Dieci aneddoti più che trascurabili sul mondo NBA… ma a cui in questo momento abbiamo scelto di non voler rinunciare.

“Che succede?”
Di primo pensiero questo scritto sarebbe dovuto appartenere alla sezione “opinioni”, e avrei voluto iniziare così perché spinto da una tanto genuina quanto preoccupata curiosità riguardo ad un momento che, di risposte, sembra non poterne avere.
Tuttavia, con l’Italia intera in Zona Rossa, ospedali in ginocchio e testimonianze quotidiane di operatori sanitari allo stremo delle forze, ritrovarmi qui con un “Che succede?” riferendomi a stagioni NBA, contagi all’interno del Circus e connessioni con altri campionati sportivi professionistici, mi ha spinto a chiedermi a chi potesse interessare la mia opinione in merito. E ho raggiunto la conclusione che forse non sarebbe importata nemmeno a me stesso.
Non so voi cosa ne pensiate in merito, ma tutti i moralismi sulle capacità catartiche della Quarantena dipingono sul mio volto un sorriso amaro. Questo perché non credo che un periodo di “isolamento” domestico aiuti davvero a riscoprire se stessi, specie se dietro ad essa vi è una preoccupazione ben più grande. Né che la convivenza forzata con le solite quattro mura ispiri particolare zelo nel cucinare torte o nel riscoprire i piccoli piaceri della vita, come ci hanno ripetuto a manetta tutti i VIP nei vari messaggi social o su Mamma Rai.
Con questo lungi da me dal contestare una misura la cui utilità e correttezza sono convinto siano fortissime.
Però sì, la noia e mancanza di stimoli sono due brutte bestie, specie con diversi impegni di varia natura da assolvere.
Per come sono fatto io – non so se lo stesso vale per voi – capita che gli sterili momenti morti di una giornata piatta mi conducano alla ricerca di improbabili informazioni o curiosità attorno ai più disparati argomenti.
E se due giorni fa mi sono ritrovato a domandarmi se l’elefante fosse effettivamente una bestia dal carattere tenero e docile come ci hanno insegnato con Dumbo, circa 15 minuti dopo vagolavo sulla pagina Spotrac di DeMarcus Cousins chiedendomi quanto si fosse ritrovato a sborsare in multe nel corso della sua carriera.
Alzo le mani: sono il primo a riconoscere che sia l’una che l’altra informazione fossero tutto fuorchè vitali. Ma ciò non toglie che l’elefante in età adulta sia tutt’altro che un animale paffutello e mansueto, e che il totale dell’esborso di DMC ammonti a 1’083’890 dollari.
Perciò, pur consapevole della superficialità della mia curiosità, mi son detto: perchè non rispolverare qualche tanto curioso quanto solitamente superabile aneddoto sul mondo NBA?
Ne è nato un decalogo di “Forse non tutti sanno che…”, format abusato in diverse discipline sin dalla sua ancestrale invenzione; anche e soprattutto perché, per quanto una curiosità sia ricercata, ci sarà sempre qualcuno che la conoscerà. Il che mi permette di poter mettere le mani avanti, autoassolvendo il mio maldestro tentativo di “saccenza” da noia.
1.
Forse non tutti sanno che durante la sua militanza nei Knicks, Kyle O’Quinn venne a contatto con la ben rappresentata comunità ebraica di New York, trasformandosi nel tempo libero lontano da palestre e arene in una star… dei Bar Mitzvah e Bat Mitzavh – celebrazioni per il raggiungimento dell’età della maturità rispettivamente di maschi e femmine.
Dotato di una simpatia contagiosa, il centro di riserva dei Knicks era solito recarsi a quelli che a sua stessa detta erano dei “party pazzeschi” ad intrattenere frotte di ragazzini 13enni scalmanati, ovviamente abbacinati dal fatto che una “star” NBA partecipasse alle loro feste.
“Sono andato una volta, poi una seconda… e in men che non si dica mi sono ritrovato ad essere semplicemente Bar Mitzvah Man.”
2.

FOTO: solecollector.com
In una Lega in cui la scelta della scarpa con cui scendere in campo assume livelli di meticolosità quasi compulsivi, forse non tutti sanno che Thabo Sefolosha sia solito indossare un paio di ordinarie… Nike Air Max 90 da passeggio.
