
La data dell’8 febbraio ha segnato il termine entro cui una franchigia può integrare il suo roster attraverso scambi all’interno della Lega: ci sono ancora giocatori liberi, free agent o che si possono liberare tramite buyout per poi firmare al minimo per una contender, ma con la pausa dell’All Star Game ormai iniziata, alle squadre restano meno di trenta partite per capire gli asset a propria disposizione e presentarsi nel migliore dei modi ai Playoffs. Una delle squadre che si è mossa maggiormente sono i Dallas Mavericks, che hanno portato in Texas PJ Washington, assieme a due scelte al secondo giro del 2024 e 2028, in cambio di Grant Williams, Seth Curry e una prima scelta del 2027, e Daniel Gafford, scambiato con Richaun Holmes e una prima scelta al Draft del 2024 via Oklahoma City.
Le mosse fatte con Charlotte e Washington portano all’American Airlines Center due role player che si inseriscono nel nucleo di Jason Kidd in un modo in cui gli ormai ex-compagni non ne avevano la possibilità, si assimilano meglio sulla carta con il tipo di gioco di una squadra che rischia sempre di oltrepassare il limite fisiologico con la sua superstar, Luka Doncic: una linea sottile tra l’affidarsi indiscriminatamente a lui (e quindi sovraccaricarlo) e il costruire un sistema Doncic-centrico, a cui però mettere a complemento personale adeguato per far rendere al massimo sia lo sloveno che gli interi Mavericks.
Nelle sei stagioni in cui la stella di Lubiana è stata al timone e, più recentemente, nelle tre in cui il General Manager Nico Harrison e il capo allenatore Jason Kidd hanno imposto il loro imprinting, elevare il roster di Dallas è sempre stato un processo complicato, come camminare sui carboni ardenti, con il rischio di scottarsi in caso di una trade fallimentare.
La débâcle dello scorso anno sembrava aver distrutto quanto di buono fatto vedere nella stagione 2021/22: l’arrivo alle finali di Conference aveva dato quel boost in più alla squadra per permettere di puntare al bersaglio grosso, all’anello, e per mettere un ipoteca sul futuro di Doncic in Texas, tema rimasto un po’ nell’etere fino a quel momento, ma entrato poi a far parte delle discussioni dei corridoi della Lega quando la stagione è andata effettivamente a sud – con la volontaria auto-esclusione dai Playoffs all’ultima partita per salvare il salvabile (la scelta al primo turno dello scorso Draft), una mossa che non ha fatto felice nessuno al di fuori del front office e che è parsa a tutti gli altri una decisione molto cringe.
L’arrivo a Dallas di Kyrie Irving lo scorso febbraio aveva suscitato reazioni miste, ma non c’era dubbio che, se l’ex Nets avesse avuto realmente la testa al campo, il percorso della squadra ne avrebbe beneficiato. Per questo, il record di 5-11 con lui presente sul parquet aveva fatto alzare più di un sopracciglio sullo scambio che aveva spedito a Brooklyn Spencer Dinwiddie, Dorian Finney-Smith e tre scelte (una al primo turno e due al secondo): a questo, aggiungeteci il successo che stava riscuotendo Jalen Brunson a New York, lasciato andare dopo l’enorme post-season culminata con le finali di Conference, e capite il perché i rumors sul futuro di Doncic si facevano sempre più insistenti.
Una delle tante necessità dei Mavs la scorsa estate (in misura differente anche ora) era un difensore primario, qualcuno che potesse marcare l’ala avversaria, misurarsi in modo quantomeno accettabile con i vari Kawhi Leonard, Lebron James e Kevin Durant. La sign&trade che ha portato Grant Williams era stata fatta proprio in questo senso: con il monte ingaggi che non dava molte possibilità di manovra, l’ex Boston era visto come il tipico 3&D, potenzialmente in grado di segnare triple grazie agli spazi creati da Doncic e marcatore forsennato delle stelle che un giorno sì e l’altro pure si palesavano al palazzetto texano. Anche il ritorno di Seth Curry andava, sempre nell’immaginario del front office, ad aumentare quella potenza di fuoco dall’arco generata dalla gravity di Doncic.
La parabola del primo è stata quantomai singolare, passato da titolare inamovibile ad inizio stagione a giocatore in uscita dalla panchina in favore di Josh Green, mentre il secondo è stato senza troppi problemi accantonato e sostituito dalla bella copia di Dante Exum, il quale sta iniziando a giustificare il perché Utah abbia speso per lui la quinta scelta assoluta al Draft del 2014.
