James ha ambizione e esperienza sufficiente da acquisire una proprietà. Ma, a differenza degli attuali owner, Lebron è diretto in tema di giustizia sociale.

GIF: Andscape / Ryan Inzana

Questo contenuto è tratto da un articolo di Martenzie Johnson per Andscape, tradotto in italiano da Edoardo Bertocchi per Around the Game.


Facendo un passo indietro ad Ottobre, dopo un’inutile amichevole prestagione a Las Vegas, l’ala dei Los Angeles Lakers LeBron James ha rimarcato per l’ennesima volta la volontà di diventare un giorno proprietario di una squadra NBA, fosse anche nella “Città del peccato”.


“Mi piacerebbe molto costruire una squadra qui, prima o poi”, ha dichiarato dopo quella partita contro i Phoenix Suns. “[Il presidente della NBA Adam Silver, ndr.] probabilmente vede ogni singola intervista e dichiarazione che giunge da un qualsiasi giocatore della Lega. Quindi, voglio la squadra qui, Adam, grazie”.

Seguendo le orme di Michael Jordan, James ha il curriculum, le risorse economiche, nonché la spregiudicatezza giusta per farcela. Ma, a differenza di MJ, il nativo di Akron è stato molto criticato riguardo alle sue politiche sociali, anche quando le sue idee si sono scagliate contro il classico proprietario miliardario, bianco, conservatore (come nel caso di Jerry Jones, patron dei Dallas Cowboys).

Se James riuscisse nel suo intento, diventando così il terzo proprietario di colore nelle quattro principali leghe sportive professionistiche del Paese, quale sua versione si presenterà all’NBA: l’attivista forte ed orgoglioso o l’uomo d’affari “repubblicano, che compra scarpe sportive” (parafrasando una “celebre” dichiarazione di “Air Mike” resa in occasione delle elezioni in North Carolina nel 1990)?

I retroscena

LeBron ha cominciato a parlare di questo progetto di diventare proprietario di una squadra già nel 2016, accelerando poi il passo negli ultimi tre anni, incluso un suo tweet dove manifestava la volontà di acquisire le Atlanta Dream, squadra di WNBA, dopo che le giocatrici avevano cacciato il proprietario precedente, Kelly Loeffler (le Dream sono state alla fine vendute ad un gruppo di proprietà, di cui faceva parte anche la loro ex guardia Renee Montgomery).

Lo scorso anno, ha dedicato del tempo al tema nella sua serie su YouTube “The Shop: Uninterrupted”. Nel 2019, su The Athletic ha avvallato ulteriormente il suo obiettivo: “Ce la farò, senza se e senza ma”.

Secondo Ryan Jones,  ex caporedattore di Slam magazine ed autore di “King James: Believe the Hype – The LeBron James Story” (2003), tutte le qualità, i requisiti di cui sopra Lebron li aveva già dimostrati ai tempi ai tempi delle superiori (tanto che lo stesso Jones, nel 2001, ne aveva tracciato un primo scout a livello nazionale per Slam, quando LBJ era appena al secondo anno).

Ancora prima che venisse considerato all’unanimità la scelta numero 1 al Draft NBA del 2003, James indossava una grande varietà di scarpe di marca. La sua scuola, la St.Vincent-St. Mary, aveva un contratto con Adidas, e James ne faceva un grande uso a livello di scarpe sportive: ad esempio, le Pro Model 2G, le TMAC 2, e le “USA Flag” Adidas Kobe 2, che erano state consegnate a LeBron direttamente da colui a cui erano ispirate, il giocatore dei Lakers Kobe Bryant.

Ma non appena il suo nome si è diffuso sempre di più ed hanno avuto inizio le battaglie tra Nike, Adidas e Reebok, James, dal canto suo, ha cominciato a coprire il logo dell’Adidas sulle sue maglie ed indossare scarpe anche di altri marchi (come le Reebok Questions e le Jordan 9). Era la sua maniera di prendere il controllo del suo potere di marketing, non lasciando che un marchio si approfittasse di lui senza la sua approvazione. Fece ciò quando era solo un teenager.

“Da quel momento, ha messo le cose davvero in chiaro, «Giocherò secondo le mie regole. Ho il massimo potere»”, secondo quanto riportato da Jones , “Aveva già piena consapevolezza del suo valore”.