Il perché di questa singolare scelta stilistica risiede nell’infortunio sofferto durante la stagione 2014-2015, quando lo svizzero subì la frattura di una tibia e dei legamenti di una caviglia, durante l’arresto per una rissa nella quale fu coinvolto accidentalmente e accoltellato.
Durante la riabilitazione, Sefolosha scoprì questa scarpa iconica prodotta da Nike perché alla ricerca di un modello che gli fosse il più confortevole possibile. Finendo per indossarlo anche in campo e divenendo per questo un’indiscussa icona di stile all’interno del circus NBA.
3.
Che Gilbert Arenas sia stato una personalità eufemisticamente di difficile controllo è cosa risaputa nel panorama bibliografico NBA. Quello che forse non tutti sanno è che spesso le sfumature del suo carattere lo portavano a comportarsi da simpatico burlone… e che la portata dei suoi scherzi non sempre era facilmente sostenibile.
Agent 0 nel corso della sua carriera ebbe due cavalli di battaglia incontrastati: il primo la defecazione nelle scarpe dei compagni di squadra, e per “compagni” si intende il “filippino” Andray Blatche; il secondo, invece, un ingegnoso piano che prevedeva l’infrazione… di diverse leggi. Sempre a fin di bene, si intende.
Durante le trasferte era solito sottrarre le chiavi dell’auto ad un randomico compagno di squadra, facendole duplicare per vie traverse e inviandole poi tramite Fed-Ex ad un suo compiacente a Washington. Il ruolo di costui era quello di utilizzare la suddetta copia di chiavi per rubare letteralmente la macchina dal parcheggio privato dei Wizards.
Al danno addizionava pure la proverbiale beffa: Arenas, infatti, era poi solito coprire di “sincera” comprensione il povero malcapitato quando, di ritorno dopo una lunga trasferta in giro per gli Stati Uniti, si ritrovava di fronte il proprio posto auto completamente vuoto, lasciandosi andare alla più cupa disperazione.
Per poi, colpo di scena, ritrovarsi di fronte magicamente la propria fuori serie qualche giorno dopo, più confuso che persuaso.
4.
Parlare di George Mikan associandolo allo slogan che finora ha scandito questo scritto è quantomeno irrispettoso. Trattasi infatti della prima vera stella universalmente riconosciuta nella storia della Lega. E non solo perché il suo debordante strapotere fisico e tecnico spinse i piani alti a rivedere il perimetro dell’area dei 3 secondi, ampliandolo.
Perché forse non tutti sanno che il 13 dicembre 1948 i Minneapolis Lakers – “Minneapolis city of Lakes”, motivo per cui gli attuali Los Angeles, figli dello spostamento della franchigia del Minnesota in California, ne conservano ancora in parte il nome – erano attesi dalle luci scintillanti della Grande Mela, ospiti dei Kew York Knicks.
Mikan, che in quel momento viaggiava a cifre irreali distribuite in oltre 28 punti di media, era l’indiscussa superstar dell’allora National Basketball League. Motivo per cui il suo arrivo in una grande metropoli come NYC aveva scatenato un’attesa febbrile.
Tanto che si pensò bene di sponsorizzare l’evento illuminando l’insegna di un Madison Square Garden agghindato a festa con una reclame da incontro di pugilato rimasta poi negli annali:
“Wed(nesday) George Mikan Vs Knicks”.

FOTO: ilpost.it
La cosa mise per altro in imbarazzo lo stesso Mikan, che si ritrovò in uno spogliatoio fortemente contrariato da questa sua elezione a onnipotente. Quasi che il suo essere così dominante in u Gioco ancora agli albori fosse una responsabilità
5.
“NBA” è spesso sinonimo di fama, denaro e successo. Tre attori che possono recitare parti diverse nelle sfumature della vita di un giocatore professionista. Specie nella sfera amorosa. Perché se c’è chi ammette candidamente che il suo status gli è fruttato un notevole successo con le donne, c’è anche chi più o meno ignaro della cosa è stato talmente esemplificativo da divenire addirittura una locuzione riconosciuta nel vocabolario inglese americano.

FOTO: panorama.it
Perché in molti, ma forse non tutti, sanno che l’11 febbraio 2014 Urban Dictionary ha ufficialmente inserito nel suo dizionario di slang l’espressione “to markojaric’d”. Più o meno letteralmente, essa si traduce come “un uomo che conquista una donna decisamente fuori dalla sua portata” o in alternativa “Stare con una più bella di te.
