Partendo da alcuni episodi che ne hanno segnato la carriera, un racconto in istantanee dell’epico viaggio di uno dei più improbabili MVP della storia della Lega: dagli inizi in Canada fino al palco della Hall of Fame di Springfield.

“It seems like my whole life I’ve been this little Canadian kid dreaming somebody would give me a chance.”

Nonostante sul passaporto del Dottor Naismith ci fosse chiaramente scritto Canada, quando la famiglia Nash si stabilisce a Victoria, British Columbia nell’estate del 1975, il basket è ancora un oggetto non identificato, che mai è riuscito ad attecchire davvero nel grande Nord.

Il signor John è un ex calciatore inglese, nato a meno di un km in linea d’aria da White Hart Lane – tempio del Tottenham – e i suoi figli crescono nel mito del pallone, come ogni britannico che si rispetti.

In Canada l’hockey è religione: dunque entrambi i ragazzi Nash, Martin e il minore Steven, si dedicano anima e corpo allo sport di famiglia e a quello di adozione della terra che li ha accolti. Intorno ai 13 anni il più piccolo e iperattivo dei figli del signor John, spaparanzato davanti alla TV, incappa nella storica pubblicità di Spike Lee con protagonista Michael Jordan: come una freccia scoccata da Cupido, da quel giorno il basket diventa un’ossessione.


Al liceo capisce di avere un dono, piano piano il calcio e l’hockey vengono fisiologicamente messi da parte, concentrandosi sulla pallacanestro, con un’etica del lavoro che i suoi genitori gli hanno trasmesso per osmosi.

Come dicevamo, il Canada di fine anni ’80 non è certo quello di oggi a livello cestistico: non ha ancora visto sorgere due franchigie – una arrivata al Titolo NBA – né ha avuto atleti come Vince Carter alle proprie latitudini a far innamorare un’intera generazione. Buoni giocatori ce ne sono, ma sono anche tremendamente soli. Uno di questi è proprio Steve, che a 16 anni è chiaro a tutti essere il più forte del paese, convinzione che nella sua testa si trasforma nel sogno di giocare in NBA.

Sapevo benissimo che sarebbe stato un percorso lungo e complicato, ma credevo nelle mie capacità e soprattutto credevo nella mia voglia di lavorare per migliorarmi. Nonostante il sogno fosse lontano anni luce, riuscivo comunque a intravedere una strada.

Perché il sogni si tramuti in realtà serve l’intervento dello Zio Sam. Nell’estate prima del suo ultimo anno di liceo, Nash è il leader della nazionale giovanile canadese che gioca sul proprio suolo una serie di amichevoli contro Long Beach State University, nelle cui file militano due futuri giocatori NBA del livello di Lucious Harris e Bryon Russell. Un bagno di sangue per i cugini del nord, ma Steve gioca ottimamente e il coach del college californiano gli promette che si faranno sentire per offrirgli una borsa di studio: il telefono, da allora, ancora non ha squillato.

In un disperato tentativo di far girare il suo nome tra gli atenei statunitensi, coach Hyde-Lay invia VHS di dubbio valore registico con gli highlights della propria point guard, anche qui con risultati inconcludenti.

In qualche modo però, un nastro giunge tra le mani di Dick Davey, coach del piccolo college di Santa Clara, che incuriosito si reca a vedere Nash di persona in una partita del suo liceo.

Dopo neanche un quarto di gioco, comincia a guardarsi attorno.

Ero nervosissimo, tra le tribune cercavo facce conosciute: possibile che fossi l’unico addetto ai lavori lì presente? Non potevo farmelo scappare, non ci voleva un genio per capire che Steve era fenomenale, nonostante fosse tra i difensori peggiori che avessi mai visto in vita mia…

Dopo una sbrigativa visita al campus, Nash accetta l’unica borsa di studio che gli è stata offerta, senza pensarci neanche un minuto: è la sua ultima possibilità.

I Broncos non partecipano al Torneo NCAA da cinque anni, ma al primo colpo dopo l’arrivo di Steve la faccenda cambia: partendo a inizio stagione dietro al play titolare John Woolery, Nash guadagna minuti e sviluppa ottime doti di leadership. Al primo turno del torneo, Santa Clara si ritrova contro lo squadrone di Arizona, in quella che si prospetta come una carneficina annunciata.

È una partita nervosa, dove l’agonismo stritola lo spettacolo, e per Steve la sfida è particolarmente ardua: il suo avversario diretto è la quotatissima point guard Damon Stoudemire, contro il quale fatica tremendamente. Il leader dei Wildcats è un mastino e forza Nash a perdere tantissimi palloni, non facendogli mai trovare ritmo in attacco. Ma i Broncos riescono in qualche modo a rimanere attaccati alla partita. Negli ultimi due minuti di gioco, Santa Clara si ritrova sopra di un punto con Arizona che fatica a compiere il sorpasso. Nell’ultimo giro di orologio, quando nessuno sa più cosa farsene di quella maledetta palla, Steve la prende a sé, non la lascia più, subisce 3 falli e manda a segno sei liberi consecutivi, che di fatto mandano i titoli di coda sulla gara.

