Dai Brooklyn Nets di Pierce e Garnett ai Timberwolves di Jimmy Butler, una lunga serie di esperimenti falliti.

“In this fall, this is very tough, in this fall I’m going to take my talents to South Beach and join the Miami Heat.”
Le parole pronunciate da LeBron James a ESPN nel luglio di 12 anni fa sono oggi considerate all’unanimità un manifesto dell’all-in cestistico, una rappresentazione plastica – ed enormemente mediaticizzata – di cosa significhi puntare tutte le fiches e sacrificare il proprio futuro. Quello dei Miami Heat del quadriennio Big Three, tuttavia, è da considerarsi senza alcun dubbio uno dei casi più riusciti di “championship or bust” visti i due anelli che danno lustro all’argenteria dei protagonisti.
In moltissimi altri casi, invece, ragioni differenti hanno portato squadre sulla carta di primissimo livello a fallire alla prova della stagione regolare, in un’eloquente reminder di come le idee dei front office, spesso e volentieri, non vengano comprovate sulla carta.
Nel raccontare alcuni di questi flop, tuttavia, si sono voluti privilegiare gli esperimenti più umoristici e meno ricordati, lasciando ad articoli precedenti i già raccontati naufragi delle varie versioni instant team dei Los Angeles Lakers e alcune storie decisamente degne di nota, ma dal colorito meno surreale. Ecco le nostre scelte.
In the desert: gli Houston Rockets del 1998/99
L’offseason del 1998, allungata a causa del primo lockout della storia NBA, vede un solo, grande desiderata da parte di tutti i team di vertice: Scottie Maurice Pippen da Hamburg, Arkansas. Il numero 33, infatti, è deciso a monetizzare per la prima volta in carriera dopo la lunga vicenda contrattuale con i Chicago Bulls, ma vuole allo stesso tempo avere la chance di competere per la vittoria finale in modo da oscurare completamente la sua fama di “miglior secondo violino di sempre” e liberarsi dall’ombra, sempre ingombrante, di un certo numero 23 originario della North Carolina.
Indiziati numero uno a portare a casa i talenti del numero 33 sono gli Houston Rockets di coach Rudy Tomjanovich, per diversi motivi il landing spot perfetto per la legacy di Pip.
Anche i texani, come Scottie, avevano l’assoluta necessità di scrollarsi il prima possibile di dosso un’etichetta infelice, vista la propria nomea nella NBA di superteam fallito. Dopo i titoli targati Hakeem Olajuwon nel ’94 e nel ’95, infatti, si erano susseguiti esperimenti poi naufragati che vedevano il nigeriano affiancato da due grandissime superstar in pieno ring chasing come Charles Barkley e Clyde Drexler.
Proprio in seguito al ritiro di The Glide nell’estate 1998, quindi, la squadra è decisa a trovare l’amalgama giusto per puntare all’Anello. Uno specialista difensivo dalle spiccate qualità off-ball non può che essere l’aggiunta giusta, e il front office non perde tempo a muovere i fili giusti. Per prima cosa, viene convocato dagli executive di H-Town Charles Barkley, cui viene proposta una soluzione per l’epoca decisamente inusuale: tagliarsi lo stipendio per far spazio al nuovo arrivato, in modo da risolvere la sindrome da Nido Vuoto del dito anulare destro. Una mossa normalizzata dalla NBA delle ultime stagioni, ma che a fine Anni Novanta implicava anche una perdita di status non indifferente.
“L’unico anno che sono stato grasso nella mia carriera è stato il 1999/00. Ero incazzato. L’anno prima mi ero tagliato lo stipendio ad un milione per far spazio a Pippen. Mi avevano detto: ‘Abbiamo bisogno che ti tagli lo stipendio per firmare Scottie,’, al che ho detto: ‘Perfetto, adorerei giocare con Scottie.’… poi però l’anno seguente mi hanno pagato meno di quanto mi avessero promesso, e così ero grasso e poco motivato.”