Dal 2011 investe negli sport di squadra, il che potrebbe sembrare una sorta di prova generale nel suo piano di diventare un proprietario nella NBA. Ha acquisito il 2% del Liverpool, società di calcio inglese, con il suo socio in affari Maverick Carter, al prezzo di 6 milioni e mezzo di dollari. Nel 2021, è diventato (sempre insieme a Carter) il primo partner di colore nella storia della Fenway Sports Group, società che possiede i Boston Red Sox in MLB, i Pittsburgh Penguins nella NHL, il NASCAR team “Roush Fenway Racing” ed il network di sport regionali NESN.

A queste, nel 2022, ha aggiunto l’AC Milan (mediante la RedBird Capital Partners, fondo di investimento privato di New York, e la Main Street Advisors, società di investimenti di Los Angeles che James ha finanziato per più di un decennio) ed una franchigia di pickleball.

“Guardo a lui come se si stesse preparando allo step successivo della sua carriera da sempre”, ha dichiarato Gerry Cardinale, fondatore e socio dirigente della RedBird. “È chiaro, secondo me, che le prossime fasi saranno: prima quella del passaggio da giocatore all’essere direttamente coinvolto nel fare soldi attraverso media, contenuti e proprietà intellettuale e poi il diventare proprietario”. 

Cardinale, socio di James e Carter da circa dieci anni, ha affermato che gli investimenti fatti da LeBron nel mondo dello sport non hanno rappresentato altro che passaggi programmati e calcolati in preparazione del giorno in cui egli gestirà (finalmente) la sua propria “attività”. James vuole essere il migliore in tutto ciò che fa e per questo si circonda delle persone giuste (il suo staff, potremmo chiamarlo), provando ad assimilare ciò che può da ciascuno di loro. Nello specifico: dal mondo degli investimenti, c’è Cardinale, che è stato socio alla Goldman Sachs per vent’anni, e Paul Wachter, il consulente finanziario di LeBron; per quello dell’azionariato, c’è invece  John W. Henry, principale proprietario della Fenway Sports Group. James è più di un “socio passivo”, anche se (certo) non partecipa in prima persona alle operazioni quotidiane dei Red Sox, Penguins e del Liverpool, e non passa il tempo al telefono a trattare con gli altri general manager (perciò non prendetevela con lui se i Red Sox hanno lasciato che il loro esterno Xander Bogaerts diventasse “free agent”).

Come detto, è tutto un processo di graduale apprendimento, sia per James che per gli altri soci della Fenway Sports Group: perciò, quando sarà il momento, LeBron potrebbe diventare l’equivalente di un quattro volte MVP e campione NBA pure nel mondo della finanza. Sempre secondo le parole di Cardinale: “Vuole sapere come essere LeBron James fuori dal campo, ma se continua a giocare ai livelli attuali, ci vorrà un po’”.

James andrebbe ad aggiungersi ad una corta lista di proprietari di colore di squadre NBA: attualmente, nella Lega ce ne sono 20, tutti di minoranza, anche se nella storia ce ne sono stati già pure due di maggioranza (Robert Johnson e Jordan, entrambi con la franchigia di Charlotte): due dirigenti aziendali di Chicago, Bertram Lee e Peter Bynoe, hanno acquisito il 32.5% dei Denver Nuggets nel 1989, Magic Johnson è stato socio di minoranza (4,5%) dei Lakers dal 1994 al 2010 ed Isiah Thomas (col 9%) dei Toronto Raptors dal ’94 al ’97.

Tuttavia, il piano potrebbe prendere definitivamente forma anche prima del previsto: lo scorso anno, infatti, James ha affermato di voler continuare a giocare fino all’ingresso nella Lega di suo figlio Bronny (il che potrebbe avvenire ottimisticamente nella stagione 2024-25). Senza dimenticare, secondo quanto disposto dall’art. 29, sezione 11 del più recente contratto collettivo nazionale, che i giocatori NBA in attività non possono detenere partecipazioni delle squadre.

“È chiaro, secondo me, che le prossime fasi saranno: prima quella del passaggio da giocatore all’essere direttamente coinvolto nel fare soldi attraverso media, contenuti e proprietà intellettuale e poi il diventare proprietario”.

– Gerry Cardinale
FOTO: BBC News

Come potrebbe evolvere questo progetto?

