La carriera di Steve Nash ha rischiato di finire ancor prima di cominciare. Questa storia non è certo nuova, ma è sempre bello raccontarla.

Nel 1992, nella sua stagione da freshman a Santa Clara, la guardia John Woolery tormentava Steve in ogni allenamento, non facendogli mai superare la metà campo e causando palle perse su palle parse, ancor prima che potesse iniziare a impostare una semplice azione d’attacco. Con tutti i suoi compagni a fissare la mingherlina point guard da Vancouver Island, il coach Dick Davey chiese a Nash: “Pensi di farcela a far giocare la squadra da qui?”, indicando la linea di fondo campo.


E’ stato il punto più basso della carriera del canadese, un momento talmente imbarazzante che ha quasi spinto Steve a lasciare Santa Clara. “E’ stato davvero una brutta scena, lui era molto colpito da quello che era successo” – ricorda il suo amico ed ex compagno di squadra, Phil Von Buchwaldt “e molte persone si sarebbero arrese. Ma lui no, lui credeva davvero in quello che faceva”.

E Von Buchwaldt aveva le prove di questa passione di Steve. Infatti un mese dopo l’inizio del loro anno da freshman, i due amici si trovavano nella biblioteca del campus, e Nash gli disse che un giorno avrebbe giocato nella NBA. “Mi ricordo di aver pensato: che idiota! Ne devo assolutamente approfittare” – cosi gli disse: “Steve, se pensi davvero di poter diventare un giocatore professionista, perché non facciamo una scommessa?”

E Nash di certo non si tirò indietro. Scrisse su un foglietto di carta: “Se entro la fine del mio senior year non sarò stato scelto al Draft, pagherò a Phil Von Buchwaldt 100$”. Nel giro dei successivi tre anni, Von Buchwaldt, ora un banchiere a Spokane, Washington, capì che quei soldi non li avrebbe mai incassati.

“Era sicuro al 100% che sarebbe entrato nella Lega”. Ha fatto molto di più. Nash è diventato un Hall of Famer, in una cerimonia toccante a cui hanno preso parte anche giocatori del calibro di Grant Hill, Jason Kidd e Ray Allen. 2 volte MVP, 8 volte All-Star e 7 volte selezionato per il primo quintetto NBA, Nash non ha solo vinto una scommessa: in quei 18 anni nella Lega tra Phoenix, Dallas e Los Angeles, si è guadagnato un vero e proprio posto nella storia del Gioco.

“Era una macchina da guerra” – ha dichiarato Davey. “Ha sempre cercato di migliorarsi per essere sempre al meglio. Era innamorato pazzo del Gioco”.

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Davey sapeva che quel ragazzo magrolino sarebbe stato un fenomeno già dalla prima volta che lo vide scendere in campo, in Canada. Tutto ciò dopo soli 30 secondi di riscaldamento. “Ho subito pensato che poteva essere un giocatore speciale. Non so come spiegarlo. Ma la sua eleganza mi ha incantato, ero abbastanza sicuro che sarebbe diventato qualcuno… ma non avrei mai immaginato che raggiungesse un simile livello”.

Mentre Nash giocava quella partita – disputando anche un buon incontro – Davey si guardò intorno per vedere se ci fossero altri visi familiari oltre a lui, altri allenatori. Tuttavia non vide nessuno.

Presto avrebbe imparato tante altre cose nuove su Steve. “Tre ore di allenamento non erano mai abbastanza per lui. Ogni volta tornava di sera e tirava. È arrivato anche al punto di portarsi con sé cinque o sei ragazzi. Non era l’unico a migliorare, ma tutta la squadra. E solo grazie a lui”.

Il voler rendere i propri compagni migliori è stato un mantra che ha accompagnato Nash anche lungo tutta la sua carriera NBA, in cui lui e Dirk Nowitzki divennero stelle insieme. Dopo Dallas, Nash è tornato a Phoenix, dove si è integrato perfettamente con l’attacco veloce dei Suns e dove ha tenuto statistiche impressionanti. In quattro dei suoi primi sei anni in Arizona, il canadese ha tirato con percentuali superiori al 50% dal campo, al 40% dalla linea dei tre punti e al 90% ai liberi. Numeri di assoluta eccellenza.

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Ha cambiato il modo di vedere il basket. È riuscito a far cambiare idea al suo allenatore riguardo ai passaggi tutto campo con una mano sola, innanzitutto. “Ha detto: Fammi spiegare una cosa. Questo passaggio è tre decimi di secondo più veloce con una mano sola, che dovendola raccogliere e con due mani. Ciò regala al tiratore tre decimi di secondo in più per tirare” – ha detto Nash a Davey. “Ok, Steve, recepito. Hai ragione”.

Steve è diventato una stella in contemporanea con l’espansione della NBA verso un gioco più aperto, ed è diventato esempio di dedizione al lavoro e al proprio corpo. “Tutti quei discorsi che si fanno adesso sulla scienza dello sport e sull’attenzione al proprio fisico sono stati il pane quotidiano per Nash già 10 anni fa” – ha dichiarato Jared Dudley, che ha giocato con Steve a Phoenix. “Già quando eravamo compagni di squadra era solito fare gli esercizi sulla BOSU Ball, o lavorare con gli elastici: inimmaginabile, a quei tempi. Quando la gente diceva che era ossessionato dal basket, io dicevo che era ossessionato dal suo corpo, da quello che faceva per tenerlo allenato. Non beveva acqua dalle bottiglie di plastica, solo dal bicchiere di vetro, così era più purificata. Ecco…”

Nash, poi, ha sempre fatto agopuntura e crioterapia. E teneva anche alla forma dei propri compagni, infatti non perdeva occasione di rimproverare chiunque osasse mangiarsi un pezzo di pizza. Tutto quello che faceva lui, è diventato quasi di routine per i moderni allenamenti. “Questa nuova era, queste nuove attenzioni… è impossibile negare che siano nate con Nash”.

E pensare che, per poco, nulla di tutto ciò stava per accadere. Qualche altra palla rubata da parte di John Woolery avrebbe potuto distruggerlo, e invece…

Le difficoltà hanno reso Steve più concentrato sul lavoro, più concentrato a dimostrare a chi dubitava di lui – a partire dal caro Von Buchwaldt – le sue enormi qualità.