È su queste premesse che Dallas ha mandato agli Hornets sia Williams che Curry, scommettendo su PJ Washington, giocatore sempre fuori dai radar in quel manicomio di belle speranze puntualmente disattese e di “what if” che è Charlotte. Il roster dei Mavs è pieno di guardie che si atteggiano ad ali e centri sottodimensionati. L’altezza media dei giocatori di rotazione della squadra era la sesta più bassa della Lega alla trade deadline. Washington è un centimetro più alto di Williams, il giocatore che è chiamato a sostituire, ma la distanza tra loro nel modo di comportarsi in campo non può essere più diversa.
2.00m e 105kg di dinamismo, Washington è un’ala grande, che può essere utilizzata da centro all’occorrenza, in grado di aprire il campo e, soprattutto, di mettere palla per terra in situazioni di recupero della difesa. Se la sua produzione a Charlotte è stata modesta – 13.6 punti, 5.3 rimbalzi e 2.2 assist in 29.2 minuti a partita in questa stagione, tirando con il 44.6% dal campo e il 32.4% dal perimetro – la sua capacità di creare dal palleggio e di non perdere il vantaggio acquisito sono merce rara nell’NBA di oggi.
Nonostante il movimento di Holmgren, Washington in stagione non è un tiratore da tre letale, avendo convertito solo il 31.6% da tre su 5.4 tentativi in stagione, ben 6 punti percentuali in meno di Grant Williams: la speranza, però, è che l’enorme spazio di cui beneficerà, stanti le attenzioni che Doncic richiamerà, possano fargli alzare le percentuali e farle tornare più simili al 38.6% della stagione 2020/21.
La sua rapidità di piedi è una caratteristica di cui Dallas può usufruire anche nella metà campo difensiva, con la possibilità, volendo, di ricorrere più sistematicamente al cambio difensivo, visto che comunque la squadra non brulica di grandi difensori individuali, con Derrick Jones Jr. che, pur eseguendo finora più che discretamente il compito assegnatogli, è chiamato ad essere il marcatore primario della stella avversaria.
La protezione del ferro e la cattura dei rimbalzi è un altro fattore che ha spinto i Mavericks a scambiare per lui e a sacrificare Grant Williams, aggiungendo anche una dimensione verticale all’attacco nel ruolo di ala, già presente con Lively e ulteriormente migliorata dall’arrivo di Gafford. Tra l’ex Wizard, Lively, Green, Jones e Washington appunto, il divertimento a Dallas è assicurato, una rivisitazione di Lob-City con Luka Doncic al posto di Chris Paul.
Parlando di atletismo, Daniel Gafford è uno dei sei giocatori che in regular season hanno messo a referto almeno due rimbalzi offensivi e due stoppate. Non gli si chiede di essere un centro da 25 punti e 10 rimbalzi di media, ma di essere, di fatto, il complemento che Dereck Lively II è riuscito ad essere per Luka Doncic: un rollante del pick&roll, in grado di giocare sopra il canestro e, nella metà campo difensiva, di proteggere il ferro in modo esplosivo.
Prima della fine degli scambi, i Mavs erano 22-14 con il centro rookie in campo e 7-9 quando non è stato disponibile, segnale che Dallas ha bisogno di quel tipo di giocatore. Non a caso Lively, al suo rientro nell’ultima partita disputata dai suoi contro San Antonio prima della pausa, ha avuto un plus/minus di +27 in soli 17 minuti di impiego, una dinamo di energia e intensità.
Presumibilmente Lively continuerà ad essere titolare rispetto a Gafford, ma la prospettiva di avere per quarantotto minuti in campo sempre uno dei due costringe le difese avversarie a rimanere in drop in marcatura sui pick&roll, concedendo quindi al palleggiatore (Doncic) il lusso di non essere costantemente raddoppiato, dal momento che Gafford ha la percentuale dal campo più alta della lega a 68.3% e Lively, nonostante i 5.6 tentativi a partita non lo qualifichino per questa classifica, sta tirando con il 73.6%.
Successivamente a queste due mosse di mercato, il GM Harrison ha detto di aver agito con l’obiettivo di aggiungere taglia, di diventare più profondi nella rotazione dei lunghi e di aumentare le bocche di fuoco in attacco, e ha affermato che sente di aver raggiunto lo scopo con questi movimenti. D’altronde i Mavs si sono ritrovati tra le mani giocatori che, a modo loro, si sono rivelati delle pepite d’oro.