Il ghiaccio canadese nelle sue vene sancisce un upset clamoroso, che attrae l’attenzione di numerosi scout NBA.

Nei 3 anni seguenti migliora tutte le voci statistiche, chiudendo la stagione 1994/95 a quasi 21 punti e 6.4 assist a partita, con ottime percentuali al tiro. Ora si sente davvero pronto per il professionismo, e l’interesse intorno a lui c’è eccome.

Nei mesi che precedono il Draft, Nash riceve le lusinghe dei neonati Vancouver Grizzlies – ai quali non sembra vero di poter agguantare un ragazzo di casa – e dei Minnesota Timberwolves, che risultano essere le uniche due squadre a lui interessate.

Sul web si trovano numerose opinioni su quale sia il Draft più ricco di talento nella storia: onestamente è difficile contestare chi sostiene la causa di quello del 1996.

Al primo giro, insieme a Steve, viene chiamata gente come Iverson, Marbury, Ray Allen, Antoine Walker, Kobe, Peja Stojakovic e Jermaine O’Neal: sembra uno scherzo.

Vancouver decide, con la terza scelta assoluta, di assicurarsi Shareef Abdur-Rahim, ala di straordinaria eleganza da University of California, mentre i Timberwolves si “accontentano” del profeta di Coney Island alla chiamata successiva. I canadesi hanno anche la 22° scelta e Steve è sicuro che sarà quello lo slot che utilizzeranno per lui. Ma come in tanti altri racconti di improbabili storie dal mondo NBA, un nome compare: quello di Donnie Nelson, scout instancabile, noto per la sua vastissima conoscenza del basket non-americano.

Il figlio di Don lavora per i Suns, allora allenati da Danny Ainge, che si convince della bontà di questo ragazzino bianco, magro, con un ball handling celestiale, un gran tiro dalla lunga e un agonismo fuori dal comune.

Nash finisce in una squadra guidata da Kevin Johnson, del quale sa di dover’essere giocoforza il rincalzo, ma quando a Natale i Suns concludono una trade che porta in Arizona anche Jason Kidd, comincia a farsi qualche domanda.

Due tra le point guard migliori della Lega davanti a me nelle rotazioni: non un grande messaggio. Ma Ainge era abbastanza pazzo da farci giocare anche tutti e tre assieme, e da KJ e JK ho imparato tantissimo.

Steve, da quando è al liceo, è un underdog, sente di essere un late bloomer, sa di dover sopperire alle mancanze atletiche con più skills e più creatività ed è su questo che si concentra nei primi due anni ai Suns.

Nel ’98 Donnie Nelson diventa assistente alla corte del padre Don in quel di Dallas, una squadra in estrema difficoltà che necessita una rifondazione totale: indovinate qual è il primo nome che viene fatto per il ruolo di point guard…

Nash arriva in Texas nell’anno del lockout, dove però continua a faticare e a non convincere i tifosi.

Dopo una brutta caduta in allenamento, una risonanza magnetica scova una spondilolistesi, condizione che comporta lo slittamento di una vertebra rispetto a quella sottostante: non una grande notizia per un atleta professionista all’inizio della propria carriera.

Le premesse, anche a Dallas, non sono delle migliori.

Nel giorno della trade che ha portato Steve ai Mavericks, dal Draft arriva un ragazzone tedesco di buone speranze: i due acerbi talenti crescono insieme, senza troppa pressione, sotto la supervisione di un allenatore non convenzionale e un veterano come Michael Finley che mostra loro come essere dei professionisti esemplari. Risultato? Nel 1999 le gare vinte erano 19, nel 2000 sono 40, dall’anno dopo sono oltre 50 e i Mavs diventano una contender fissa nella Western Conference. Nel 2003 arrivano addirittura le Finali di Conference, perse 4-2 contro gli Spurs futuri campioni NBA, e la squadra sembra destinata, con ancora un po’ di pazienza, ad arrivare al capitolo finale.

Mark Cuban, diventato proprietario dei Mavs all’inizio del nuovo millennio, si convince però che Nash non possa salire ulteriormente di livello: i suoi numeri sono leggermente calati nell’ultima stagione e i problemi fisici latenti sono un campanello che preoccupano l’esuberante imprenditore di Pittsburgh.

Nash a 30 anni diventa free agent e Dallas non gli offre un rinnovo. Col cuore pieno di tristezza è costretto a lasciare il Texas, tornando in Arizona per la sua seconda campagna in maglia Suns.

La svolta della sua carriera.

Late bloomer, si diceva.

