Dall’Extremadura alla California, la storia di José Calderon, uno dei vagabondi preferiti della NBA. Sempre guardando avanti e apprendendo da tutti.


Le opere fondative della cultura spagnola – lo avrete capito frequentando qualcuno di questi articoli – sono diverse. Pochi, tuttavia, sono gli scritti in grado di cogliere perfettamente la cultura e l’atteggiamento di un popolo, mostrando anche tratti comuni a qualunque essere umano.

Uno di questi rari casi di perfetta rappresentazione della Vita, per quanto metaforica, è certamente la poesia Caminante, no hay camino, scritta da Antonio Machado ad inizio Novecento in una Spagna travolta da epidemie, recessione economica e dallo sviluppo di quelle tensioni che avrebbero portato a due dittature fasciste ed una Guerra Civile in un ventennio.


L’opera racconta certamente delle difficoltà dei ceti più bassi della Castiglia, rinchiusi in una terra povera e quasi desertica, incattiviti da un’esistenza di sofferenza, ma ci parla anche – come da titolo – della necessità di ognuno di noi di creare un percorso di maturazione, poichè per il viandante non esiste un cammino predefinito, ma solamente la possibilità di formare con i propri passi una strada sicura.

Tanto la situazione particolare quanto quella generale si applicano perfettamente ad un giocatore cult della NBA di inizio anni Duemila come José Manuel Calderón, un figlio di quella Spagna così arida ed uno dei pochi viandanti in grado di imporsi veramente nei cuori dei tifosi di tutta la Lega.

Nascita: Extremadura, fuga, successo: “e volgendo lo sguardo all’indietro// si vede il sentiero che mai// dovrai tornare a calpestare:”

José Calderón nasce il 28 settembre 1981 a Villanueva de la Serena, in Extremadura, una delle comunità più anonime e tranquille dell’intera penisola iberica.

In questo ambiente scarno di stimoli, José – come tutti i ragazzini di quella Spagna appena uscita dal franchismo – inizia ad appassionarsi allo sport, unica via di fuga dalla grigia monotonia del quotidiano. Differentemente dai suoi coetanei del paesino, però, l’hobby scelto non è il calcio, sempre più passatempo nazionale iberico, bensì la pallacanestro.

Una scelta che ha le radici in un altro José, il padre del futuro campione, che si diletta come giocatore amatoriale ed allenatore part-time per il Doncel La Serena, squadra locale.

“Quando ero piccolo giocavano tutti a calcio. Mio padre però era cestista, e perciò ho sempre vissuto con una palla da basket in casa. Ho iniziato a seguirlo, ad andare con lui agli allenamenti, e così mi sono interessato.”

Il bambino sempre al seguito di coach José suscita da subito grandi interessamenti da parte di tutta la Villanueva della palla a spicchi, che adotta il niño quasi come fosse la mascotte locale. José, che nel frattempo ha ovviamente iniziato il proprio percorso giovanile con il Doncel, ha quindi fin da subito la possibilità di confrontarsi con avversari fisicamente e tecnicamente superiori.

Un vantaggio competitivo non indifferente, che lo porta a sviluppare al meglio lo straordinario talento innato di cui era dotato, fino a finire sui taccuini degli scout di tutto il Paese.

Nel 1995, appena compiuti 13 anni, tre di questi osservatori si presentano alla porta di casa Calderón con un’offerta.

Le prime due proposte, più allettanti, provengono dai settori giovanili più vincenti del Paese, Malaga e Real Madrid, la terza, invece, viene da un mediocre club basco in rapida ascesa che sta cercando di preparare l’ingresso definitivo nel basket che conta: si tratta del Saski Baskonia, allora noto, per ragioni di sponsorizzazione, come Tau Ceramica.

FOTO: El espanol

José, ovviamente, propenderebbe in maniera decisa verso un approdo alla Casa Blanca, ma i genitori sembrano essere irremovibili. Mandare il figlio appena tredicenne in una metropoli a 320 chilometri da casa non sembra nemmeno essere in discussione, così come lasciarlo partire verso l’Andalusia. Molto meglio una destinazione come Vitoria: una cittadina piccola, controllata, in cui José non si troverà all’interno di una multinazionale cestistica, ma di un ambiente familiare intento a fornirgli i giusti strumenti per svilupparsi come atleta e come uomo. Una scelta che, viste le prime difficoltà, verrà col tempo compresa dallo stesso José.