Tutto perché Marko Jaric – campione Eurolega 2000-01 con la Virtus Bologna con successiva carriera NBA divisa tra Clippers, Minnesota e Memphis – pur non dotato di divine qualità estetiche godeva di molte attenzioni nell’universo femminile.
Nel corso della sua carriera di tombeur des femmes – voci di corridoio parlano addirittura di bigliettini sul parabrezza della sua auto durante il periodo bolognese – il serbo “completely markojaric’d” tra le altre la super top model Adriana Lima. Conquista che gli valse definitivamente un’espressione destinata a rimanere nello slang di uso comune negli Stati Uniti.
6.
Spesso, durante le gare, capita di osservare giocatori sfogare la propria rabbia o frustrazione contro seggiolini, asciugamani, borracce e oggettistica varia. Ciò che invece non capita spesso di vedere è che la suddetta oggettistica infranta venga elevata a vera e propria reliquia.
Perché forse non tutti sanno che nel lontano 2007 un ignaro muro della Oracle Arena fu perforato a seguito del lancio di un cestino della spazzatura per mano di un Dirk Nowitzki straordinariamente adirato.

FOTO: theathletic.com
Il motivo? Uno sweep inaspettato in sei gare della sua Dallas – prima in RS con un record 67-15 ad Ovest – per mano dei Golden State Warriors dell’iconico trio Baron Davis-Stephen Jackson-Jason Richardson, qualificatisi alla post-season con un record appena sufficiente all’ottava casella.
La franchigia di San Francisco, volendo consegnare ai posteri l’emblema di un evento memorabile della sua storia, decise di proteggere il buco generato dalla rabbia del tedesco con un plexiglass, affiggendovi sopra una delle magliette-evento della partita recante la scritta “We Believe”.
Una sorta di altare laico motivazionale per tutti coloro che avrebbero indossato la canotta Warriors di lì a seguire, all’ingresso in campo.
Nowitzki fu successivamente chiamato addirittura ad autografare il vetro di protezione, e in tempi recenti, in seguito al spostamento della casa di Golden State da Oakland al di là della Baia, ha provveduto a trasferire anche il segmento di muro nella nuovissima Chase Arena. Affinché il culto laico potesse proseguire.
7.
Non so cosa ne pensiate voi in merito, ma le fataliste questioni inerenti a “destino” e “futuro scritto” mi lasciano da sempre piuttosto scettico. Eppure talvolta accadono fatti cui poter dare una spiegazione razionale diviene un autentico grattacapo.
Accadde, infatti, che nel 1974 Pete Maravich si fosse ritrovato a dichiarare durante un’intervista che non avrebbe mai voluto giocare 10 anni in NBA per poi morire di attacco cardiaco a 40 anni. A quel tempo Pistol Pete aveva appena 26 anni ed era nella Lega da appena 4 stagioni.
Il 5 gennaio del 1988, durante una pausa da una partitella di svago nella palestra collegiale di Pasadena, Maravich si accasciò al suolo mentre era intento a bere da una fontanella. Il medico legale, nei giorni successivi, stabilì che la causa di morte di uno dei cestisti più amati dell’epoca fosse riconducibile all’assenza congenita dell’arteria coronarica di sinistra, vaso sanguigno fondamentale per la perfusione del cuore. Il che era stato motivo di un attacco cardiaco inspiegabilmente non incorso addirittura decenni prima.
Forse non tutti sanno che quel 5 gennaio del 1988 il 40enne (!) Peter Press Maravich si era allacciato le scarpette in quel di Pasadena dopo averle appese al chiodo ufficialmente 8 anni prima, protagonista di una carriera decennale (!!) divisa tra Atlanta, New Orleans/Salt Lake City e Boston.
8.
Se vi venisse la curiosità di cercare la voce “Qyntel Woods” sulla barra di Google, potreste facilmente notare che dopo i vari “Age”, “NBA”, “Wife” e “Instagram” la quinta voce associata al nome dell’ex Portland Jail Blazers sia “dog fighting”.
Il che ci viene in contro per due motivi: il primo per svelare perché la sua carriera a Portland si sia conclusa anzi tempo nel 2005, dopo appena tre anni; il secondo perché ci aiuta quantomeno in parte a mettere nero su bianco la portata del personaggio in questione, fungendo da catalizzatore dei nostri comuni intenti.