La NBA ha espresso il desiderio di espandersi nel 2014 e nel 2020. Non più tardi dell’estate scorsa, Silver ha dichiarato che, per quanto non ci siano al momento piani a quel proposito, “ad un certo punto è un qualcosa che accadrà inevitabilmente”. Tra le opzioni venute fuori nel tempo ci sono: Las Vegas, Seattle ed anche Città del Messico.

Le cinque precedenti operazioni di vendita di squadre NBA sono state:

  • Milwaukee Bucks, 2014: 550 milioni di dollari
  • LA Clippers, 2014: 2 miliardi
  • Houston Rockets, 2015: 2.2 miliardi
  • Brooklyn Nets, 2019: 2.35 miliardi
  • Utah Jazz, 2021: 1.66 miliardi

Senza dimenticare un paio di transazioni tuttora in corso: l’imprenditore Mat Ishbia, a fine Dicembre, ha finalizzato un accordo per l’acquisizione di almeno il 50% dei Phoenix Suns per 4 miliardi di dollari; un gruppo guidato dall’ex giocatore di baseball Alex Rodriguez, nel 2021, ha fatto lo stesso per l’acquisto dei Minnesota Timberwolves ad 1 miliardo e mezzo.

James, il primo giocatore NBA in attività ad essere considerato miliardario secondo Forbes, si troverebbe ad affrontare una concorrenza alquanto spietata nel fare sua una squadra. In Settembre, su NBA Today, la giornalista di ESPN Ramona Shelburne ha sostenuto che quelli interessati ad acquisire i Suns, messi sul mercato a seguito di un’indagine sugli affari del loro proprietario di maggioranza Robert Sarver, includevano l’ex “signor Amazon” Jeff Bezos (che vanta un patrimonio stimato di oltre 121 miliardi di dollari), l’imprenditrice e socia di minoranza degli Washington Wizards, Laurene Powell Jobs (12 milardi e mezzo di dollari), il fondatore di Oracle, Larry Ellison (circa 103 miliardi), e l’allora CEO della Disney, Robert Iger (690 milioni). Il patrimonio di Ishbia ammonta invece a 5 miliardi di dollari.

In considerazione del fatto che il contratto di LeBron scadrà al termine della stagione 2024-25, per allora avrà accumulato 520 milioni di dollari nella sua carriera, record assoluto per un qualsiasi atleta nella storia degli sport di squadra negli Stati Uniti. Forbes ritiene inoltre che, a questi, si aggiungano gli oltre 900 milioni guadagnati in contratti di sponsorizzazione con Beats by Dre (acquisita dalla Apple per 3 miliardi nel 2014), Nike, PepsiCo, Coca-Cola, Walmart, AT&T, la sua catena di Blaze Pizza e Crypto.com (per il quale, si spera, sia stato pagato in anticipo).

Nel 2021, RedBird Capital, Fenway Sports Group, Nike ed Epic Games hanno raggiunto quella che è stata definita un’importante partecipazione nella società di produzione cinematografica e televisiva di LeBron, la SpringHill Co., che, ad oggi, ha da sola un valore stimato di oltre 700 milioni di dollari.

Considerata quindi una certa competizione tra miliardari per aggiudicarsi una squadra, nonché la possibilità di porre 2.5 miliardi di dollari come tassa d’ingresso (più alta rispetto ai 300 milioni richiesti nel caso di Charlotte), James potrebbe aver bisogno di partner per raggiungere lo scopo. Due degli ultimi cinque passaggi di proprietà di franchigie NBA (o forse quattro degli ultimi sette se si vanno a considerare eventualmente pure i Timberwolves ed i Suns) hanno coinvolto più di un singolo. Tre anni fa, quando il patrimonio di LeBron era ancora circa la metà di adesso, Watcher ha dichiarato a The Athletic che l’intenzione di LBJ sarebbe stata quella di coinvolgere dai tre ai sei soci. Anche perché, se alla fine vincesse, ci sarebbero da superare delle verifiche da parte degli altri proprietari nella Lega.

Che tipo di proprietario sarebbe LeBron?

Secondo quanto riportato nel libro “Just Ballin’: The Chaotic Rise of the New York Knicks” del 1999, Michael Jordan, al tempo ancora giocatore dei Chicago Bulls, nel corso di una riunione in cui si tenevano negoziazioni per il nuovo contratto collettivo, avrebbe detto ad Abe Pollin, proprietario degli Washington Wizards: “Se non sei in grado di sostenerla economicamente, dovresti vendere la squadra”.