“Il primo anno è stato molto complicato. Avevo 13 anni ed era la prima volta che andavo via di casa. Stare senza genitori e senza amici è stato durissimo, ma oggi guardo indietro e penso che quella sia stata la decisione migliore.”

L’arrivo a Vitoria è da subito bagnato da grandissimi successi. Le rappresentative giovanili di coach Alberto Ortega collezionano successi e riconoscimenti  in campo nazionale e Calderón si trova al centro del progetto. A soli quattordici anni coach Manel Comas lo chiama per allenarsi con la Prima Squadra. Un ragazzino magrolino che si muove da veterano smazzando assist per giocatori del calibro di Pablo Laso, Kenny Green e Marcelo Nicola.

Come ai tempi del Doncel, José è considerato come un predestinato da subito guardato con favore dai più grandi, che lo rispettano e non esitano a metterlo nelle condizioni giuste di fare bene. Non un cattivo inizio, ma il meglio del cammino deve ancora venire.

Affermazione: Nazionale, prestiti, vittorie: “Caminante, non c’è cammino// solo scie nel mare.”

Il successo basco di José, confermato anche dal nuovo allenatore Sergio Scariolo nel giro dei giocatori che fanno la spola tra giovanili e prima squadra, non passa certamente inosservato in un movimento che – dopo l’insperata medaglia a Los Angeles ’84 – ha deciso di cercare nei giovani la propria rinascita.

Calderón, perciò, entra fin da subito a far parte della selezione under-19 guidata da coach Charly Sainz de Aja insieme a Felipe Reyes, Pau Gasol, Juan Carlos Navarro, Raul Lopez. La squadra domina nell’estate del 1998 gli europei a Varna in Bulgaria – perdendo soltanto contro Israele – e si appresta a giocare, da seconda favorita dietro alla rappresentativa a Stelle e Strisce, il mondiale juniores 1999, per un caso del destino da disputarsi a Lisbona, a pochi chilometri da casa.

Calde, come veniva chiamato dai compagni, non prenderà però parte a quella mitica – e vincente – spedizione. Un infortunio occorsogli pochi mesi dopo il rientro dalla Bulgaria, infatti, gli impedirà di essere fisicamente con i suoi compagni. Un’assenza, che, tuttavia, anche a distanza di quasi 23 anni non mette in discussione l’apporto dato da José a quella squadra, tanto che tutti i componenti di quel gruppo ricordano sempre, quando intervistati sulla vittoria, di come quel mondiale l’avesse vinto anche lui, il più giovane quel collettivo che ha rivoluzionato la mentalità cestistica spagnola.

Riconoscimenti esterni a parte, la delusione di José all’approcciarsi della stagione 1999/2000 è indubbiamente forte. A lenire parzialmente le insoddisfazioni “mondiali”, tuttavia, ci pensa la dirigenza stessa del Tau, che comunica al giovane base dell’Extremadura di aver deciso di spedirlo in prestito in Seconda Serie per permettergli di cominciare a confrontarsi con il basket che conta.

La destinazione è una quieta città – la movida non sembra essere una delle prerogative di José nei trasferimenti – del litorale valenciano: Alicante, dove ha sede il Lucentum, società fondata solamente sei anni prima e desiderosa di mantenere la categoria.

Il nativo di Villafuente si aggrega al gruppo di coach Andreu Casadevall con un compito che, in altri tempi, si sarebbe potuto paragonare a quello dell’assistente di bottega: nessuno, nemmeno a Vitoria, si aspetta infatti che il diciottenne, per di più reduce da un grave infortunio, possa essere in grado di togliere più di qualche minuto sul parquet a David Gil, playmaker titolare designato e – nonostante i soli 21 anni – navigato giocatore di categoria (non a caso, è oggi uno dei giocatori con più promozioni all’attivo).

FOTO: FEB.com

Il base dell’Extremadura, tuttavia, riesce come al solito a trovare il proprio posto al tavolo dei grandi, mostrando da subito in allenamento una grinta nuova rispetto alla pacatezza con cui si era sempre approcciato alla vita, e ingaggiando con l’amico-rivale una lotta spietata ricordata ancora oggi da entrambi, sebbene il più giovane, come quasi sempre accade in questi casi, cerchi di minimizzare.

