Dalla nascita in una favela di San Paolo al sole dell’Arizona, fino ai vertici della Lega in maglia Warriors. Leandro Barbosa ha interpretato la sua vita e la sua carriera nello stesso modo in cui si esprimeva in campo: correndo senza sosta a tutta velocità.

Ci vuole poco per rendersi conto, una volta arrivati in Brasile, che quel lembo di terra tra i più ricchi del mondo dal punto di vista naturale è attraversato da grandi divisioni socio-economiche. Le favelas che fanno da cornici intorno alle grandi città, luoghi tenuti lontani dai centri con la puzza sotto il naso, dove criminalità e speranza di evadere si mischiano creando sia grandi storie di riscatto che grandi tragedie, di chi il riscatto non è riuscito a trovarlo.

Leandro Mateus Barbosa nasce a San Paolo in un contesto del genere. Una mosca bianca nella San Paolo delle favelas, dove tutti i bambini sognano di giocare al Maracana, passando il loro tempo a rincorrere una palla di cuoio su campetti polverosi. Non Leandro però. Lui in quelle partitelle viene scelto per ultimo, viene escluso, ma senza grandi sofferenze. Non ha dubbi su quale sia la sua strada.

FINO ALLA VISIONE

La famiglia Barbosa conta già qualcosa a livello sportivo nel panorama della favelas nella quale vivono. Il padre è stato, seppur quanto un gatto in tangenziale, un pugile professionistico. 5 incontri. 1 vittoria, 1 pareggio e 3 sconfitte. Bene, ma non benissimo. La fama nel quartiere non è abbastanza per riuscire a vivere una vita agiata, ma ai figli una cosa viene insegnata: sapersi godere i momenti al netto di ciò che si ha.

L’edificio che contiene i Barbosa si fatica a chiamare casa: spazio per dormire ce n’è poco e quindi Leandrinho si accontenta del pavimento. Una situazione che capiterà in un’altra occasione, quando però lo spazio per dormire è decisamente aumentato. Sul campo si mette in luce nei playground paulisti, dove domina per velocità, capacità di arrivare al ferro in spazi angustissimi, una mano per niente male dalla media. Il Palmeiras lo nota e lo porta nelle giovanili dei “verdi”, sicuri che un giorno il ragazzo giocherà sotto la guida di Lulu Ferreira, guru del basket gialloverde e che allenerà in seguito anche la nazionale.

Nel mentre succede una cosa, che ha cambiato la vita a molti e, di fatto, anche a Leandro Barbosa: vede Michael Jordan dominare ai Playoffs e per la prima volta pensa che non sarebbe mica male poter calcare certi palcoscenici. Subito scuote la testa però: la strada è ancora lunga.

PRIMA DEL GRANDE SALTO

A 17 anni Lulu Ferreira lo fa esordire nel Campionato Statale di San Paolo mettendolo sulla mappa del basket brasiliano. Non riescono però a vincere. Troppo forti le corazzate Franca e Vasco da Gama, le quali nelle sue tre stagioni di permanenza ai biancoverdi vincono con non troppe difficoltà. Difficile però che un giocatore così passi inosservato. I difensori non fanno in tempo a mettersi in posizione davanti a lui per difenderlo, che Leandro sta già andando ad appoggiare. A 19 anni sono 14 i punti di media, frutto di tutto il corpo: la velocità dei piedi, la delicatezza delle mani.

Il Bauru, altra squadra di San Paolo, lo vuole e allora tentano i bianocoverdi con uno scambio, il Palmeiras accetta e sarà una decisione di cui si pentiranno, perché dall’anno dopo il nome di Leandro Barbosa sarà sulla bocca di tutti nella palestre del Brasile. L’allenatore del Bauru è Jorge “Guerrinha” Guerra, bandiera del Franca come giocatore, 4 volte campione e adesso allenatore del Bauru. Guerra è innamorato cestisticamente di Leandro. Gli concede minuti nonostante la giovane età, lo tratta di fatto come un veterano, conscio che il privilegio di allenarlo non durerà a lungo.

Alla prima stagione tutte le sue statistiche aumentano e qualcosa già inizia a muoversi oltreoceano, anche se sarà la stagione successiva a consacrarlo definitivamente: campione del Brasile con il Bauru e convocato per la prima volta con la nazionale verdeoro. Stavolta la chiamata arriva davvero.

