competizione il tiro da tre e la visione di gioco di Caitlin Clark, prima nella classifica degli assist in WNBA, con 8.2 di media a partita – in soli tre mesi di carriera ha già fatto più assist del 75% delle giocatrici nella storia del campionato (!) -, ma anche di Arike Ogunbowale, e forse anche i centimetri e l’abilità nel rimbalzo di Angel Reese, sarebbero stati utili. In finale, così come nel resto del torneo, ha colpito la prestazione decisamente sottotono di Chelsea Gray, guardia delle Las Vegas Aces rientrata solo a metà giugno da un brutto infortunio. E ha colpito ancor di più lo scarso minutaggio di Sabrina Ionescu, tra le migliori guardie della lega, che in finale ha giocato solo 10 minuti.
Clark, Reese, Cameron Brink (al momento alle prese con una lesione al crociato che ha interrotto prematuramente la sua stagione da rookie), ma anche Aliyah Boston, e presto anche Paige Bueckers e JuJu Watkins: queste giocatrici saranno con ogni probabilità le prossime regine del basket americano e mondiale, e sarà compito di Cheryl Reeve integrarle in nazionale. La sensazione è che la selezionatrice abbia deciso di puntare sulla vecchia guardia e e su un gruppo ormai consolidato, lasciando fuori, come già detto, giocatrici già più che pronte come Ogunbowale, MVP dell’All-Star Game dello scorso 20 luglio.
L’All-Star Game, che si è tenuto come ogni anno a fine luglio prima della mini pausa estiva della WNBA, ha visto sfidarsi Team USA (ovvero il roster che avrebbe poi partecipato ai Giochi Olimpici) e Team WNBA, le giocatrici più votate dai e dalle fan, escluse ovviamente quelle convocate dalla Nazionale. Team WNBA poteva contare sull’insolito duo Clark-Reese (insolito per via della forte rivalità, che esiste più tra i fan che tra le giocatrici), Aliyah Boston, centro delle Indiana Fever che con Clark sta trovando sempre più sintonia in campo, la decana delle Connecticut Sun DeWanna Bonner, e Ogunbowale, che con 34 punti segnati ha siglato un nuovo record della competizione.
No country for old (WO)men
La scelta di puntare su un gruppo più rodato e con meno novità possibili è dimostrata anche dall’aver convocato Diana Taurasi, che con l’oro di Parigi diventa la giocatrice di basket con più ori olimpici di sempre e l’unica sportiva con sei ori consecutivi nello stesso evento. Il suo impiego è stato molto scarso, e in finale non ha mai messo piede in campo, ma la sua convocazione, in un’atmosfera pur così infuocata, ha incontrato pochissime voci contrarie.
A 42 anni, Taurasi è già da tempo una leggenda del basket. Forgiata al college dalla personalità unica di Geno Auriemma (con cui condivide le origini campane), per 20 anni ha dominato la lega e continua a esserne uno dei volti più importanti, essendo riuscita, nelle ultime stagioni, a ritagliarsi un ruolo meno centrale sul campo ma ugualmente pesante nello spogliatoio. Ha iniziato la carriera professionistica nel 2004, quando Facebook era appena nato ed era un piccolo sito dedicato al campus universitari; ora è costretta dalle compagne di squadra Gen Z a fare i TikTok per il canale delle Phoenix Mercury. Il suo carisma è palpabile ed è nota la sua bravura nel trash talking e nel gestire le provocazioni in campo.
All’inizio dell’ultima stagione di WNBA è stata fortemente criticata per aver cercato, secondo alcuni, di incutere timore a Caitlin Clark e alle altre rookie con delle dichiarazioni sibilline («Reality is coming», si era limitata a dire loro). In realtà, è una delle veterane che si è comportata meglio con le nuove arrivate, che hanno più volte espresso la loro ammirazione per la White Mamba. E ha sempre saputo quando parlare e rispondere alle critiche. Come quando, all’inizio delle Olimpiadi, ha replicato a una domanda sulla sua età e sul quando si sarebbe ritirata: «È una mancanza di rispetto. Ho dedicato tutta la mia vita al basket. Sono qui per aiutare le mie compagne e per vincere. Solo per una donna avere 20 anni di esperienza può essere considerato un tallone d’Achille». L’oro di Parigi è il degno addio alla nazionale di una leggenda dello sport che sarebbe stato difficile negarle.
L’altra veterana che ha vinto l’oro, pur giocando molto poco in finale, è Brittney Griner. A quasi 34 anni potrebbe essere anche lei all’ultima Olimpiade, ma il suo oro pesa un po’ più degli altri. Solo due anni fa questo esito sarebbe stato impensabile. Griner si trovava in una minuscola cella in un luogo mai dichiarato ufficialmente in Russia, dopo che era stata arrestata e condannata per traffico di droga. Il 17 febbraio 2022, pochi giorni prima dell’invasione russa ai danni dell’Ucraina, prima di rientrare nel suo paese (al momento era sotto contratto con l’UMMC Ekaterimburg) fu trovato, nel suo zaino, un vaporizzatore con olio di hashish. Fu condannata a 9 anni di carcere per un reato che solitamente prevede 15 giorni di detenzione. Il regime russo si scagliò contro Griner come reazione alle sanzioni imposte dal governo statunitense, e la tenne ostaggio per otto mesi nelle proprie carceri fino a dicembre 2022, quando fu liberata in uno scambio di prigionieri tra i due paesi. Nel libro Coming Home, pubblicato a maggio di quest’anno, ha raccontato la sua esperienza nelle carceri russe: «La paura è una cosa – scrive –, ma l’ignoto, l’incertezza, cadere nel mistero, è un sentimento molto più forte della paura: è il terrore».
Griner ha raccontato le pressioni che ha subito nelle carceri, le sedute forzate con gli psichiatri e le guardie carcerarie per discutere della sua sessualità e delle sue posizioni politiche (è sposata con una donna, Cherelle Watson, ed è un’attivista della comunità LGBTQ+), il trasferimento in un ex lager sovietico in Mordovia, dove era costretta a lavorare per 10 ore al giorno senza poter andare in bagno, e infine il disturbo da stress post-traumatico e la depressione.
Nel 2023, Griner è tornata a giocare con le Phoenix Mercury, insieme a Diana Taurasi e Kahleah Copper (altra grande protagonista a Parigi del Team USA), ed è tornata a essere uno dei centri più determinanti della lega. Il suo contributo in queste Olimpiadi non è stato decisivo (solo in una partita, nei quarti contro la Nigeria, è andata in doppia cifra), ma la sua è tra le storie più belle dei Giochi Olimpici.