Il proprietario dei Kings racconta della scelta di assumere Mike Brown, del potenziale di De’Aaron Fox prima del Draft e di tematiche sociai.
Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape, tradotto in italiano da Marta Policastro per Around the Game.
SACRAMENTO, California – Il 29 marzo, dopo la sirena di Sacramento-Portland, i Kings sono ufficialmente tornati ai Playoffs, interrompendo un digiuno che durava da 17 anni. I tifosi presenti al Moda Center, quelli a Sacramento e in tutto il mondo si sono potuti finalmente lasciare alle spalle un passato da squadra materasso per fare spazio all’emozione di un ritorno in post-season.
Il più grande fan dei Kings, il proprietario Vivek Ranadive, ha seguito la partita da casa, nella Baia di San Francisco e, dopo l’ultima sirena, è stato travolto da un’ondata di emozioni. “È stata una gioia immensa. Ho voluto questo risultato con tutto me stesso, per i tifosi e la città di Sacramento”, ha raccontato ad Andscape. “Il basket è di vitale importanza per la città; abbiamo i migliori tifosi al mondo. Volevo così tanto questo risultato che, quando è finalmente arrivato, sono rimasto senza parole: gioia allo stato puro. Il mio cellulare ha cominciato a squillare senza sosta. Ero veramente sorpreso da quante persone in tutto il mondo facessero il tifo per noi e per me; ho sentito l’affetto di tutti quelli che mi hanno scritto e chiamato”.
La famiglia Maloof ha concluso la vendita dei Kings a un gruppo californiano guidato da Ranadive il 31 maggio 2013, al prezzo (ai tempi record) di 534 milioni di dollari. L’acquisto ha messo fine alle voci che vedevano il trasferimento della franchigia in altre città, tra le quali Seattle. All’epoca, erano sei anni che i Kings non si qualificavano ai Playoffs.
Nel 2016, Ranadive ha trasferito i Kings dall’Arco Arena, che cadeva a pezzi, al Golden 1 Center, in centro città. I Kings continuavano però a perdere e a fare scelte sbagliate al Draft; la franchigia era lo zimbello della lega e gli agenti NBA tenevano i propri clienti alla larga da Sacramento. Ranadive veniva spesso criticato perché la franchigia non riusciva mai a fare il salto di qualità.
Oggi, i Kings sono i nuovi beniamini del mondo NBA. Hanno due All-Star, De’Aaron Fox e Domantas Sabonis, un candidato ai quintetti All-Rookie, Keegan Murray, un probabile Coach of the Year, Mike Brown (al primo anno con i Kings) e un candidato al premio di Executive of the Year, Monte McNair. Tutti questi riconoscimenti sono frutto delle 48 vittorie in stagione, dei 25 successi in trasferta (nessuno a Ovest ha fatto meglio di loro) e del terzo posto nella Conference. “Mi sono tolto un peso; è stato un percorso difficile”, ha ammesso Ranadive, in relazione al ritorno in post-season.
Ieri notte, i Kings hanno ospitato la prima partita di Playoffs contro i campioni in carica, i Golden State Warriors (QUI la nostra preview della serie), squadra della quale Ranadive era un socio di minoranza prima di acquisire i Kings. La prima vittoria in post-season dopo 17 anni ha regalato una scarica emotiva che non sarebbe replicabile, al momento, da tutte le altre tifoserie della Lega sommate.
Ranadive si è raccontato ad Andscape prima di una partita casalinga contro San Antonio, il 2 aprile scorso. Il proprietario dei Kings, nato in India, ha toccato vari argomenti: le difficoltà incontrate nel tentativo di dare una svolta alla franchigia, l’infortunio sfiorato poco dopo aver acquisito la squadra, il “Victory Beam”, la sorprendente vittoria della Nigeria di Mike Brown contro Team USA, il workout di Fox, le sue impressioni su Sabonis, l’entusiasmo per i Playoffs, l’importanza della giustizia sociale e molto altro.
Premessa: l’intervista è stata effettuata prima della gara contro Golden State, di conseguenza le domande sulla Serie partono da prima della vittoria in Gara 1.
La prima partita di Playoffs da quando è diventato il proprietario dei Kings è alle porte: emozionato?
Sono molto emozionato ed elettrizzato. Quando abbiamo giocato la prima partita dopo il cambio di proprietà, l’intera città era illuminata di viola; addirittura, i drink nei bar erano viola! La città sarà scatenata per i Playoffs, sarà un grande spettacolo.