“Sono arrivato ad Alicante conscio di non poter fallire, almeno se avessi voluto crescere ancora come giocatore. Approfittavo ogni giorno della possibilità di allenarmi con un gruppo giovane e con un regista come David Gil. Mi è servito molto.”

– José Calderon

“Che anno mi ha fatto passare! Aveva solo 18 anni ma già mostrava un’intensità brutale negli allenamenti. Avevamo una rivalità sportiva talmente grande che sembrava difficile stargli dietro. Gli ho sempre detto che sarebbe arrivato dove voleva.”

– David Gil

L’allievo, quindi, riesce da subito a mettere in difficoltà il maestro, mostrando il proprio talento fin dalla primissima uscita, bagnata da 9 punti in 19 minuti contro la Ourense, una delle favorite alla vittoria finale. Da lì in poi il gruppo valenciano mette in fila un risultato dietro l’altro, chiudendo la stagione con il primo posto in classifica, frutto di 22 vittorie e solamente otto sconfitte.

Anche per il ragazzo arrivato a farsi le ossa alle spalle di Gil l’annata risulta particolarmente proficua, visti i quasi 9 punti e 2 assist di media fatti segnare in 29 partite disputate su 30.

La squadra si trova perciò ad affrontare con i favori del pronostico gli articolati Playoffs della serie cadetta iberica, al tempo portatori di due promozioni nella massima serie. Dopo aver facilmente regolato per 3-0 Córdoba, Alicante si ritrova perciò a giocare la decisiva serie di semifinale contro Lleida, altra sorpresa catalana del campionato.

Divisesi le prime due gare nella Comunità Valenciana, le squadre si recano a Lerida per Gara-3, giocata davanti a 6000 spettatori ammassati nel piccolo palazzetto locale. La partita, segnata da grossolani errori arbitrali a favore della squadra di casa, viene vinta dai catalani, che condannano il Lucentum a disputare le ultime due gare della serie con l’obbligo di vincere.

“La partita a Lerida è stata infernale, una locura, ma ci siamo resi conto lì di poter vincere.”

Alicante, tuttavia, non si scompone. Gara-4 viene vinta agevolmente, riportando la serie sulla Costa Blanca per lo spareggio decisivo. La settimana che precede la sfida è segnata da un insolito fervore cestistico per la città, che si stringe intorno ai propri beniamini anche per vendicare i torti subiti nella terza partita.

Forse proprio per questa pressione, la squadra di coach Casadevall disputa quello che probabilmente è il peggior primo tempo di tutta la stagione, andando a riposo con il pensante parziale di 35-44. Nella seconda frazione, però, Gil si rende per la prima volta protagonista di quello che diverrà il suo marchio di fabbrica per tutta la carriera: l’assolo prolungato all’interno di una partita promozione. Alicante, grazie alle sue sei triple in una metà di gioco, vince la partita, conquistando la promozione.

Il Lucentum è in Liga, e con lui il giovane playmaker arrivato dall’Extremadura via Paesi Baschi.

“Quello è uno dei momenti più importanti della mia carriera. Sono stati i miei primi anni da professionista, e senza Alicante non sarei dove sono ora.”

Anche a Vitoria sembrano essere contenti del percorso intrapreso dal proprio giovane dalle parti di Valencia. Il Baskonia, infatti, decide di confermare il prestito anche per la stagione successiva, facendo debuttare José in Liga con la maglia del Lucentum. La prima nella Massima Serie, datata 14 ottobre 2000, è una dimostrazione lapalissiana della paura del palcoscenico: 3 punti, 0-2 dal campo, 21 minuti. Da lì in poi, tuttavia, Calde comincia a scalare le gerarchie, superando anche l’apparentemente intoccabile David.

Nonostante una buona stagione vissuta quasi interamente da titolare, tuttavia, la squadra retrocede assieme all’altra neopromossa Ourense, iniziando un lungo saliscendi tra prima e seconda serie che sarebbe terminato solamente nel 2013, anno di un fallimento da cui la squadra sembrerebbe essersi ripresa solamente nelle ultime stagioni.

Per permettere a José di rimanere in Liga, tuttavia, la dirigenza del Tau, ormai convinta che il ventenne extremeño sia centrale per il proprio futuro, decide di non lasciarlo per una terza annata ad Alicante e di mandarlo a Fuenlabrada, squadra di metà classifica con ambizioni Playoffs.

