FOTO: The Knicks Wall

Questo contenuto è tratto da un articolo di Nick Scolaro per The Knicks Wall, tradotto in italiano da Edoardo Viglione per Around the Game.


Solamente un anno fa, i New York Knicks si stavano preparando alla loro prima apparizione ai Playoffs dopo l’ultima nel 2012 ed erano l’orgoglio della città. Non lo erano solamente per le vittorie che accumulavano, ma anche per il modo in cui scendevano in campo. D’altronde, a New York, quando i Knicks vanno bene si respira di un entusiasmo contagioso, diventa quasi obbligatorio andare qualche volta al Madison Square Garden e le partite diventano eventi più importanti del normale.


A capo di questa rinascita c’è stato indubbiamente Julius Randle, il quale ne ha vissuta anche una anche personale, considerata la sua stagione da 24 punti, 10 rimbalzi e 6 assist di media. Numeri a parte, la migliore della sua carriera.

L’ex Lakers aveva caricato l’ambiente con lo slogan “New York We Here”, che racchiude perfettamente anche l’impegno che Randle voleva mostrare per diventare il nuovo volto dell’organizzazione, che nelle ultime due decadi ha avuto risultati disastrosi. La sua leadership è stata più volte paragonata dai media newyorkesi a quella di Carmelo Anthony, il giocatore che prima di lui, nel 2011, si era fatto carico della sfida di riportare in alto i Knicks.

Nonostante il Most Improved Player vinto lo scorso anno, era abbastanza chiaro che avere Randle come primo violino non fosse una garanzia per una squadra che nel 2022 voleva confermarsi come Playoffs team. Nessuno a New York portava rancore nei confronti di Julius Randle, anzi. Si sapeva che era reduce da una stagione da All-Star, ma che non fosse una superstar in grado di guidare una squadra ad aprile/maggio/giugno.

Negli scorsi Playoffs contro gli Hawks non aveva giocato bene, erano emersi i suoi limiti. Ancora: a New Yok non c’era astio verso di lui, era evidente che non potesse essere la prima opzione di una squadra cometitiva in post-season. I tifosi Knicks, grati per la grande stagione, avevano guardato oltre e apprezzato Randle per la sua attitudine, il suo impegno per creare una cultura ai Knicks e per la sua apparente connessione con la città. Ora, però, qualcosa si è rotto.

I Knicks chiuderanno la Regular Season con un record intorno al 45% di vittorie (attualmente sono 34-43) e nelle ultime settimane hanno abbandonato ogni speranza di raggiungere gli Hawks al decimo posto, l’ultimo valido per il Play-In. Le aspettative nei confronti della loro stagione non sono state rispettate per nulla, e agli occhi di molti tifosi il colpevole numero uno sembra essere diventato proprio Julius Randle.

Il punto non è tanto che l’ex Lakers abbia peggiorato il suo rendimento (e le sue statistiche). La spaccatura si è creata per il suo atteggiamento, in campo e non: scarso effort e applicazione in difesa, tanti possessi in isolamento giocati in modo orribile, altrettanti gesti di rabbia e frustrazione nei confronti di avversari e tifosi, qualche dichiarazione in sala stampa.

Randle ha fatto trasparire spesso nervosismo. Qualche giorno fa è stato protagonista di un alterco inutile con Gobert, il quale sembrava stesse comunque cercando di sedare la situazione; il numero 30 dei Knicks è stato un corpo estraneo al resto della squadra ed è subito rientrato negli spogliatoi dopo la sconfitta contro i Jazz. Aggiungiamo la rissa innescata con Cam Johnson nella sconfitta contro i Suns, la lite con l’assistente video Scott King a bordo campo e, naturalmente, il famoso pollice verso i tifosi del Madison Square Garden.

L’espressione “non riesce a sopportare la pressione di New York” è stata spesso abusata e usata fuori contesto, ma nel caso di Randle sembra molto veritiera. Dopo una stagione da MIP e ritorno ai Playoffs dei Knicks, dopo un’estensione contrattuale da 117 milioni di dollari nella scorsa offseason, le cose non sono andate per il verso giusto. E i suoi rapporti con membri dello staff, compagni di squadra e tifosi (oltre ad arbitri e avversari), si sono subito incrinati. Queste tensioni non giovano a nessuno, specie in una squadra come i Knicks che sta costruendo un’identità.

I suoi ultimi mesi a New York, insieme alla crescita di RJ Barrett, hanno reso possibile (probabile?) un addio nella prossima offseason. Ne abbiamo parlato qui.