I Kings hanno introdotto la tradizione del Victory Beam, quattro raggi laser viola che partono dal Golden 1 Center e vengono proiettati verso il cielo. È diventato una sorta di rito molto popolare tra i giocatori e i tifosi: pensa che sia destinato a restare?
Mi piace molto, è una grande idea, sarei contento se restasse. Le luci del Victory Beam si vedono nel cielo; quando sono in macchina mi fermo per ammirarle. Festeggio con i tifosi che incontro e mi godo il momento.
Quali speranze e sogni per il futuro dei Kings hanno accompagnato l’acquisto della squadra? Si era reso conto delle difficoltà che l’attendevano?
Prima di comprare la squadra, ero socio di Joe Lacob a Golden State. Erano anni che avevamo una buona squadra, ma finalmente eravamo diventati forti. E proprio in quel periodo David Stern mi ha chiamato e mi ha detto: “Compra i Kings, salva la franchigia”. Lì per lì ho pensato: “Vivo nella Baia di San Francisco; finalmente abbiamo una squadra forte e lavoro con i miei amici”. Ma poi ho visto la passione dei tifosi e mi sono detto che, dopotutto, Sacramento è la capitale della California.
Sono arrivato dall’India senza nulla in mano: privare Sacramento della squadra avrebbe significato strappare il cuore alla città. Forse era qualcosa che, come immigrato, ero destinato a fare. Ho iniziato il processo di acquisizione e, una volta terminato, sono venuto a Sacramento. Matina Kolokotronis, Chief operating officer dei Kings, mi ha dato le redini della franchigia. Sono entrato nell’arena e un pezzo di soffitto è letteralmente caduto a pochi centimetri da me.
Era la prima volta che entravo all’Arco Arena. Poi David Stern mi ha telefonato e mi ha detto: “Non potete giocare se prima non riparate il soffitto”. Poco dopo il mio cellulare ha squillato di nuovo: era l’agente del mio migliore giocatore all’epoca; mi chiamava per dirmi che il suo cliente non voleva restare a Sacramento. Benvenuto in NBA. La strada era tutta in salita…
Mi sono fatto garante in prima persona presso l’NBA del fatto che saremmo riusciti a costruire l’arena entro una determinata scadenza e che, in caso contrario, avrebbero potuto togliermi la squadra. Perciò ci siamo fatti letteralmente scrivere una legge dal Senato per poter costruire in tempo record. È stata una prova d’amore. È davvero fantastico essere arrivati a un primo importante traguardo e poter giocare i Playoffs: ce l’abbiamo fatta.
Qual è stato il momento più duro come proprietario dei Kings?
Ho affrontato moltissime difficoltà. È un privilegio che i fan non siano soddisfatti, perché significa che tengono veramente alla squadra. Io cerco sempre di guardare avanti, di imparare e di migliorare. Sono state dette e scritte cose non vere: mi è dispiaciuto molto che la mia famiglia e i miei amici abbiano dovuto leggerle.
Io sono cresciuto a Mumbai. Per strada ci sono bambini affamati che cercano cibo nella spazzatura. Loro sì che vivono in situazione di disagio. Io, invece, sono un privilegiato.
Quale insegnamento possono trarre i suoi connazionali dalla sua storia?
Se si lavora duramente e si hanno grandi sogni non bisogna mollare mai, continuare a lavorare duramente finché quei sogni non diventano realtà. Io non do mai nulla per scontato; non sottovaluterei però il ruolo che gioca la fortuna nel percorso di tutti, anche di quelli che hanno avuto più successo.
In attesa della prima partita di Playoffs, è corretto affermare che il ricordo a cui è più legato con i Kings sia la trasferta in India nel 2019?
Portare la squadra in India è stato un momento indimenticabile della mia vita. L’NBA ha mantenuto la promessa di farmi giocare una partita (e ne abbiamo giocate due, in pre-season) contro il mio amico Herb Simon e i suoi Pacers. Abbiamo caricato su un Boeing 747 tribune, tornelli e tutto quello che è necessario in un’arena NBA. Poche settimane prima in quell’area c’erano capre e galline che scorrazzavano; poi ha assunto la forma di un palazzetto NBA e ha ospitato potuto ospitare due squadre. Io stavo lì seduto, circondato dalla famiglia e dagli amici, nella mia città natale. Il momento in cui hanno alzato la palla a due è stato epico. Un intero Paese con più di un miliardo di persone stava guardando la partita.
È stato in quella situazione che ha visto Sabonis da vicino, quando giocava per i Pacers?