Il primo è sicuramente Dante Exum, riscoperta dell’NBA di quest’anno dopo aver passato anni in Europa al Barcellona e al Partizan Belgrado che, specie in assenza di Irving, ha dato un apporto significativo all’ingranaggio di squadra. Il suo tiro da tre punti è spuntato dal nulla, tanto che sta tirando con il 47% da dietro l’arco su 2 conclusioni a partita (pochi ma buoni), ma la sua efficacia va ben oltre questo: ci sono molti possessi in cui, come visto prima con Washington, ribalta il lato del campo in attacco dopo un vantaggio acquisito, oppure ruota egregiamente in copertura o, ancora, conclude le transizioni offensive. I punti segnati a partita non arrivano a 10, tuttavia il suo impatto è da considerarsi più a 360°.
Il secondo è Derrick Jones Jr., per il quale, come per Exum, i punti a partita, 9.6, non sono l’ago della bilancia. La marcatura sulla stella avversaria e l’abilità nel nascondere la polvere sotto il tappeto dopo le non-difese di Doncic e Irving, invece, sono quello che coach Kidd gli chiede, un’esplosività e un’intensità che sono diventati il nuovo mantra di questi Dallas Mavericks.
Caratteristiche che si possono ascrivere a buona parte dei giocatori a roster tranne che a Doncic, faro e deus ex machina dell’attacco di questa squadra. Una volta leggevamo i numeri per conoscere quanto un giocatore era stato dominante, poi siamo passati al comprendere come potesse essere veramente devastante guardando ogni singolo canestro, ora dobbiamo unire queste due facoltà e cercare di capirci qualcosa, trovando un aggettivo che renda ancora di più l’idea dell’onnipotenza che lo sloveno sta avendo sul pianeta NBA.
I 73 punti fatti piovere sulla testa dei malcapitati Atlanta Hawks sono la tramutazione in movimento di quell’aggettivo del quale ancora non abbiamo trovato la parola, l’esatta trascrizione della frase del pittore Edward Hopper: “Se potessi esprimerlo con le parole non ci sarebbe nessuna ragione per dipingerlo.”.
La capacità di segnare nei modi più disparati lo rende forse il giocatore più immarcabile dell’intera lega. Vantaggi creati dal pick&roll con il lungo avversario che rimane attaccato al Lively o al Gafford di turno, il cambio difensivo per cercare di non concedergli mezzo passo di vantaggio, che comunque si crea facendo uno step-back o un side-step con un arco di gambe che ci ricorda il fatto che lo sloveno supera i due metri d’altezza, decelerazioni impensabili per chiunque, intelligenza cestistica sopra la norma e ingegno nel destreggiarsi anche nelle situazioni più anguste.
Capocannoniere della lega a 34.2 punti a partita, più di 3 punti in più rispetto al secondo, è anche il terzo per assist a 9.5 e il primo rimbalzista tra le guardie a 8.8 di media. La stagione che sta giocando è ancora più clamorosa se pensiamo al fatto che Irving non è stato disponibile praticamente per il 40% delle partite disputate dalla squadra, costringendolo ad avere uno usage di 35.4%, più basso solo di quello di Embiid.
Fino ad oggi Dallas è stata troppo dipendente dalle proprie percentuali dall’arco: anche considerando solamente quest’anno, sono 26-9 quando tirano meglio degli avversari da tre e soltanto 6-14 quando tirano peggio. La volontà del front office è stata chiara, ovvero diversificare le possibilità di ottenere una vittoria, non caricando enormemente Doncic e costruendo una rosa completa. Esattamente quello che voleva Harrison: aggiungere taglia, diventare più profondi nella rotazione dei lunghi e aumentare le bocche di fuoco in attacco.
Possiamo dire con certezza che questa è la squadra più profonda che lo sloveno abbia mai avuto a disposizione. La rotazione è attualmente composta da Luka Doncic, Dante Exum, (Jaden Hardy), Kyrie Irving, Tim Hardaway Jr., Josh Green, Derrick Jones Jr., (Olivier-Maxence Prosper), P.J. Washington, Maxi Kleber, Dereck Lively II, Daniel Gafford, (Dwight Powell).
I tre giocatori tra parentesi verranno verosimilmente impiegati solo in caso di estrema necessità, ma tutti gli altri possono reclamare uno spot negli otto o nove che se la giocheranno ai Playoffs. La franchigia ha fatto a mio avviso due mosse molto accorte, tappando alcuni buchi e risolvendo alcune lacune che si erano create negli anni.
La perdita di alcune scelte al secondo giro non è così impattante su una squadra che ha un imperativo gigantesco: dimostrare a Luka Doncic di essere in grado di costruire un sistema in grado di elevare – come fatto con la trade di Irving – Doncic stesso e tutti i Mavericks, diventare una contender regolarmente, con lui al centro. Di essere la regina, in quel ballo. Di essere il più forte, vincendo l’anello.