Calderón si staglia come elemento centrale di quella squadra in grado di fare una breve apparizione alla postseason, mostrando definitivamente al campionato di essere un giocatore completo. L’annata viene chiusa con 9.6 punti e 1.6 assist in 32 partite, abbastanza per convincere il Baskonia a riportarlo definitivamente a casa.

Tau Ceramica/Baskonia: “El camino y nada más.”

Il Tau in cui arriva José è diventato senza mezzi termini una superpotenza cestistica europea. Campioni in carica della Liga – primo titolo della loro storia – i baschi hanno a roster alcuni dei giocatori più emblematici del decennio: Luis Scola, Andres Nocioni, Hugo Sconochini, Sergi Vidal.

Il ruolo di playmaker, tuttavia, è indubbiamente il più scoperto, un vantaggio importante per Calderón, che arriva con la consapevolezza di avere per le mani il proprio destino, di trovarsi nell’ambiente giusto per compiere quanto tutti gli avevano preventivato fin dai tempi dei juniors de oro: diventare il leader del baloncesto iberico, ormai orfano di un Pau Gasol emigrato in NBA.

FOTO: Baskonistas

La guardia di Villafuente, tuttavia, si scontra fin da subito con la durezza della realtà, impersonata nell’indice ammonitorio e nelle urla ispano-slave di coach Ivanovic. L’esigente allenatore montenegrino, animato forse da una sincera stima, torchia senza mezzi termini il proprio numero 5, mandandolo spesso a casa in condizioni emotivamente e fisicamente disperate

“Una volta sono tornato a casa in lacrime, parlavo con mia moglie e mi chiedevo dove stessi sbagliando.”

Le prime stagioni basche sono  forse uno specchio di questo rapporto inizialmente così complicato: Calde, infatti, deve accontentarsi del ruolo di riserva dell’idolo della Liga Elmer Bennet, mentre il Saski, sottotono rispetto al 2002, mancherà sempre la vittoria finale del campionato, pur spendendo ogni anno per migliorare la rosa.

Anche in Eurolega, le cose non sembrano essere migliori. Nel 2003 e nel 2004, infatti, il Tau non riesce ad andare oltre le Top-16, mancando i Playoffs. All’inizio della stagione 2004/05, tuttavia, qualcosa sembra cambiare.

Il Saski, infatti, aveva aggiunto negli anni al proprio roster giocatori di esperienza come Pablo Prigioni (l’uomo che aveva fatto il percorso inverso rispetto a Calde tra Fuenlabrada ed Alicante), Tiago Splitter e, soprattutto Arvydas Macijauskas, guardia lituana da quasi 16 punti nelle mani.

Dopo un aio d’anni di accorgimenti ed aggiustamenti quindi, il gruppo sembra pronto per dare l’assalto all’unica coppa che manca, conscio del fatto che tanto Scola quanto José (dichiaratosi eleggibile al Draft già un paio di anni prima) siano prossimi al passaggio oltreoceano.

 L’inizio, come sempre in una competizione così incerta, è però complicato. I ragazzi di Ivanovic (anch’egli all’ultima stagione con il Tau) perdono otto delle quattordici partite del primo girone, agguantando la vittoria solo grazie ai due punti in più segnati negli scontri diretti contro Malaga.

Con il sopraggiungere delle Top-16, considerate anche le difficoltà in un campionato che viene fin da subito accantonato, la musica sembra cambiare. Il Tau, infatti, rimane imbattuto in casa contro Panathinaikos, Fortitudo e Zalgris, vincendo in Lituania la partita decisiva per entrare ai quarti di finale, da disputare al meglio delle tre contro Treviso, superteam della provincia all’ultima corsa proprio come il Tau. La Benetton viene annichilita in casa propria per 98-59, con 34 di Scola e 12 di José, per poi essere agilmente sconfitta anche nei Paesi Baschi. Il Tau è finalmente alle Final, dove affronterà i favoriti del CSKA Mosca.

La partita contro i russi, vinta faticosamente, sarà però l’ultimo successo, forse il più rappresentativo, del nucleo di Ivanovic. Calderón, ancora una volta falcidiato da problemi fisici, gioca una Finals Four stoica, che si conclude tuttavia con la vittoria del Maccabi.

È giunto il tempo di fare il salto più grande, di crearsi il proprio cammino dall’altra parte dell’oceano. Perché guardarsi indietro non è possibile, come il Caminante machadiano.

