Dalla guerra civile in Sudan all’All-Star Game di Orlando 2012: la piccola grande storia di Luol Deng.

L’attenzione verso il basket africano da parte della Lega si sta facendo sempre più pressante e sono tanti i giocatori ad oggi che fanno la differenza; un nome su tutti il camerunense Joel Embiid (il suo “Around Africa” QUI), centro dominante e All-Star NBA.

Prima però di arrivare in un lega dove i talenti africani vengono effettivamente valorizzati, alcune figure hanno dovuto lottare per trovare uno spazio nelle franchigie ed uno spazio nel cuore dei tifosi. Il primo nome che viene in mente alla maggior parte degli spettatori NBA è Manute Bol. Lungo sudanese, giocatore più alto della storia della Lega, grandissimo personaggio sia in campo, con un cambio di gioco clamoroso diventando un discreto tiratore dalla lunga, sia fuori dal campo – gira voce che, mentre accudiva le sue pecore, uccise un leone con una lancia – con un’enorme popolarità trasformata negli anni in attività benefiche nel suo Sudan e in iniziative cestistiche.

Proprio da una di queste iniziative, ovvero l’apertura a Il Cairo (Egitto) di una scuola di basket, esce un altro talento cestistico africano e protagonista di questo racconto: Luol Deng.


Dal Sudan in guerra alle prime esperienze cestistiche in Egitto e UK

La nostra storia parte nell’Africa centrale, nell’attuale stato del Sudan. Il paese è caratterizzato da diverse etnie, ma una in particolare si stima componga circa il 18% della popolazione, ovvero quella dinka. La tribù si sostenta principalmente con la pastorizia, ma ha una caratteristica che nel mondo cestistico aiuta sempre, checché se ne dica: è tra le popolazioni più alte al mondo. Lo stesso Bol apparteneva a questa etnia.

Non si tratta di un’Africa ricca e prosperosa. Il Sudan, come del resto la maggior parte dell’Africa centrale, vive in condizioni molto difficili ed il territorio è colpito molto spesso da carestie e malattie infettive. Ad aggravare ancor di più tale situazione entrano in gioco le mire militari. Il Sudan ha una storia a dir poco violenta e tratteggiata da costanti tensioni.

Tutto nasce da una spaccatura legata al colonialismo inglese: il territorio sudanese, per poter essere governate in modo più efficace, venne diviso in due parti, una regione a nord ed una a sud. Queste due aree, però, hanno caratteristiche molto diverse: il nord si presenta come un territorio desertico, poco sviluppato e arido; mentre i territori del sud sono ricchi d’acqua e di giacimenti petroliferi. Unitamente a questioni religiose, anteposte alla vera causa del conflitto, tali divergenze hanno portato a due guerre civili fratricide. La seconda si scatena nel 1983. Questa è una data molto importante per il proseguo del nostro racconto.

Nella regione del sud Sudan c’è una città molto importante lungo le rive del fiume Jur chiamata Wau, ed è proprio qui che il 16 Aprile 1985 nasce Luol Ajou Deng, ultimo di nove fratelli. Luol non ha solo la sfortuna di nascere in un periodo di aspro conflitto, ma subisce anche il peso politico del padre Aldo, ministro nel governo sudanese. Fortunatamente, per evitare rappresaglie verso la sua famiglia, il padre chiede asilo politico per la mogli ed i figli nel 1988 in Egitto. Per Luol e per i suoi fratelli è l’inizio di una nuova vita.

FOTO: NBA.com

“Non ricordo niente della mia terra natia. L’ho dovuta lasciare con mia madre e altri 8 fra fratelli e sorelle quando avevo solo 3 anni.” – Luol Deng

Senza padre ancora in Sudan, con tanti fratelli, in una patria che diventa “casa” per necessità e in un’abitazione piccolissima con tre sole stanze, il piccolo Luol cresce nel sacrificio e nell’impegno ad essere forte, anche lui che è il più piccolo di tutti.

La mancanza di una figura paterna è fondamentale, soprattutto dopo l’arresto del padre perpetrato dalle forze militari di Omar al-Bashir nel 1993, quando lui ha soli otto anni.

Una speranza si accende lontano. Due dei suoi fratelli maggiori, Ajou e Arek iniziano a frequentare un campetto polveroso con due canestri senza retine nella periferia de Il Cairo. Hanno trovato un loro punto di riferimento, un punto di ritrovo comune che li fa integrare nel tessuto sociale egiziano.

“Di solito andavo in un polveroso campo all’aperto a guardare i miei fratelli maggiori giocare e, a volte, mi facevano partecipare.”

Ed è lì, in quel campetto polveroso, tra una partitella e l’altra, che incontra la leggenda NBA Manute Bol. Per Deng non sarà solo un mentore, una figura cestisticamente preparata – vista anche la sua notevole esperienza oltreoceano – ma sarà anche un riferimento umano non indifferente. Li accomuna l’origine dinka, tribù per la quale Bol ha sempre lottato e che ha anche sostenuto finanziariamente. Un legame etnico è sempre difficile da sciogliere.