Il pensiero che giocare in NBA non sarebbe stato male, si fa concreto, restando tale per un altro quindicennio.

“SE LA VITA TI DA DEI LIMONI… FACCI UNA CAIPIRINHA”

Il Draft NBA 2003 sembra destinato (lo sarà) a cambiare la storia del gioco. Lebron James, Carmelo Anthony, Dwayne Wade sono tutti atleti che effettivamente lasceranno una tacca profonda sulla cintura della storia della pallacanestro. Leandro ha solo sentito parlare di loro. Essere lì, al Madison Square Garden, per essere scelto da una franchigia NBA è già abbastanza per lui.

È l’inizio del viaggio, qualcosa che poteva solo immaginare fino a qualche anno prima. Sente passare 27 nomi prima di lui e poi finalmente David Stern ritorna sul palco. “With the 28th pick in the 2003 NBA Draft the San Antonio Spurs select Leandro Barbosa…”. Sorriso a quanti più denti può, investitura con il cappellino di rito, ma poco dopo gli comunicano che i Suns lo hanno acquistato scambiando una futura scelta protetta al primo giro. Poco importa. Non conosceva San Antonio, non conosce nemmeno Phoenix. L’importante è giocare nella NBA, godersi il percorso, fare una Caipirinha quando la vita ti dà limoni, come recita un proverbio brasiliano.

L’arrivo in Arizona è irreale. Lo portano alla facility dei Suns, una struttura enorme, come non esistono nel resto del mondo. La notte prima dell’inizio del training camp dormirà lì, sul pavimento dello spogliatoio come faceva nella casa di papà Vicente e Dona Ivete a San Paolo. Shawn Marion sarà il primo a rinvenirlo il giorno seguente e dopo un “man, this shit is crazy” lo porta a conoscere il resto della squadra. I fasti che verrano sono ancora lontani, la squadra è guidata da Marion appunto, Joe Johnson, un giovane Amar’e Stoudemire e il primo grande amico che Leandro si fa nella sua carriera NBA: Stephon Marbury.

Il rapporto con Starbury è davvero forte. Escono insieme nel tempo libero, il nativo di New York gli insegna i rudimenti del trash talking e lo fa correre insieme a lui sulle sue macchine sportive. Dopo una settimana consegnerà nelle mani del brasiliano le chiavi di un Range Rover nuovo di pacca. Marbury saluterà dopo appena 34 partite di quella stagione, spedito insieme a Penny Hardaway a New York, in cambio di Howard Eisley, Maciej Lampe, Antonio McDyess e Charlie Ward.

La prima stagione di Barbosa in maglia Suns non è un trattato di consistenza, suona il suo spartito così come lo suonava in Brasile e fa segnare il record di punti, 27 contro i Bulls, messi a segno da un giocatore dei Suns in quintetto per la prima volta. Dalla stagione successiva le cose cambieranno.

Troverà il suo secondo grande amico della Carriera NBA dopo Marbury, ma al contrario del numero 3 questo playmaker è leggermente più razionale e dall’anno successivo in tanti dovranno fare i conti con i Suns. Perchè in Arizona approda Steve Nash

7 SECONDS TO PARADISE:

Cambia il mondo a Phoenix nell’estate 2004. Le trade, Marbury e Hardaway su tutti, hanno liberato il salary cap degli arancioviola e permettono a Bryan Colangelo di operare copiosamente sul mercato. Alla guida della squadra viene confermato Mike D’Antoni, stregone offensivo che piace molto al front office. Dalla free Agency arriveranno un Pico della Mirandola canadese che porta il numero 13, Steve Nash, e Quentin Richardson.

La tavola è apparecchiata per una grande stagione. Leandro in tutto questo sa che si dovrà sudare minuti di permanenza sul parquet. L’incontro con Steve Nash è un qualcosa di folgorante: Steve spiega basket a Leandro, la sua mente è concentrata 24-7 sul basket. Situazioni, schemi, saper leggere i momenti della partita. I Suns veleggiano nella Western Conference con un record di 62-20, arrendendosi solo alle Conference Finals contro gli Spurs in una serie passata alla storia per la difesa, talvolta al limite della legalità, che i neroargento giocano per limitare un attacco entrato di diritto nella storia del Gioco.

Sì, perché è l’inizio dei Suns dei “7 seconds or less”, di un basket meno stazionario, veloce, che non cerca le “Twin Towers” ma anzi le abbatte, sempre con rispetto e cestisticamente parlando.