Anni dopo, da “presidente” degli Charlotte Bobcats, Jordan ha convinto un gruppo di proprietari a tagliare fuori i giocatori dai profitti, giustificando così tale mossa al The Herald Sun (giornale australiano): “Abbiamo bisogno di tutte le risorse finanziarie possibili della Lega per tenere a galla questo business, compresa appunto la ripartizione dei profitti”.

Ci si potrebbe aspettare che James prenda spunto da questa sorta di ipocrisia una volta giunto a ricoprire lo stesso ruolo di MJ, ma non per le stesse ragioni di quest’ultimo. Questi, infatti, si è sempre dimostrato “spietato” sia dentro che fuori dal campo, per cui certe manovre sono perfettamente in linea con ciò che Jordan è (oltre ad essere la mossa giusta da parte del proprietario di una squadra). Ma nel caso di James è diverso: avrà ancora più addosso tutta la responsabilità di essere un (atleta) attivista, in mezzo ad un gruppo di dirigenti che prima del 2020, con la morte di George Floyd per mano della polizia, non avevano mai prestato particolare attenzione al razzismo nei confronti delle persone di colore.

Una qualifica assunta da quando, nel 2012, ha indossato una felpa con cappuccio insieme ai suoi compagni dei Miami Heat per rendere omaggio alla morte del giovane Trayvon Martin. Pensando all’inaugurazione della sua “I Promise School” ad Akron, in Ohio, passando per il sostegno a favore dei diritti al voto per gli ex carcerati e l’aver definito l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump “un fannullone”, James viene considerato a tutti gli effetti “un uomo del popolo”. Ha detto di aver sostanzialmente raccolto l’eredità di quelli che, prima di lui, hanno lasciato il segno nel mondo dello sport ed al di fuori di esso anche grazie al colore della pelle: vedi ad esempio il boxer Muhammad Alì e due grandi della pallacanestro come Bill Russell ed Oscar Robertson.

FOTO: Espn

“Certe cose mi pungono sul vivo e le sento sullo stomaco e nel cuore. Quando accadono degli episodi nella comunità nera, non m’importa se sia avvenuto a casa mia ad Akron, a Los Angeles o a Shreveport, in Louisiana”, ha affermato James durante un episodio di “The Shop” la scorsa estate, “di qualunque cosa si tratti, mi farò sentire senza indugi”. 

Ha fatto lo stesso nell’Ottobre dello scorso anno relativamente a Jerry Jones: LeBron ha infatti sostenuto di non essere più un tifoso dei Cowboys a causa di una dichiarazione pubblica di Jones, secondo la quale il patron della squadra di Dallas vietava ai giocatori qualunque tipo di gesto plateale durante l’inno nazionale. L’ala dei Lakers ha poi rincarato la dose due mesi più tardi, provando la presenza di Jones ad un raduno anti integrazionista di soli bianchi.

Per quanto Jones operi in una lega sportiva completamente diversa, sembra proprio che i suoi colleghi in NBA (molti dei quali finanziano politici conservatori) non siano in disaccordo con lui.

Per qualcuno, come James, che è risaputo tenda ad esprimersi apertamente e liberamente sul tema del razzismo, è inevitabile tollerare difficilmente dichiarazioni fuori luogo a riguardo da parte degli altri proprietari bianchi: è già successo, per l’appunto, sia quando ha chiesto l’estromissione del proprietario dei Los Angeles Clippers, Donald Sterling (“Non c’è posto per Donald Sterling nella NBA”) e con Sarver (“Non c’è spazio per la misoginia, il sessismo ed il razzismo in nessun posto di lavoro”), entrambi accusati di aver reso esternazioni razziste.         

Perciò, come affronterà James il fatto di potersi potenzialmente ritrovare in una stanza con un gruppo di persone che la pensano come Jones, Sterling, Sarver… e viceversa?

Joseph N. Cooper, professore di Leadership ed amministrazione nello sport presso l’Università del Massachusetts-Boston, ha studiato l’attivismo di atleti come Alì ed attori come Paul Robeson (la cui richiesta di passaporto era stata negata dal Dipartimento di Stato a causa delle sue frequenti critiche al governo degli Stati Uniti) e pure le ripercussioni al gesto di Colin Kaepernick durante l’inno nazionale nel 2016, fatto che ha senza ombra di dubbio messo fine alla carriera del quaterback a soli 29 anni.

