Alcuni ex giocatori NBA raccontano i loro ricordi della mentalità fuori dal comune di Kobe Bryant, fra l’high school e i primi anni in NBA.

Questo contenuto è tratto da un articolo di Etan Thomas per Andscape, tradotto in italiano da Davide Corna per Around the Game.


Stavo giocando a NBA 2K21 con mio figlio Malcolm, e avevo scelto la squadra degli All-Time Los Angeles Lakers. Il mio quintetto aveva Shaquille O’Neal e Kareem Abdul-Jabbar nel frontcourt, LeBron James da 3, Kobe Bryant da 2 e Magic Johnson da point guard. Malcolm stava giocando con i Milwaukee Bucks di Giannis Antetokounmpo. Ma durante la partita, disse: “Hanno fatto Kobe troppo forte. So che era bravo, ma cavolo…!”


Poi mi ha chiesto: “Era del tuo stesso anno all’high school, vero? La classe del ’96… quindi hai giocato contro di lui. È sempre stato così forte?”

Gli ho risposto che c’erano alcune ragioni per cui Kobe Bryant era così bravo: si allenava più duramente di chiunque altro abbia mai visto; anche da giovane, aveva una capacità di concentrazione fuori dal comune; era uno studioso del gioco e, volendo giocare come Michael Jordan, rivedeva i suoi filmati, copiando e perfezionando tutte le sue mosse.

Ha sempre avuto quella “Mamba mentality”, anche molto prima che diventasse il suo mantra. Già ai tempi dell’high school.

Non ho mai giocato contro di lui in quegli anni, ma conosco altri che che l’hanno fatto. Tim Thomas era del nostro stesso anno, e da giovane Thomas era anche considerato un prospetto migliore di Kobe. Era più grosso, più forte e poteva giocare in qualunque posizione. Ma Thomas scoprì presto che Kobe era diverso da chiunque altro.

“Me ne accorsi definitivamente al McDonald’s All American del ’96”, racconta. “Il suo approccio era completamente diverso. In una partita all-star come quella, ci si impegna e si gioca duro, ma fino a un certo punto. Non volevano che i giocatori si infortunassero. Si entrava in campo, e poi si usciva. Ma Kobe era a mille. Voleva mostrare a tutti che era il miglior giocatore di quell’anno. Ci stavamo riscaldando, e tutti camminavano, tranne lui che andava a pieno ritmo… schiacciava… boom, boom, boom. Ce ne accorgemmo tutti quanti”.

Alzò l’asticella per il resto della classe, quel giorno.

“Quando iniziò la partita”, ha raccontato Thomas, che ha poi giocato 13 stagioni in NBA, “sapevamo già che non avremmo potuto trattare quella partita come un All-Star Game qualunque. Se c’è qualcuno che dà il tutto per tutto e tu non fai lo stesso, finisci per fare brutta figura”.

Anche Mike Bibby, che era una delle migliori guardie di quell’anno, ricorda ancora quella partita:

“Era evidente che aveva un’etica del lavoro fuori dal comune. Si notava che aveva molta fiducia in se stesso; andava sempre in campo convinto di essere il miglior giocatore sul parquet”.

“Guardandolo a quella partita, sembrava già un professionista”.

Bibby racconta anche che quel giorno Kobe gli ricordò il giovane Michael Jordan. Mike Bibby poi ha giocato 14 anni in NBA, partecipando a diverse memorabili battaglie contro i Lakers di Kobe; ed è convinto che Bryant sia il più grande lavoratore che abbia mai visto giocare.

“Essere ai livelli più alti del gioco, e continuare comunque a lavorare duro come faceva lui, non è una cosa che si vede tanto spesso. Tanti giocatori, una volta arrivati al top, si rilassano un po’. L’ho fatto anche io, concedendomi un po’ di riposo di tanto in tanto. Kobe invece non l’ha mai fatto, è sempre stato l’ultimo ad uscire dalla palestra. La sua voglia di vincere era impareggiabile”.

FOTO: Home of Playmaker

Mateen Cleaves, altro membro della classe del ’96 a prender parte a quel McDonald’s Game, ricorda anche di aver notato quella stessa mentalità di Kobe durante una gara di preseason.

“Per farvi capire la Mamba Mentality, lasciate che vi racconti una storia. Giocavamo contro Kobe, e in squadra con me c’era un’altra superstar, di cui non dirò il nome, che fece un commento riguardo all’egoismo di Kobe in campo. Era una partita di preseason, e si sa che in quelle partite i giocatori più forti si impegnano fino a un certo punto, cercando più che altro di trovare il ritmo. Prima della partita, Kobe andò da quel mio compagno e gli disse: ‘Sono qui per te, ora vedrai’. Ed era preseason. Ricordo che pensai ‘Oh-oh, ne vedremo delle belle’…

E vi dico che, nei primi 10 attacchi, Kobe spinse così tanto che Phil Jackson dovette toglierlo dal campo, perchè stava andando ad un ritmo da Playoffs… in preseason, solo perchè un avversario aveva detto qualcosa su di lui prima della partita”.

Quando sono entrato in NBA nel 2000, ho finalmente visto con i miei occhi cosa significasse “Mamba Mentality”. In quegli anni, Kobe ed io avevamo lo stesso agent, Arn Tellem (e Rob Pelinka lavorava per lui, a quel tempo).

Un giorno ero nell’ufficio di Arn a LA, e stavamo parlando dei piani di allenamento per l’estate. Kobe aveva appena finito di autografare circa 100 palloni da basket, passò fuori dall’ufficio e ci sentì parlare.

Era nella Lega già da quattro anni, e io in quel momento non ero ancora nemmeno un rookie. Ci parlò di pickup games a UCLA, poi ci descrisse il suo piano giornaliero durante l’offseason: andava a letto tutti giorni attorno alle 22-22.30, dormiva giusto per qualche ora, poi si alzava e faceva esercizi, tornava a dormire alle 4 di mattina circa, si alzava di nuovo alle 7 e faceva altri esercizi. In quel modo, diceva, poteva riuscire a fare più esercizi durante la giornata, e non perdeva tempo a dormire per tutta la notte. Onestamente, all’inizio pensai che stesse scherzando, ma era assolutamente serio.

Quando raccontai questa storia a mio figlio, mi guardò come se fosse la cosa più assurda che avesse mai sentito. Devo ammettere che, se non l’avessi sentita di persona, io stesso avrei creduto che non fosse vera. Ma Kobe disse proprio così. E Rob Pelinka confermò le sue parole, dicendomi: “È proprio così, quella è la sua routine quotidiana in offseason”.

Non mi misi a seguire il suo stesso programma estivo – non avevo abbastanza forza di volontà per fare esercizi all’una di notte – ma feci tesoro del messaggio. Kobe è diventato ciò che è diventato proprio grazie a quella mentalità, che l’ha portato a non essere mai soddisfatto, non importa quanti premi e quanti riconoscimenti avesse conquistato; a sentire sempre il bisogno di dimostrare di cosa era capace; a lavorare più duro di tutti, a prescindere dalla situazione; ad affrontare con determinazione ogni sfida, piccola o grande.

La nostra classe aveva un livello di talento molto alto, con giocatori come Jermaine O’Nal, Shaheen Holloway, Richard Hamilton, Stephen Jackson, Jason Hart, Ed Cota, Kenyon Martin… e potrei continuare. Ma c’è stato un solo Black Mamba, ed è un onore per me essere uscito dalla stessa annata di high school che ha prodotto Kobe Bryant.

Riposa in pace, Kobe.