– Charles Bakley
Al di là della storia del successivo litigio, esilarante ma poco inerente alla nostra storia, il taglio al salario di Barkley permette a Houston di orchestrare una sign-and-trade con Chicago e a Pippen di firmare un contratto quinquennale al massimo salariale di – udite, udite – 67 milioni. Un accordo assolutamente sfavorevole per i Bulls, che si vedono arrivare in cambio Roy Rogers ed una scelta al secondo giro, ma che venne motivata da Krause come un “regalo d’addio” a quella che era stata la prima superstar da lui scelta per costruire la dinastia-Jackson.
Arrivato nel deserto del Southwest, tuttavia, Scottie sembra fin da subito un corpo estraneo rispetto ai suoi nuovi compagni. La seconda operazione alla schiena, infatti, ha rallentato non di poco l’esplosività difensiva del numero 33, mentre l’assenza di un sistema organizzato e dinamico come il Triangolo sembra scoprirne molto di più i limiti offensivi.
Nonostante le difficoltà, tuttavia, la squadra sembra trovare una specie di quadratura del cerchio nella regular season accorciata (50 partite) dell’inverno-primavera del 1999. Sostenuti anche da un Micheal Jordan molto vicino alla squadra e all’amico Pip, i Rockets vincono 31 partite, chiudendo al quinto posto nella Western Conference.
Come sempre in questi, i commentatori ed i bene informati sono perciò convinti che i campioni sapranno alzare ulteriormente il proprio livello di gioco nel momento in cui il livello si alza, superando quasi senza fatica il torpore della regular season. Gli avversari, poi, sembrano essere perfetti per una serie allenante ed esaltante in grado di proiettare alle partite che contano: dall’altra parte del parquet per il Primo Turno, infatti, ci sono i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal, fino a quel momento una giovane e affascinante incompiuta.
Proprio nel momento in cui si sprecano le generali aspettative di resurrezione, invece, il gruppo implode clamorosamente, perdendo in quattro gare – allora il primo turno era ancora al meglio delle cinque partite – una serie mai realmente in discussione. Da lì, lo scioglimento: Barkley, come detto, ha da ridire sulle cifre del suo contratto e inizia una lunghissima ed estenuante diatriba con la dirigenza, mentre Olajuwon, martoriato fisicamente da anni di livello assoluto, inizia un sostanziale declino che lo porterà nel 2001 a lasciare la sua Houston per chiudere la carriera con i Toronto Raptors.
Pippen, dal canto suo, è ormai totalmente avulso al gruppo e inizia a lanciare a mezzo stampa e in allenamenti aperti ai reporter dei dardi infuocati in direzione di Barkley, suo acerrimo nemico ai tempi delle sfide tra Chicago e Phoenix con cui non è mai avvenuta una reale riappacificazione.
“Dovevo ascoltare Mike, non vincerai mai niente.”
“Ringraziarti? Dovresti ringraziarmi tu per essere venuto a giocare col tuo culone grasso.”
– Scottie Pippen
Obiettivo delle suddette intemerate è farsi scambiare ai Los Angeles Lakers, squadra dai due innegabili pregi: il mix di giovane età e talento e la scelta di assumere, all’inizio dell’offseason, Phil Jackson come capo-allenatore.
L’ammutinamento non riuscirà, nonostante i tentativi di LA, proprio a causa di quel contratto pesante così a lungo ricercato. A strappare un accordo con Pippen ed i Rockets saranno quindi i Portland Trail Blazers, dove Scottie continuerà la propria carriera da apprezzatissimo veterano.
Nei fatti, l’esperimento-Titolo in Texas è terminato dopo meno di una stagione. Il commento migliore della vicenda, come spesso avviene, è quello dato recentemente dallo stesso Pip.
“Pensavo di aggiungermi ad un superteam di qualche tipo, ma non ha funzionato. Non avevamo la giusta chimica ed eravamo invecchiati. Non penso sia stato un buon fit per me. Venivo da una seconda operazione alla schiena e avevo bisogno di un pochino di gioventù in più intorno a me. Non mi ero reso conto di quanto Hakeem fosse calato e Charles non fosse pronto ad impegnarsi quanto pensassi.”