Quegli uomini si sono assunti dei rischi per le loro posizioni antirazziste e tutti ne hanno pagato il prezzo nella loro attività e libertà. James, pur essendosi sempre fatto portavoce di certe istanze, non ha mai superato quel limite, né ha rischiato la carriera mettendosi una felpa col cappuccio o costruendo una scuola elementare. Per questo motivo, Cooper considera James più un “sostenitore” che non un “attivista”.

FOTO: NBC News

“Non si è mai inginocchiato o permesso di dire «non gioco», oppure «Nike, non metterò più questa roba se non farai così e così»” ha affermato il professore, editore di “Anti-Racism in Sport Organizations”, una raccolta di studi pubblicati dal Centro di Ricerca ed Educazione di Management nello Sport dell’Università del Texas A&M.

Cooper evidenzia inoltre la “convergenza d’interesse”, termine coniato da Derrick Bell, avvocato e professore di diritto e precursore della teoria critica della razza: si tratta di un’idea secondo cui la prosperità della razza nera può essere raggiunta solo proprio grazie ad una convergenza dei suoi interessi con quelli della razza bianca. I bianchi hanno bisogno di essere rassicurati sul fatto che trarranno vantaggio da una politica o una legge che influisca sui neri. Quindi, se James spingesse per una metodologia di assunzione sulla falsariga della “Rooney Rule”, dovrà pure dimostrarne i vantaggi da un punto di vista finanziario agli altri colleghi, compresi i suoi co-proprietari (che potrebbero non accettare di buon grado simili iniziative).

Sempre secondo il pensiero di Cooper: “Penso che LeBron userà molta strategia per porre in essere il cambiamento: questo perché, nonostante tutto, dovrà fare in modo che anche gli altri lo accettino. In caso contrario, il suo progetto salterà”.

Il fatto che James diventi, oltre che miliardario, anche proprietario di una franchigia, può rappresentare un fattore positivo netto: stante, infatti, un sempre maggiore incremento di coach e dirigenti neri nel mondo della NBA, ciò potrebbe portare una certa aria di novità pure ai “piani alti”, come fosse l’ultima frontiera dell’equità nella pallacanestro. “Giochiamo sul campo, nei palazzetti, ma non siamo (ancora) stati in grado di raggiungere QUEI livelli”, da parole di “Magic” Johnson a Yahoo Finance nel 2020.

L’ascesa di James è importante pure per la “rappresentanza”.

Parlando della SpringHill a Bloomberg nel 2020, LBJ sosteneva: “Non ho problemi a gestire la pressione delle varie comunità nere presenti qui in America e che guardano a me come fonte di ispirazione e guida. Sono pienamente consapevole del fatto che sia solo una mia responsabilità. Ogni giorno, quando mi sveglio ed esco di casa, mi rendo conto che non riguarda solo me, ma tutte quelle persone”.   

Un aspetto sicuramente importante, ma è altrettanto vero che questa sua “scalata” nella finanza non ha alcun effetto tangibile sulla gente di cui si fa portavoce.

Ora più che mai ci sono miliardari afroamericani, cifre che però impallidiscono se comparate a quelle delle persone bianche: il rapper Jay-Z ha superato circa il 30% dei miliardari neri in un solo giorno lo scorso anno. Quella ricchezza non è però nulla in confronto alle condizioni degli altri afroamericani in giro per il Paese: dai dati riportati dalla Brookings Institution, nel 2016 il patrimonio di un afroamericano medio (17 mila dollari) equivaleva a circa il 10% di quello di un compatriota bianco (171 mila dollari).

“È un dato oggettivo che la sola presenza di miliardari neri ai vertici della società non aiuti quelli che invece si trovano sul fondo”, ha dichiarato Jared Ball, professore di comunicazione alla Black Morgan State University ed autore del libro “The Myth and Propaganda of Black Buying Power”. Ha inoltre aggiunto che il fatto che James diventi un proprietario ha un significato più simbolico che sostanziale quando si tratta di questioni di razzismo. Temi che sono sicuramente importanti per lui, ma come rappresentante di una sfilza di brand e della NBA “non sta offrendo alcuna analisi radicale o programma politico o altra attività che possa davvero rappresentare una svolta e fermare tutto questo”.

