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Prima, un ragazzino troppo esile per l’NBA, con caviglie eccessivamente fragili, in una squadra da Lottery. Poi, sei Finals, quattro anelli, due MVP, di cui uno raggiunto con l’unanimità dei voti. E in mezzo? In mezzo ci sono due anni di transizione e crescita, in cui Stephen Curry non è né il ragazzino, né il dominatore della lega, anche se a tratti sembra entrambe le cose. 

All’inizio dell’era Curry a Oakland, sulla panchina degli Warriors non c’era Steve Kerr, bensì Mark Jackson

Jackson fu incaricato già per la stagione 2011/12, in cui però Curry fu costretto a saltare 40 partite su 66 per, neanche a dirlo, infortunio. La squadra si piazzò 13esima nella Western Conference, con il desolante record di 23-43. Ma il Curry giocatore come noi lo conosciamo nasce, in contemporanea con il roster che aveva intorno, nella stagione 2012/13. Finalmente risparmiato dalle sue caviglie, Steph si affermò presto come primo violino degli Warriors che si piazzarono sesti a fine stagione.


Il sistema di Jackson aveva già una forte impronta collettivista, ma la principale fonte di gioco era lui. Rubò l’occhio di tutti gli appassionati la sera del 27 febbraio, siglando 54 punti nell’iconico palcoscenico del Madison Square Garden.

Chiuse la stagione con 23 punti e 7 assist di media con il 58% di True Shooting e 5.3 di Offensive Box Plus Minus: ancora lontano dalle cifre a cui ci ha abituati negli anni a venire, ma abbastanza per animare un ambiente che era inizialmente scettico sulla scelta di puntare su di lui a discapito di Monta Ellis

Warriors ai Playoffs sei anni dopo l’ultima volta, e gli avversari sono i Denver Nuggets. I Nuggets di George Karl, una squadra vintage e moderna allo stesso tempo, avevano meravigliato in Regular Season, ma arrivarono in post-season privi di Danilo Gallinari, una delle principali bocche di fuoco. Tale assenza pesò molto nel corso della serie, soprattutto per quanto riguarda le percentuali da tre punti (31% di squadra), che permisero agli Warriors di fare un uso massiccio della difesa a zona, compromettendo l’attacco a metà campo di Ty Lawson, Iguodala e compagni. Ma questa serie è conosciuta come il primo vero squillo di Stephen Curry, salito in cattedra in assenza di David Lee.

Le statistiche dicono 24.3 punti e 9.3 assist di media con il 61% di True Shooting, il campo mostrò un giocatore elettrizzante con il potere di accendere l’Oracle Arena da un momento all’altro. Per l’intera serie, i Nuggets non riuscirono nemmeno ad avvicinarsi alla risposta al Pick&Roll tra Curry e Bogut, pur provandole tutte, anche perchè le armi a disposizione non andavano oltre a Kenneth Faried e Javale McGee.

La consacrazione definitiva arrivò in Gara 4, in cui Steph sentì l’odore del sangue e mise a segno 31 punti, di cui 22 nel terzo quarto, di cui 14 negli ultimi tre folli minuti. La serie finì 4-2.

L’avversario del secondo turno furono i San Antonio Spurs, gli stessi Spurs che andarono a un miracoloso tiro di Ray Allen dal vincere il titolo in quello stesso anno. Curry aveva finalmente attirato l’attenzione della lega, e chi meglio di Gregg Popovich per smorzare l’entusiasmo e mettere in risalto i limiti della nuova stella?

Per la verità non accadde fin da subito, anzi; in Gara 1 Steph mise in scena quella che rimane ancora oggi una delle sue migliori prestazioni in carriera: 44 punti e 11 assist con il 51% dal campo e 6/14 dall’arco, per portare i compagni al secondo overtime, perso poi per mano di Manu Ginobili.

Quella partita servì a San Antonio per prendere le misure e preparare una strategia ai limiti della perfezione, che fece chiudere la serie del nativo di Akron con solamente il 50% di True Shooting, il peggior dato della sua carriera ai Playoffs. Gli Spurs alternarono oculatamente raddoppi e una posizione in drop coverage molto alta di Tim Duncan, per togliergli la palla dalle mani o costringerlo ad attaccare il ferro, dove Curry all’epoca concludeva con un misero 54% (52esimo percentile nel suo ruolo). Coach Popovich impegnò spesso su di lui il miglior difensore a disposizione, e probabilmente il migliore della lega, ovvero Kawhi Leonard. 