FOTO: twitter.com
Questo perché forse non tutti sanno che, nel suo anno da rookie, Qyntel si sia trovato nella spinosa situazione di dover motivare ad una volante della polizia perché stesse letteralmente correndo la 24 Ore di Le Mans con la sua Cadillac; ma, soprattutto, perché lo stesse facendo fumando marijuana.
Vedendolo balbettare goffamente in merito, gli agenti provvidero immediatamente a chiedergli la propria Carta di Identità. In tutta risposta, Woods passò loro attraverso il finestrino, come documento, la propria figurina collezionabile della stagione “2002-2003” edizione speciale “Rookie Card”, asserendo di non aver nulla di meglio.
Nonostante l’indiscussa genialità del gesto, i cuori dei poliziotti non si sciolsero in una forse attesa fragorosa risata, nè si lasciarono benevolmente impressionare, consegnandogli di rimando una multa da 1096 dollari per guida senza patente ed eccesso di velocità.
9.
Il brand “NBA” vede come massimi esponenti di genere tre titoli che nell’ultimo ventennio hanno fatto letteralmente la storia dei videogames sportivi – contribuendo per altro e non di poco alla visibilità della Lega: NBA 2k, NBA Live, ma soprattutto NBA Jam.
Apparso per la prima volta nelle sale giochi nel 1992-1993, il giocatore aveva – e ha tutt’oggi su diverse piattaforme – la possibilità di intrattenersi con un videogioco che faceva della spettacolarità e dei ritmi incalzanti due dogmi pressochè assoluti.
Ogni franchigia schierava in coppia le proprie stars, che sfidavano gli avversari a colpi di spintoni non puniti, salti fisicamente fantasmagorici ben oltre il livello del ferro, alley oops insensati e schiacciate che incenerivano letteralmente la retina.
Il tutto condito da frasi ad effetto provenienti dalla voce ufficiale del gioco, Tim Kitzrow, che ha reso esclamazioni come “Boomshakalaka” indimenticabili e tutt’ora in uso nello slang legato al panorama cestistico.
Quello che in molti sanno è che il creatore del gioco, Mark Turmell, aveva previsto in fase di programmazione delle easter eggs, ossia la possibilità di inserire dei codici per poter rendere il gioco ancora più paradossale nella sua spettacolarità e intrattenimento. Tra queste v’era la possibilità di selezionare Bill Clinton in coppia con la moglie Hillary o Al Gore, oltre alla modalità “Big Head”, per avere giocatori con teste evidentemente più grandi del corpo.

FOTO: videoamusement.com
Quello che però forse non tutti sanno è che Turmell nutrisse in cuor suo un odio viscerale nei confronti dei Chicago Bulls di Michael Jordan e Scottie Pippen, tanto da inserire durante la creazione del videogioco un codice che impediva ai rossi di segnare qualsiasi tiro preso all’ultimo secondo.
“Se vi fosse stato il caso di una partita punto a punto e un giocatore dei Bulls si fosse ritrovato a prendere l’ultimo tiro, avevamo inscritto nel gioco un codice speciale che lo avrebbe trasformato letteralmente in una mattonata.
A quei tempi c’era molta competizione tra Bulls e Pistons, ed essendo io da sempre un fan sfegatato di Detroit, quella era la mia opportunità di livellare un po’ le cose in campo.”
Non pago, Turmell inserì un altro codice speciale che abbassava l’overall di Pippen ogniqualvolta egli si ritrovasse di fronte proprio i Pistons.
10.
Non credo abbiate bisogno di me per sapere che il soprannome con cui verrà per sempre ricordato Phil Jackson corrisponda a “Coach Zen”.
Da sempre affascinato e influenzato dalla filosofia professata dal Buddhismo Zen, e in particolar modo dall’impatto della stessa sulla mente e l’armonia con cui essa si rapporta alla vita di ognuno, Jackson era solito tentare di trasmettere l’essenza della meditazione giapponese anche ai suoi giocatori.
E se tutto ciò è materia abbastanza nota, quello che forse non tutti sanno è che ai tempi dei Los Angeles Lakers di Kobe e Shaq la questione “meditazione” assunse dei connotati divisi tra serietà e comicità.
Al training center dei giallo-viola, infatti, era presente un teatro da una cinquantina di posti. Quando Jackson suonava una specie di gong, tutti i giocatori a libro paga erano “pregati” di presentarvisi immediatamente. Di corsa.