Toronto, il record, i liberi: “Il percorso si crea camminando”

Terminata la stagione con una deludente sconfitta per mano del Madrid in Finale Scudetto, il destino del gruppo di Dusko, già pronto a partire in direzione Barcellona, sembra segnato: smantellamento e ricostruzione con giocatori più giovani, non ancora logorati da così tante sconfitte e dagli stipendi più abbordabili per il club.

José – insieme a Scola – figura però tra i capisaldi anche del nuovo progetto, per il suo attaccamento alla maglia e per la difficoltà a reperire un sostituto valido sul mercato. Lui, però, ha ormai deciso: è ora di tentare il salto in NBA, anche per ragioni meramente anagrafiche.

“Credo che questo sia il momento giusto. Alla mia età è meglio così, anche per avere delle alternative se le cose andassero male. Meglio partire a 26 anni che a 30.”

Le squadre interessate a lui all’interno di una Lega che sta sempre più cercando di aprirsi al mercato internazionale – soprattutto per quanto riguarda gli small market – non mancano. Di cinque pretendenti incontrate, tuttavia, l’unica con reali possibilità di vittoria in un futuro a medio termine sembrano essere i Toronto Raptors, prontamente scelti dall’ormai ex-giocatore del Baskonia come meta.

L’approccio con The 6ix è da subito incredibilmente positivo. José si innamora della città in tutti i suoi aspetti di multietnicità e serena convivenza, facendosi per primo portavoce presso i giocatori area FIBA della bontà della scelta canadese. Una pubblicità che nel tempo si rivelerà decisamente utile per quella che al tempo era una delle squadre dalla peggior fama nella Lega.

Dal punto di vista tecnico, però, l’approccio sembra essere meno roseo. Calde incontra in Ontario una barriera linguistica quasi anacronistica per i tempi, finendo per venire bonariamente messo da parte dai compagni, che impietositi decidono addirittura di evitargli le umiliazioni tipiche dell’anno da rookie in modo da permettergli di integrarsi serenamente.

In campo, poi, la squadra di coach Sam Mitchell e Chris Bosh sembra essere una bellissima incompiuta, mostrando sprazzi di incredibile talento accompagnati da serie di sconfitte al limite dell’imbarazzante. Un antipasto amaro delle successive stagioni, decisamente positive.

FOTO: Hoopshype

Terminata questa prima, difficoltosa annata, José prende parte, con quasi tutto il gruppo del 1999, per i Mondiali giapponesi, che vedono la Spagna per la prima volta campione. Un ristoro di quell’assenza per infortunio di sette anni prima, oltre che l’inizio di una meravigliosa storia d’amore con La Roja.

Di ritorno dal paese del Sol Levante, José porta a Toronto anche Jorge Garbajosa, da Malaga, tra le prime ali grandi in grado di tirare costantemente da fuori e pedina fondamentale di quei Raptors versione 2006707.

Insieme a lui era arrivato in offseason il playmaker TJ Ford e, su grande insistenza del vicepresidente Maurizio Gherardini, ex-Benetton Treviso, era stato pescato con la prima scelta assoluta Andrea Bragnani, secondo tutti gli analisti perno del futuro di Toronto in una ammodernata versione delle Twin Towers con Bosh.

Nonostante le grandi manovre estive, tuttavia, la squadra di Mitchell inizia la stagione sotto le aspettative, soprattutto per quanto riguarda le percentuali di tiro. Per risollevare la situazione, quindi, viene chiamato uno degli specialisti nell’allenamento della meccanica, Dave Hopla. Il nuovo assistente si innamora da subito della dedizione di José, prendendolo sotto la sua ala dal primo allenamento; un connubio che porterà lo spagnolo a migliorare i suoi già ottimi risultati al tiro.

“Quando ero nel coaching staff dei Raptors ho lavorato con TJ Ford e Josè Calderon. Li chiamavo ‘Sports Cars’, perché erano entrambi velocissimi, ma c’era una differenza: TJ si allenava molto più lentamente rispetto alla sua velocità massima in partita, come se invece di andare a 250 all’ora andasse solo a 200. Andando più piano, non allenava il tiro nel modo giusto, perché non prendeva in allenamento lo stesso identico tiro che avrebbe preso in partita.

Josè, pur essendo leggermente più lento, si allenava con la stessa intensità della partita. Ogni tiro di Calderon era quindi identico a quello che avrebbe poi preso in gara.”