Mamma mia… Domantas era di un altro pianeta, ci ha massacrati. Fox lo chiama “The Ox” (il bue) e all’epoca non sapevo cosa intendesse… Nonostante la giovane età, durante l’estate, Domantas era migliorato molto. Aveva anche un ottimo basketball IQ. Quando, tornati negli USA, mi sono imbattuto nei Pacers all’aeroporto, è stato così gentile e umile: li avevamo portati dall’altra parte del mondo, in un Paese povero e con un fuso orario diverso, per giocare a basket; mi ha ringraziato per quest’opportunità. Sono stato colpito dal suo modo di giocare, ma anche dal fatto che è un bravo ragazzo.
L’anno scorso, la trade tra Sabonis e la guardia emergente Tyrese Haliburton è stata un grande evento. Ha riposto molta fiducia nel front office, anche se ha subito molte critiche, prima che la gente si accorgesse dell’esito ottimo che la trade ha avuto per entrambe le squadre.
Ho deciso che volevo essere coinvolto in tutte le decisioni, perché la gente diceva che lo ero anche se non era vero. Perciò, ho avuto un ruolo di primo piano nella scelta del coach e nella trade e ho imparato a conoscere meglio i miei collaboratori. Il front office è stato molto coraggioso ad accettare questa trade, perché apprezzavamo Haliburton come persona e sapevamo che sarebbe diventato un All-Star. Ma, scegliendolo al Draft, abbiamo seguito la filosofia di prendere il migliore giocatore disponibile, che alla fine è diventato un asset per poter arrivare a Domantas. La trade è stata una vittoria per entrambe le squadre. È una delle poche trade ad aver prodotto tre All-Star: Tyrese, De’Aaron e Domas. Il front office ha dato prova di coraggio, ma ho apprezzato molto la loro scelta.
All’inizio della stagione, Fox ha raccontato di voler arrivare ai Playoffs più per lei che per chiunque altro. De’Aaron non ha mai richiesto uno scambio ed è sempre stato fedele a Sacramento. Cosa significa per lei?
De’Aaron è una persona speciale, ma tutta la sua famiglia la è. Tempo fa, ricevetti una chiamata dal coach di Kentucky, John Calipari, che chiese di dare una possibilità a uno dei suoi giocatori, perché il ragazzo era il più veloce mai visto sul parquet. Io accettai e questo giocatore fece un workout con noi. All’epoca il nostro coach era Dave Joerger, un ottimo allenatore. Visto che era stato Calipari a chiamarmi, decisi di andare a vedere questo giocatore; era il primo workout al quale assistevo.
Joeger aveva messo tre bende sugli occhi a De’Aaron e aveva fatto finta di colpirlo sulla faccia per accertarsi del fatto che non vedesse nulla. Poi aveva iniziato ad abbaiare ordini, che il giocatore eseguiva, nonostante fosse bendato, a una velocità folle: quella di De’Aaron Fox.
Qualche settimana fa Joe Dumars (vice-presidente della lega) mi ha chiamato per dirmi che, visto il mio rapporto con De’Aaron, avrei potuto essere io a comunicargli che era stato convocato all’All-Star Game. Ma avrei dovuto dirglielo prima delle 9.30, perché dopo la notizia sarebbe diventata pubblica. Allora ho scritto a De’Aaron e a sua moglie Reece per dire loro che avrei avuto bisogno di parlare con loro alle 9:30.
Mentre parlavo con De’Aaron, Mike Brown mi ha chiamato; l’ho fatto entrare nella chiamata e ho raccontato loro la storia dell’allenamento da bendato di Fox. Poi ho detto a De’Aaron: “Ho costruito un’arena nuova di zecca, ma non so a chi affidarla. Chi mi porterà nella terra promessa?”. Mi ha risposto: “Ci penso io”. Poi ho aggiunto: “Hai programmi per questo weekend?” No, non ne aveva. “Bene, allora ci vediamo a Salt Lake City con te e con Reece”. Era molto importante per me comunicargli questa notizia: ho seguito tutto il suo percorso nella lega, dal giorno del workout con coach Joerger fino all’All-Star Game di Salt Lake City. Questo ragazzo ha i superpoteri; è il più veloce della lega.
Perché Mike Brown era il giusto coach per i Kings?
Ho partecipato in prima persona alla scelta del coach. Ho invitato Mike Brown a casa mia per una lunga cena (sei ore) l’anno scorso, durante ii Playoffs. Lui viveva a San Francisco, io ad Atherton, a 45 km di distanza. Avevo molte domande da fargli e lui si è presentato con venti pagine di appunti. È molto metodico, attento ai dettagli, un guru del basket. Una delle cose che gli ho chiesto è stata: “Sei famoso per aver sempre dato la priorità alla difesa, ma oggigiorno il gioco è principalmente offensivo. Come riesci a conciliare questi due aspetti?”.