Una volta tutti dentro, Jackson provvedeva a spegnere le luci e accendeva dell’erba odorosa, i cui profumi erano a detta di molti assai vicini a quello della marijuana. Fatto ciò, pregava i suoi giocatori di chiudere gli occhi e di rilassarsi, mentre lui passava in rassegna con la sua voce profonda ciò che in quel momento stesse girando bene e ciò che di contro non funzionava per niente all’interno della squadra. Stimolando il senso comune a liberarsi della negatività che evidentemente aleggiava e a ritrovare la fiducia dentro di sé e in ognuno dei propri compagni.
Finito di parlare, chiedeva ad O’Neal e soci di fare dieci respiri profondi per espellere lo stress ad ogni espirazione, e riaccendeva le luci. Ciò di cui non si accorgeva, preso dalla concentrazione convogliata nella meditazione, era che spesso durante il rito metà della platea era caduta in una fase di russante sonno profondo. Più per i bagordi della notte prima che non per la profondità dello stato mentale raggiunto.
Bonus
La carriera di Larry Bird è riconosciuta di diritto come uno dei capitoli più maestosi mai scritti negli almanacchi NBA. Una superstar totale capace di influenzare intere generazioni assieme alla sua perfetta nemesi – anche di casacca – Magic Johnson.
Ma forse non tutti sanno che la stessa ha rischiato di essere quantomeno limitata da un bruttissimo infortunio incorsogli nell’estate di passaggio dalla NCAA ai pro. Ad opera, incredibilmente, di suo fratello Mike.
In attesa di vestire in autunno la maglia dei Boston Celtics, Bird dedicò la primavera del 1979 al conseguimento della laurea, rifiutando la corte spietata di Red Auerbach che lo avrebbe voluto in campo addirittura al termine della stagione NCAA. Divenendo così il primo giocatore di tutti i tempi a giocare una partita collegiale e una professionistica nello stesso mese.
In una sera di metà aprile, si ritrovò a giocare una partita di Softball, con suo fratello Mike tra le fila della squadra avversaria. Nel tentativo di recuperare una palla lungo linea scagliata proprio da Mike, Larry si inginocchiò per effettuare la presa.
Quello che sembrava essere un banale gesto assunse delle conseguenze del tutto inattese: la palla, infatti, prese una strana direzione, infrangendosi con estrema violenza contro il suo dito indice destro teso. Che fu completamente piegato sul dorso.
Eseguita immediatamente una radiografia, non del tutto consapevole della gravità della situazione il giorno dopo Bird si recò a fare una scampagnata alla ricerca di funghi. Al suo ritorno trovò ad attenderlo, dall’altro capo del telefono, un chirurgo di Indianapolis che lo aveva cercato tutto il giorno con estrema urgenza.
L’esito dei raggi della sera precedente aveva dimostrato una frattura scomposta della falange prossimale, che si era letteralmente sbriciolata contro il metacarpo. Il medico, a domanda diretta, ci tenne ad essere il più chiaro possibile: era alquanto probabile che non sarebbe mai riuscito a recuperare in toto la funzionalità di una delle dita più importanti nella pallacanestro – ancor più se della mano forte.

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Appena appresa la notizia dell’operazione, Auerbach convocò immediatamente Bird a Boston: la giovane stella non aveva firmato ancora nessuno contratto, e seppur avesse già iniziato il percorso riabilitativo il vecchio Red voleva essere certo delle sue condizioni di salute.
Dopo essere stato tempestato di previsioni pessimistiche dal medico dei Celtics, il GM prese senza dire una parola Bird e lo portò sul parquet del campo d’allenamento. Gli passò un pallone, per farlo tirare. Larry infilò una serie di Jumper, pur rendendo manifesta una meccanica diversa dal solito.
Non impressionato, Auerbach gli fece una sequenza di passaggi schiacciati e diretti al petto, che Bird ricevette tutti senza battere ciglio. Mascherando in tutta probabilità un dolore lancinante.
In seguito Bird ammise di essersi sentito smarrito nell’avvertire una sensibilità del tutto diversa insita nel suo indice, che col passare del tempo assunse un profilo deforme e affusolato a seguito delle calcificazioni che lo videro soggetto.
Anni dopo, durante uno shooting per la copertina di Sport Illustrated, il fotografo gli chiese di sollevare l’indice nel gesto del “numero 1”. Alla vista del dito deturpato, gli domandò con evidente imbarazzo se potesse abbassarlo, sostituendolo con quello della mano sinistra.