Leandrinho Barbosa è come un pesce in un vaso d’acqua in quel sistema, dove di azioni ragionate a metà campo – non proprio la sua tazza di tè – ce ne sono poche e il piede può non alzarsi mai dall’acceleratore. Tra i canyon dell’Arizona nasce la stella del “Brazilian Blur”, la “sfocatura” brasiliana, un Beep Beep che fa sembrare chiunque provi a difenderlo Willie il Coyote. La consacrazione non arriverà mai nella sua avventura alla corte di Mike D’Antoni prima e Alvin Gentry poi. Arriva però qualcosa di comunque importante, specie per uno che ha la storia di Leandro. Una stagione, magica, una squadra senza tempo e in cui Leandro diventa un mezzo con le ruote quando agli altri non resta che accontentarsi delle gambe.

Saranno 18.1 punti di media, il 43% da 3, con 4 assist e 1 rubata a partita. Freddi numeri che si riscaldano quando vince nel giugno del 2007 il premio come miglior Sesto Uomo della lega. Un calore che per una volta lega la favela di San Paolo nella quale era cresciuto agli Stati Uniti d’America.

ANDARE VELOCE SIGNIFICA NON FERMARSI

Alla fine della stagione 2009-10, nella quale fa registrare il suo career-high (41 punti contro i Thunder), i Suns lo scambiano insieme a Dwayne Jones per arrivare a Hedo Turkoglu.

Inizia un lungo pellegrinaggio che lo porterà a vestire casacche a ripetizione, mentre il meglio di quel fantastico giocatore inizia a venire meno. Toronto, Indiana, Boston, di nuovo Phoenix. Nel mezzo altre due parentesi in Brasile, prima con il Flamengo, nel 2011 per non perdere la forma durante il lockdown NBA, e al Pinheiros nel 2013-14 quando nell’NBA pensava di non tornarci più.

Torna in Arizona, ma il vento è cambiato. I Suns non sono più la squadra che aveva lasciato, hanno intrapreso il rebuilding process, che equivale a camminare nel deserto senza ben sapere quando e dove si troverà la prima oasi. Il suo contributo è tutt’altro che disdicevole ma una frattura alla mano destra lo costringe a concludere in anticipo la stagione. Sono i Warriors a credere in lui dopo le grandi prestazioni alla Coppa del Mondo 2014, dove con 16 punti condannerà alla sconfitta una grande Serbia.

Ai Warriors arriva un veterano vero, quello che mancava ad una squadra talentuosa, dove l’unica pecca poteva appunto essere il lato psicologico. Nella Baia trova un grande paradosso: Golden State è il primo caso in cui una copia, o qualcosa di molto vicino, è migliore dell’originale. La sublimazione della small ball, la perfezione del Gioco che passa da guardie pestifere capaci di segnare in qualsiasi modo, e, perché no, da lunghi che preferiscono tirare e passare rispetto al lavoro sotto le plance.

Ci metteranno poco nello spogliatoio ad innamorarsi di quel sorriso, di quella disponibilità, dei consigli mai scontati di un figlio del Brasile, trapiantato negli Stati Uniti e che negli States ha imparato quanto conti la chimica del gruppo, prima dei gesti sul parquet.

NULLA MAI PER CASO ACCADE

Quando la parabola è ormai chiaramente discendente, torna in Brasile, prima di un ultimo lento ballato a Phoenix. In Brasile è sempre determinante, troppo forte chi ha un bagaglio di quel tipo. Un bagaglio gigantesco che ancora gli permette di dominare nei campi nobili e meno nobili.

Un esempio? Nella sua ultima stagione come membro dei Minas Storm, segna 20.1 punti a partita che gli valgono il titolo di miglior marcatore del torneo. Il tutto quando non è più fresco come una rosa appena sbocciata. Annunciato il ritiro, il medesimo giorno, i Warriors lo rivogliono. Stavolta come “player mentor coach”, acclamato a gran voce da quei compagni di squadra che lo avevano conosciuto.

Nulla accade mai per caso. Nulla è accaduto per caso nella vita del miglior giocatore brasiliano ad aver calcato un parquet NBA. Un ragazzo che sarebbe potuto diventare un criminale, parte di quella schiuma della società presente in maniera così forte in Brasile, ma che ha deciso di diventare altro. Di sfrecciare via a massima velocità, come sul parquet, dalla vita che lo avrebbe aspettato.