Nella storia della Lega errori arbitrali più o meno evidenti e clamorosi hanno pesato sulle sorti di alcune partite decisive. Aprendo un filone di accese polemiche su quanto gli arbitri potessero – e possano – essere influenzati da franchigie, GM e addirittura Organizzazione stessa. Sarà davvero così?

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“Nessun gioco più della Pallacanestro è condizionato dai capricci degli arbitri. I loro fischi possono cambiare la storia di partite, serie e addirittura titoli.” Sam Quinn. Bleacher Report. 6 maggio 2012

Era il 2008 quando l’ex arbitro Tim Donaghy fece una confessione shock all’FBI. “La National Basketball Association trucca tutto per business.”

Certo, la pendente condanna per lo scandalo scommesse nel quale era rimasto invischiato – e che lo aveva isolato come un appestato dall’intero circuito – lo rendeva un testimone con un auspicabile dente avvelenato. Tuttavia, per quanto rimanesse paradossale questo rigurgito di moralità, le pesanti accuse mosse da Donaghy nei confronti dell’organizzazione fecero suonare più di un campanello d’allarme.

Sostenne che i dirigenti avessero l’abitudine di utilizzare gli arbitri per manipolare le partite, in modo da ottimizzare i proventi da botteghini e televisioni. Quadro completato da una completa mancanza di anonimato da parte di esaminatori e commissari, deputati a conferire agli uomini in grigio e al loro operato voti imparziali. Che in realtà si rivelavano giudizi sulle proprie reciproche amicizie.

Un ritorno di fiamma in pompa magna. Quella sudditanza psicologica dei fischietti che da epoche storiche toglie il sonno alla popolazione sportiva di metà globo. Sudditanza che avrebbe raggiunto i massimi livelli quando la Lega invitò i direttori di gara a non fischiare falli tecnici contro i giocatori più rappresentativi. “Così facendo ne avrebbero risentito le vendite dei biglietti e degli ascolti televisivi.”

Donaghy portò in dote due episodi che, con il tanto adorato senno di poi, furono visti dall’opinione pubblica con occhi completamente differenti. Citò la serie tra Houston e Dallas del 2005, quando Yao Ming, vero e proprio trascinatore dei Texani con le sue straripanti prestazioni, iniziò ad essere preso di mira dai fischi sistematici della terna. Il tutto coi Rockets avanti nella serie per 2-0, e stranamente a partire da Gara 3.

Per non parlare di quando fu “deciso” da due direttori di Gara 6 di portare Lakers-Kings del 2002 alla settima gara. Per una questione economica: una partita in più in una serie di livello così alto avrebbe significato una maggiore quota di introiti sia dal palazzo che soprattutto dalle televisioni.

Gli Stati Uniti d’America. Paese dove ancora oggi nessuno sa chi abbia premuto davvero il grilletto del fucile che uccise John Fitzgerald Kennedy. Riesce facile credere che quanto denunciato da Donaghy fu superficialmente bollato dalla NBA come un tentativo di riaccreditarsi agli occhi di tutti. Salvo poi non fornire quasi alcuna spiegazione credibile al riguardo.

Tuttavia, per quanto si rischi di cadere nella tanto vituperata “chiacchiera da Bar”, una domanda non può che sorgere spontanea: quanto possono incidere – o aver inciso – errori arbitrali operati più o meno in buona fede? Dove si colloca il confine tra chiamata psicologica e clamorosa svista?

LO STRANO CASO DEL PHANTOM FOUL

Ultimi sussulti di Gara 6 delle Finals del 1988. I Detroit Pistons, capitanati dal duo Rodman-Thomas, sono avanti di una sola lunghezza contro i Lakers di Magic e Kareem. Per tutti i rotocalchi la sfida aveva assunto un’unica sfumatura: il cristallino e scintillante splendore dello Showtime contrapposto allo sporco e cattivo collettivo dei Bad Boys.

Una serie all’ultimo sangue. Giocata con uno stressato agonismo fatto di contatti duri sotto le plance, non sempre classificabili come “legali”. Nella lotta tra l’odi et amo, stavano emergendo i ragazzacci di Motor City, avanti 3-2 nella serie. E con l’oro del Larry O’Brien praticamente a portata di mano.

A 27 secondi dalla sirena finale, sotto di un punto e con di fronte una squadra che aveva fatto della solidità difensiva un vero e proprio pedigree, le facce dei giallo-viola erano contratte in una smorfia di tensione. Da dietro i suoi enormi occhiali, Abdul-Jabbar si preparò al rientro in campo: Riley aveva disegnato un gioco fluidificante che lo mettesse nelle condizioni di ricevere – magari pure in mismatch – il più vicino possibile al canestro. Deputato a ricevere la rimessa, consegnò immediatamente la palla a Magic, circumnavigando poi l’intera area in attesa che quest’ultimo trasmettesse la palla sul perimetro in penetra e scarica a Byron Scott. Dopo un’autentica battaglia senza prigionieri in post basso contro Bill Laimbeer – grande difensore e ancor più celebre “chiacchierone” – riuscì ad offrire una luce a Scott, che non potè fare a meno di servirlo. La ricezione fu tutt’altro che una passeggiata. Ora stava al suo gancio-cielo trasferire quella palla nell’anello. E pareggiare la serie.

Immediatamente Laimbeer cercò di porsi in una condizione di vantaggio. Prese contatto con la schiena di Kareem, appoggiandosi con entrambe le mani ma preoccupandosi di non spingerlo sbracciando. Un contatto solido, duro. Ma non illegale. Col quale accompagnò il palleggio che il numero 33 appoggiò sul parquet per mettersi in ritmo.

Lo sapeva: da un momento all’altro Abdul-Jabbar avrebbe lasciato partire quello che universalmente era considerato come un tiro non stoppabile. L’unica speranza era quella di alterarlo escludendogli la visuale, in modo tale che non riuscisse a prendere correttamente la mira. Laimbeer, piuttosto pratico come rim protector, saltò da autentico verticalista non appena Kareem si alzò. Il braccio sinistro proteso ad oscurare la visuale e ragionevolmente in asse con il resto del proprio cilindro.

Riatterrò a bocca aperta. Ma la sorpresa fu immediatamente sostituita da incredula rabbia. Riley, in panchina, si passò nervosamente una mano in faccia. Il fischio deciso di Hough Evans raggelò il sangue del numero 40 in maglia blu. Fouled out. La regia fece partire il treno dei replay, dando inizio ad una scansione a raggi X di ogni singolo fotogramma. Di ogni singolo movimento. Di ogni singolo muscolo. E riuscì davvero difficile credere a tutti – men che ai festanti tifosi Lakers – che quello potesse essere davvero chiamato “fallo”.

Quel fischio, a rigor dei fatti, decise la serie. Il 2/2 di Kareem dalla linea della carità regalò a LA una Gara 7 27 secondi prima quasi insperata. Che vinsero, alimentando la loro Legacy.