Il resto lo fece l’inesperienza di Steph (e di Mark Jackson), che cadde nella trappola degli avversari e non riuscì praticamente mai a mettersi in ritmo. Infine, nella metà campo offensiva gli Spurs erano sicuramente spaziati meglio dei Nuggets, e poterono rendere evidenti le lacune difensive del numero 30, che si vedeva attaccato (e superato) quasi ogni possesso. Nonostante ciò, gli Warriors furono in grado di portare a casa due vittorie, uscendo a testa alta in Gara 6 contro i futuri vice-campioni. 

I Playoffs del 2014 mostrarono un Curry più maturo rispetto all’anno precedente, che in una Regular Season da 24.0 punti (+1.1) e 8.5 assist (+1.6) con il 61% di True Shooting (+3.0) e 6.3 di Offensive Box Plus Minus (+1.0) ha portato gli Warriors al sesto seed, lo stesso del 2013. In questa occasione, però, si trovarono di fronte i Los Angeles Clippers di Chris Paul e Blake Griffin, avversari certamente più ostici dei Nuggets di coach Karl.

Nelle sette partite disputate Steph dimostrò di giocarsela alla pari con il diretto avversario CP3 (alle prese però con i suoi cronici problemi fisici) e le medie della serie, almeno sotto il punto di vista dell’efficienza al tiro, sono molto buone: 23.0 punti e 8.4 assist con il 60% di True Shooting, compresa un’onorevole Gara 7 da 33 punti (con 16 liberi guadagnati, una vera rarità per lui), in cui però gli Warriors uscirono ancora una volta sconfitti.

Furono ancora una volta tangibili i limiti on-ball che non consentivano a Steph di mettersi maggiormente in ritmo, rendendolo efficace solo a sprazzi. Non fu però certo aiutato dal supporting cast e da coach Jackson: per l’intera durata della serie, i Clippers usarono la strategia Hedge&recover, portando DeAndre Jordan al raddoppio temporaneo. L’assenza di Andrew Bogut, abile nel gestire questa situazione di gioco, pesò molto in questo senso; David Lee non riuscì praticamente mai a capitalizzare il piccolo vantaggio concesso e il giovane Draymond Green non era ancora l’esperto di short roll degli anni successivi.

FOTO: Golden State of Mind

Una delle possibili soluzioni sarebbe potuta essere chiamare i blocchi un paio di metri indietro, invece Mark Jackson non fece nulla per ovviare a questo problema. Anche per questo motivo il reverendo, che ebbe comunque grandi meriti nello sviluppo di Curry, venne sollevato dall’incarico e sostituito da Steve Kerr

Il 2013/14 era stata la prima stagione da All-Star di Stephen Curry. Solo un anno dopo, vinse I’MVP e poi il titolo NBA. Cosa è cambiato in un solo anno? Gran parte della risposta risiede nel lavoro di coach Kerr.

L’allenatore capì subito come esaltare i pregi di Curry nascondendone allo stesso tempo i difetti, con due parole d’ordine: transizione e gioco off-ball. Gli Warriors di Jackson erano già una squadra a cui piaceva corrrere, ma l’ex Bulls esasperò al massimo tale concetto per aumentare la mole di tiri di Stephen Curry e Klay Thompson, gli Splash Brothers.

Nella stagione 2014/15 Golden State fu prima per pace, con 99.3 possessi per partita. I secondi in classifica, gli Houston Rockets, non andarono oltre i 97. Ma la novità più importante per “baby faced assassin” fu senza ombra di dubbio l’implementazione del gioco senza palla.

In realtà le doti off-ball erano già ben visibili quando giocava a Davidson, aiutate dalla rapidità e dal rilascio fulmineo del suo tiro; a partire dal 2015 Curry aggiunse gradualmente una straordinaria lettura del sistema di Kerr. Fu principalmente questo cambiamento a renderlo non arginabile. I dati del tracking confermano il cambio di rotta:

2013/14 17.9%
2014/15 24.8%
2015/16 26.5%
Frequenza tiri Catch&Shoot
2013/14 196
2014/15 290
2015/16 375
Tiri “assistiti”
2013/14 26.3%
2014/15 38.2%
2015/16 42.4%
Tiri dopo aver tenuto palla <2″

Ovviamente Steph ci ha messo del suo, e oltre alla fisiologica crescita personale, dovuta anche all’esperienza accumulata, ha gradualmente migliorato la condizione fisica, ottenendo una maggiore capacità nel concludere al ferro:

2012/1354%
2013/1460%
2014/1567%
2015/16 66%

Nel 2015/16 Curry giocò una delle Regular Season migliori della storia, ma il giocatore visto allora è stato il frutto di uno sviluppo a tappe che chiaramente ha avuto inizio nel 2012/13. La stagione in cui quel ragazzo esile ed elettrizzante cominciò davvero a infiammare, dopo anni di buio, l’Oracle Arena e l’intera Baia. Il resto è storia.