– Dave Hopla

La squadra, che soffre una precoce eliminazione ai Playoffs del 2007, continua nella stagione successiva il proprio percorso di crescita, anche grazie ad un José particolarmente ispirato. Quella 2007/08, infatti, è forse la miglior versione di Calderón in NBA.

Rubato il posto a TJ Ford, Calde chiude l’anno con 11.2 punti e 8.3 assist di media in 30 minuti, facendo segnare al contempo il miglior AST/TO ratio dai tempi di John Paxson (1991/92), numeri da borderline All-Star che, tuttavia, non risparmiano i Raps da un’altra eliminazione al primo turno, questa volta per mano dei giovanissimi Orlando Magic. Una sconfitta che inizia a far aleggiare i primi dubbi sul gruppo di Toronto, forse incapace di competere al massimo livello.

Da quel momento in poi il core della squadra inizia a smembrarsi, con la squadra che mancherà ininterrottamente i Playoffs dalla stagione 2008/09 a quella 2013/14. José, che aveva rinnovato il contratto nell’offseason 2008, si ritrova quindi in un ambiente mediocre e con un roster continuamente rivoluzionato.

Unica soddisfazione in questi anni difficili è il notissimo record di percentuale ai liberi, ottenuto nella prima di queste stagioni così travagliate. 151/154, un 98.1% accolto dal viaggiatore Josè con la solita umiltà consapevole. 

“I liberi dovrebbero essere la cosa più facile. È tutto sempre uguale, sei solo tu, non c’è difesa. Qui entra in gioco l’aspetto mentale, inizi a pensare troppo. La mia capacità è stata quella di disconnettermi da tutt ogni qualvolta dovessi tirare un libero.

Con l’arrivo degli Anni Dieci, tuttavia, rimane ben poco da segnalare, se non uno degli episodi più italiani che possano esistere: The Deflection, con protagonisti proprio José e Lapo Elkann, autore di una giocata clutch decisiva per salvare la vittoria dei Lakers allo Staples Center.

Gli ultimi anni in NBA: la fine del viaggio

Dal 2013/14 in poi, complici anche alcuni problemi fisici dovuti all’età, Calde si trasforma nel più classico dei journeymen NBA, cambiando sei squadre in sette stagioni. I primi due anni, passati tra Detroit e Dallas, lo vedono come prolifico sesto uomo con oltre 10 punti nelle mani; i restanti, invece, fanno di lui uno degli uomini-spogliatoio più ricercati della NBA, un giocatore perfetto per le squadre senza obiettivi, perché umile, economico e capace di far crescere giovani prospetti nel suo ruolo.

Una sorta di payback per i tempi di Villafuente ed Alicante, in cui i più anziani permettevano a lui di giocare, favorendone lo sviluppo. In questa fase di chiara flessione sportiva, due sono i momenti certamente da ricordare. Il primo, durante la trade season 2017.

I Golden State Warriors, alla disperata ricerca di un veterano affidabile per colmare le terze linee e rispondere a dei Cavs attivi nel mercato dei quasi-ex giocatori, decidono di affidarsi al play dell’Extremadura, firmandolo con un contratto da 400 mila dollari fino a fine stagione. Due ore dopo l’annuncio, tuttavia, un infortunio occorso a Kevin Durant costringe Bob Myers al taglio di José e alla ricerca di un giocatore che possa sostituire l’ex-Thunder. Risultato: stipendio corrisposto interamente nonostante i 140 minuti scarsi passati “con la squadra”.

Il secondo, invece, ha luogo la stagione seguente, passata con i Cleveland Cavaliers, l’unica franchigia con cui José giocherà, perdendole malamente, la Finali NBA. Channing Frye, non esattamente il vostro luminare preferito, si imbatte su Google in un banner che afferma che il compagno possieda un patrimonio di 2.2 miliardi di dollari grazie alle quote del padre nell’azienda che si occupa di imbottigliare i prodotti Coca-Cola. Convinto della veridicità della notizia dal nome (José Calderón sr.) e dalla nazionalità (è messicano, come quello che gioca con noi, no?), Channing fa girare la notizia per tutta la Lega, costringendo il sempre silenzioso Calde a pagare più di una cena.

Attimi di lucida follia che fanno da corollario ad un viaggio meraviglioso, vissuto sempre tra la tragedia e la commedia, in pieno stile iberico.

Da vero Caminante.