La ragione per la quale lo stimavo molto come allenatore non dipendeva dalla sua esperienza in NBA, ma dall’averlo visto battere gli USA sulla panchina della Nigeria in un’amichevole. I suoi giocatori correvano velocissimi, su e giù per il campo. Anche le sue referenze erano incredibili: mi sono fatto raccontare di Mike dai giocatori degli Warriors e da Gregg Popovich. È unico come allenatore perché è un coach di vecchio stampo, ma anche innovativo.
Riesce a far assumere ai giocatori le proprie responsabilità, ma allo stesso tempo li fa sentire apprezzati e sostenuti; vuole che facciano bene e dà loro tutti gli strumenti per raggiungere questo obiettivo. È un coach incredibile: come mi piace dire, “senza una cultura, la strategia non va lontano” e per lui la cultura è fondamentale. Quando l’ho incontrato, gli ho detto che fino a quel momento ero stato poco coinvolto, ma che lo sarei stato di più e che quindi avremmo dovuto comunicare molto. Perciò, se non era disposto a farlo, non avrebbe dovuto accettare il lavoro. Mi ha risposto che per lui non sarebbe stato un problema.
Ho poi chiarito che ci sarebbero state due regole da rispettare: “La prima è la sincerità radicale: io sarò sempre sincero con te e tu lo sarai con me. La seconda regola, che si collega alla prima, è il supporto incondizionato: ti supporterò sempre; il nostro sarà uno spazio sicuro”. Abbiamo lavorato a partire da queste premesse.
Poi siamo andati insieme in Germania a vedere Domantas che giocava all’Europeo. Abbiamo fatto lunghe passeggiate insieme e ho capito il modo in cui ragiona. È un coach incredibile che ha saputo cambiare la cultura di Sacramento ed è una bravissima persona. È esattamente ciò di cui i Sacramento Kings hanno bisogno.
Il 18 marzo 2018, Stephon Clark, afroamericano di 22 anni, è stato ucciso a Sacramento da due poliziotti, che gli hanno sparato mentre si trovava nel cortile dietro la casa di sua nonna. La maggior parte dei proprietari NBA non avrebbe probabilmente detto nulla a riguardo, ma lei ha preso il microfono a centrocampo dopo la partita e ha parlato della necessità di cambiamento. Da quel momento, lei è stato un paladino della giustizia e dell’uguaglianza sociale e ha assunto molte donne in posizioni di potere. Ci può parlare di ciò che ha provato in quell’occasione e di cosa pensa sulla giustizia e l’uguaglianza sociale?
Ho sempre detto che la nostra missione è quella di costruire una franchigia vincente, che possa migliorare la vita di coloro i quali vi entrano in contatto e rendere il mondo un posto migliore. Questo è quello che facciamo… È un’opportunità e un privilegio. Quando si ha questo tipo di piattaforma a disposizione, si è moralmente obbligati a utilizzarla per fare del bene. Quanto accaduto a Stephon Clark è tragico; la comunità si è radunata e si è fatta sentire e io ho sposato la loro azione. Quando ho costruito l’arena nel centro città, l’ho immaginata come un punto in cui fare comunità. Perciò ho dato il benvenuto ai manifestanti e ho detto loro: “Faremo tutto ciò che è in nostro potere per fare in modo che fatti come questo non si ripetano più e per aiutare la nostra comunità”. Poi mi sono rivolto all’NBA dicendo che era necessario intervenire. Abbiamo creato la coalizione per la giustizia sociale, che è anche coinvolta a livello nazionale.
Michael Jordan sta pensando di vendere la maggioranza degli Charlotte Hornets: a breve Lei potrebbe essere l’unica persona di colore a possedere una quota di maggioranza di una squadra NBA, che è prevalentemente una lega di colore. Da questo deriva una responsabilità?
Certo, possedere i Kings è un enorme privilegio e un grande onore, una benedizione e un’opportunità di fare del bene. La mia intenzione è quella di sfruttare al massimo questa piattaforma, a prescindere dagli altri proprietari. Va dato molto credito alle figure a capo della lega, David Stern prima e Adam Silver poi: si sono sempre schierati dalla parte giusta, incoraggiando e sposando l’utilizzo della piattaforma NBA e la posizione che abbiamo assunto come Kings.