Così Luol inizia ad appassionarsi al basket. Il talento si fa vedere, considerate anche le sue importanti doti atletiche.

Il padre, dopo alcuni anni di prigionia, viene rilasciato dalle autorità militari che lo tenevano recluso. Sapeva benissimo che il destino della propria famiglia non sarebbe stato quello di rimare a lungo in Egitto, perché il pericolo di eventuali ritorsioni non era così lontano. Decide, quindi, di sfruttare nuovamente la sua caratura politica. La nuova destinazione della famiglia Deng è il Regno Unito.

“Ero così entusiasta. Mio padre era riuscito ad andarsene dal Sudan e a richiedere asilo politico per tutti noi in Inghilterra. Ci fu assegnata una casa in South Northwood a Londra. Era fantastico essere circondati da roba così moderna, come le automobili o la metropolitana.”

Esplorare e conoscere un paese così diverso dalle lande desertiche, dal rumore incessante, dalla stretta vita comunitaria per lo più passata tra le strade desertiche egiziane, non è stato assolutamente facile per Luol. La prima vera difficoltà è la lingua: lui non conosceva nessuna parola d’inglese, tanto meno i suoi fratelli. Non si lascia scoraggiare. Per quanto l’abbia fatto in modo indiretto, ha pur sempre vissuto le conseguenze di una guerra civile.

“L’unico problema che avevo era che non parlavo inglese, ma lo imparai presto e i miei fratelli si misero a ridere del mio nuovo accento.”

Inizia ad essere parte attiva della comunità londinese, e come tutti i ragazzi inglesi – così almeno lui si considerava – pensava un giorno di diventare un grande calciatore. Un po’ come Ricky Rubio, anche per Luol, nonostante la vita da campetto in Egitto, la prima vera passione sportiva è quella per pallone ad esagoni bianchi e neri, e non per gli spicchi.

“Attaccai un poster di Ian Wright sul muro della mia camera da letto. Ero abbastanza bravo a giocare, e tutti gli altri ragazzini mi volevano in squadra al campetto della scuola.”

FOTO: NBA.com

C’è solo un piccolo “irrilevante” problema: Luol cresce, e tanto. Tutti quanti, compresi i suoi fratelli che la passione per il ferro non l’hanno mai abbandonata, lo convincono e lo incitano ad almeno provare a giocare a basket.

Decide di frequentare Brixton Recreation Centre e molto presto entra a far parte della squadra locale, i Brixton Topcats. Appena dodicenne, Luol si ritrova ad essere un punto di riferimento per il basket locale, ma non solo: tutti i rifugiati politici e non, provenienti dal continente africano, lo vedono come un punto di riferimento per la comunità. Questo ruolo non lo abbandonerà mai.

Passano alcuni anni, e Luol è diventato ancora più alto e ancora più bravo in quello sport che gli dona tante soddisfazioni. Ha quattordici anni, giunto da poco nel particolare periodo dell’adolescenza. Non si conosce se il mentore Bol abbia messo una parola buona sul suo nome, ma casualmente uno scout NBA lo nota giocare e con grande interesse gli fa una proposta irripetibile: andare a giocare negli USA.

L’approdo negli Stati Uniti, le sfide col “The Chosen One”, Duke University e il Draft NBA

Luol, con il consenso della madre, decide di accettare quell’importante quanto inaspettata offerta. Si trasferisce con una borsa di studio alla Blair Academy, poco più di cento chilometri da New York in New Jersey. Per il quattordicenne Luol è il terzo trasferimento in un altro paese; ma non si arrende mai. Per la prima volta nella sua vita si sente lontano da casa; lui, cittadino inglese a tutti gli effetti, è triste nell’abbandonare il proprio nido, la sua comfort zone.

“Avevo nostalgia di casa, ma ero determinati a non sprecare l’opportunità che mi era stata data. Mi assicurai di lavorare più duramente di chiunque altro. Se vieni dall’Inghilterra non puoi essere bravo quanto gli americani, devi essere migliore. Mi alzavo alle sei in punto ogni mattina per fare dell’allenamento extra prima di un’intera giornata a lezione.”

La sua determinazione lo porta a volare molto alto, vicino al Sole. Il Sole in quei tempi nel basket high-school è un certo LeBron James, uno che già riempiva i palazzetti e vendeva diritti televisivi. Sul campo si trovano molto spesso l’uno contro l’altro. Forse una sfortuna per lui trovarsi davanti ad un giocatore così famoso. Luol è il secondo miglior giocatore del paese, dietro proprio alla stella James.

Le loro due strade si dividono: LeBron opta subito per l’NBA, mentre Deng decide di proseguire un altro anno la sua preparazione.

Tante sono le università che provano a prendere il giovane talento inglese, ma solo uno riesce alla fine a spuntarla: Duke University del coach Mike Krzyzewski. Gioca solo un anno, ma le statistiche sono davvero impressionanti: in 31 minuti di utilizzo a partita mette a segno 15.1 punti, 6.9 rimbalzi, 1.8 assist con un ottimo 47.6 % dal campo.