Il che è ok, non tutti sono nati per essere inamovibili attivisti o perturbatori. Ci sono un sacco di persone che prendono molto a cuore determinate problematiche, ma che tuttavia non fanno quel “passo in più” per lasciare il segno. Prima di tutto, James è un giocatore di basket professionista.

“Era un professionista ancora prima di diventarlo ufficialmente”, ha detto Ball, “era ancora un ragazzo quando si è ritrovato sulle copertine di tutte le riviste. Quindi in quale momento sarebbe potuto diventare Malcolm X?”. Scetticismo a parte, Ball ha anche aggiunto che non è corretto pensare che atleti o altre celebrità si conformino agli standard politici e alle aspettative delle classi più radicali della società. C’è una differenza fondamentale tra attivisti politici ed atleti, e bisognerebbe capire, farsi una ragione che l’attivismo non è il principale lavoro di James o altri.

FOTO: Sports Illustrated

“Non possiamo partire dal presupposto che arrivi alle nostre conclusioni da solo, considerato il contesto in cui si trova: è un giocatore dell’NBA, un uomo d’affari, è un’azienda, un marchio. Non è un attivista, un organizzatore. Non ha mai ambito ad essere un rivoluzionario. Non l’ho mai visto ad un meeting a cui io abbia partecipato”, ha concluso scherzando Ball .     

Quando si tratta di razza nel business, Robert Johnson, che ha fondato la Black Entertainment Television nel 1980, trasformando una piccola stazione della funivia in un fenomeno culturale poi venduto nel 2000 alla Viacom (ora Paramount) a più di 2 miliardi di dollari, è un uomo di mondo. Essendo diventato il primo miliardario nero nella storia del Paese dopo la vendita di BET, da una parte preferisce mettere in secondo piano (comunque non ignorando) certi temi nei suoi affari: preferisce dimostrare quanto possa essere più equo o più di successo di altri bianchi, piuttosto che rinvangare sulla storica oppressione dei neri. Ha detto: “Non ignorate che non ci fossero proprietari di colore nella NBA, eppure non avete mai sollevato il problema”.

Ma, allo stesso tempo, si dice piuttosto orgoglioso di essere stato colui che ha infranto quella barriera di cristallo, oltre alla quale un tempo potevano accedere solo quelli con una “diversa pigmentazione”. Quindi, per quanto lui stesso non si fosse mai esposto pubblicamente sul razzismo all’epoca in cui possedeva una squadra, Johnson sostiene che la NBA si trovi in una fase di crescente attivismo, e che dunque James non dovrebbe cambiare ciò che è, pur di trovarsi meglio nella Lega.

Ha poi aggiunto che, qualora LeBron dovesse dire qualcosa di poco condivisibile dagli altri, il peggio che possa accadere è che qualcuno glielo faccia presente. Anche se, in ogni caso, non vi sarebbe alcun pericolo: “In nessuna maniera i proprietari proverebbero ad estromettere qualcuno, a meno che non dica qualcosa di particolarmente disdicevole, vedi ad esempio Donald Sterling”.

Tuttavia, secondo Robert Johnson, ci sono tre ragioni per le quali James verrebbe accolto a braccia aperte dagli altri alti dirigenti della Lega:

  • LeBron può probabilmente permettersi di acquistare e sostenere la squadra;
  • Come con Jordan, conoscendo appieno la cultura del basket, ci si può agevolmente relazionare;
  • Il suo brand, riconosciuto a livello mondiale, sarebbe “manna dal cielo” per la Lega (gli stessi Miami Heat, con i quali James ha giocato dal 2010 al 2014, hanno visto incrementare il loro valore di oltre il 111% in quel lasso di tempo).

Il fatto di togliere la canotta da basket per cominciare a vestire abiti su misura non deve fare sì che James cambi la persona che è e le posizioni che ha preso fino adesso. Sarebbe il primo manager in NBA con un background di pubblica lotta al razzismo nei confronti degli afroamericani, che però non è da confondersi con dimostrazioni durante l’inno nazionale o lo sfoggiare un dashiki nelle tre occasioni in cui la sua squadra ha fatto visita alla Casa Bianca. Fintantoché aiuterà la Lega a crescere, le sue prese di posizione non saranno viste come un ostacolo.

“Se sarà in grado di mettere insieme i soldi, sarà più che il benvenuto da proprietario in NBA, oltre ad essere preso come esempio e guida su come affrontare le questioni che hanno un certo impatto sui giocatori”, ha detto Johnson.