FOTO: NBA.com

New York, Draft 2004, Madison Square Garden. Vestito grigio. Pronto ad essere chiamato. Non importa da chi, solo pronto per giocare nella NBA. La prima chiamata di quel Draft è Dwight Howard, seguono poi Emeka Okafor, Ben Gordon, Shaun Livingston, Devin Harris e Josh Childress. David Stern sta per annunciare le settima scelta assoluta. Le mani iniziano a sudare. La scelta tocca ai Suns. Le previsioni lo davano tra le prime dieci scelte. La voce di Stern riecheggia nell’arena: “Luol Deng from Duke University”. Come da rito, si alza, gioisce, stretta di mano vigorosa e via col cappellino dei Suns.

“In quel momento h sentito di poter finalmente respirare. Ho avuto la sensazione di aver trattenuto il respiro per così tanto tempo. La NBA una volta mi era sembrata così lontana, ma non ho mai dubitato che ce l’avrei fatta.”

Tutto qui? Non proprio. La foto non la farà con una maglietta viola, ma con una rossa ed un toro stampato sopra: viene scambiato ai Chicago Bulls. Non è un fatto così banale, assolutamente. Lui, riferimento sin da ragazzino di tutti gli emigrati africani, viene scelto di fatto da una delle franchigie più popolari in quel tempo, figlia dei successi di Michael Jordan. Rappresenterà per lungo tempo, sino all’arrivo di altri giocatori come Antetokounmpo ed Embiid, il riferimento per il basket africano in NBA, nella lega più importante del mondo.

“Non riuscivo a non guardarmi attorno allo United Centre senza pensare: ‘Cavolo, qui è dove ha giocato Michael Jordan!’”

Becoming an All-Star

A Chicago trova la sua dimensione ideale, tanto da venire selezionato nell’All-Rookie First Team al suo primo anno nella Lega. Le prestazioni aumentano via via, soprattutto quelle difensive. Un’ala solida, dotata di una grandissima fisicità, in grado di tenere difensivamente atleti paurosi, tra cui il suo rivale in high-school LeBron James. C’è ancora un ultimo passo per consacrare definitivamente il giocatore; il piccolo bambino che dal Sud Sudan ha attraversato tre continenti per giocare in NBA.

La stagione 2012-2013 è probabilmente la migliore in carriera: 16.5 punti, 6.3 rimbalzi, ma soprattutto 1.1 palle recuperate a partita. La sua grande popolarità in Africa e le sue ottime prestazioni, gli valgono finalmente quel tanto e ultimo desiderio: essere convocato all’All-Star Game. Quell’anno lo spettacolo va in scena ad Orlando – località a noi molto nota in quest’ultimo anno di pandemia – ed è proprio nel volo che lo porta da Chicago, mentre guarda fuori dal finestrino di un jet lussuoso, che pensa a tutta la sua vita.

“Non mi piace pensare a cosa sarei diventato se fossi rimasto in Sudan. Avrei dovuto combattere una guerra. La mia vita sarebbe stata molto diversa. Sono stato molto fortunato a ricevere questa opportunità mentre altri lottano per la vita. A volte mi vedo come un prescelto.”

E’ riuscito, con grandi fatiche, a raggiungere l’apice in una carriera che in molti vorrebbero, ma non si vuole fermare solo a questo. Come tanti giocatori che hanno saputo ben sfruttare le opportunità che la vita ha serbato per loro, anche Luol, complice la sua storia travagliata fatta di fughe e trasferimenti precoci, deicide di concedere le stesse opportunità ad altre giovani vite nel suo continente di origine e nella sua terra natia. Decide di far nascere la sua fondazione, la “Luol Deng Foundation”, per aiutare tutti i ragazzi in difficoltà ad inseguire i proprio sogni.

Ma non si ferma qui.

FONTE: luoldeng.org

Il basket è stato il suo rifugio una volta arrivato in Inghilterra, e decide che è ora di implementare il movimento cestistico in Sud Sudan. Nel 2019 viene eletto presidente della giovane federazione cestistica sudanese – nata appena nel 2012- e nello stesso anno viene nominato head-coach della nazionale.

“La mia vita è stata un viaggio difficile, ma positivo. Mi ha aiutato a maturare prima. Vedo quello che ho passato come una benedizione, un regalo che mi aiuta a vedere le cose più nitidamente. So che sarebbe un peccato se non sfruttassi la mia posizione per aiutare altre persone. Ecco perché è così importante che io mi impegni a far crescere la consapevolezza di quello che sta accadendo in Sudan.”

Luold Deng ha vestito, a suo modo, la carica di “pioniere” per il suo continente. Sia per la sua storia umana che per la sua carriera.

Per questo tanti giocatori di origine africana vedono ora in lui non solo un esempio e un riferimento, ma un vero e proprio idolo.