In modo del tutto inaspettato in quel momento della sua carriera, nella seconda avventura a Phoenix, Nash trova le condizioni perfette per esplodere definitivamente.

Quando si misura la grandezza di un giocatore si dice sempre che è importante vedere quanto migliori i compagni e la squadra con la sua presenza: i dati, ancora una volta, parlano chiaro. I Suns hanno chiuso la stagione 2003/2004 fuori dai Playoffs, con sole 29 vittorie; quella 2004/2005 è una cavalcata trionfale da 62 vittorie, miglior record della Lega.

Jerry Colangelo vince il premio di executive dell’anno, Mike D’Antoni quello di Coach of the Year, e Nash, in modo sorprendente, quello di MVP della Regular Season.

Com’è possibile?

I suoi numeri dicono 15.5 punti e 11.5 assist a partita, ma è il travolgente impatto tout court di Steve sul gioco della squadra più spettacolare della Lega a convincere la NBA a concedergli il premio.

Nasce il concetto di seven seconds or less, un gioco high tempo che aumenta i possessi, fa salire il numero di tiri da tre presi e invita ogni giocatore ad essere aggressivo ogni qual volta si varchi la linea di metà campo.

Tutto parte dalle mani – o meglio, dalle sinapsi – del canadese.

Joe Johnson, Quentin Richardson, Shawn Marion e il devastante Amar’e Stoudemire sono il supporting cast perfetto per affiancare Nash, che recuperata un’insperata brillantezza atletica risulta quasi immarcabile, giocando a un ritmo tutto suo, fuori dai canoni, perennemente in movimento, con 3/4 idee a possesso potenzialmente implementabili.

La sua affinità quasi spirituale col basket di D’Antoni ha lasciato in lui e nell’ex leggenda milanese qualche rimpianto: avrebbero dovuto osare ancora di più, ancora più ritmo, ancora più tiri da tre.

Non siamo mai stati davvero la squadra dei seven seconds or less. Non era accettato da un punto di vista culturale, né a livello mediatico, né dai tifosi che sì, volevano lo spettacolo ma credevano fosse uno stile che non permettesse di vincere ai Playoffs. Col tempo ci siamo snaturati, sono convinto che se avessimo premuto ancora di più sull’acceleratore ce l’avremmo fatta.

La corsa Playoffs finisce nuovamente alle Western Conference Finals per mano dei soliti Spurs, la nemesi definitiva della carriera del canadese. L’anno seguente i Suns hanno numerosi problemi di infortuni e qualche partenza importante: ripetersi sembra impossibile. Il roster appare un improbabile miscuglio di scommesse, veterani e role player che hanno avuto pochi momenti di brillantezza in carriera. Nash, se possibile, alza ancora il livello e la squadra si conferma vincente, spettacolare e competitiva. La Lega non resta insensibile al miracolo dell’Arizona e un secondo premio di MVP viene assegnato a Steve, che entra definitivamente nella leggenda.

Ma, come al solito, i Suns si fermano nuovamente alle finali di Conference, stavolta contro i Mavericks: che Phoenix diventi l’ennesima grande squadra a cui manca un ultimo passo verso la gloria definitiva? E che Nash risulti l’ennesimo grandissimo campione senza un anello alle dita?

SPOILER ALERT: la risposta è sì.

E il motivo, a voler essere sommari, è in gran parte legato ai San Antonio Spurs.

2003, 2005, e di nuovo nel 2007: le strade di Nash e degli uomini di Popovich si rincrociano, stavolta alle Semifinali di Conference, con quella che a detta di tutti gli addetti ai lavori è la serie tra le due migliori squadre della Lega quell’anno.

Una serie in cui succede di tutto.

In Gara 1 Tony Parker colpisce inavvertitamente Nash al naso, aprendo una ferita che gronda sangue come in un film splatter: il canadese, resiliente al dolore come pochi nella NBA, continua a giocare, dovendosi fermare ogni tanto per cambiare la medicazione. In Gara 3 la stessa sorte tocca a Ginobili, dopo uno scontro con Shawn Marion: si arriva a Gara 4 con gli Spurs in vantaggio 2-1.

È in questa partita che anni di tensioni tra le due squadre sfociano in un episodio passato alla storia. A venti secondi dalla fine della gara, i Suns conducono di tre lunghezze: Nash col pallone cerca di sfuggire ai tentativi di fallo volontari dei texani, desiderosi di fermare il cronometro.

Non può però sfuggire al malizioso bodycheck di Horry, che lo scaraventa contro il tavolo.

Si accende una semi-rissa, soprattutto tra Raja Bell e lo stesso Big Shot Rob, che viene giustamente espulso. Solo a fine gara si viene a sapere che la Lega ha deciso di sospendere pure Boris Diaw e Amar’e Stoudemire, rei di aver lasciato la panchina, anche se solo per accertarsi delle condizioni del loro leader spirituale.

Dopo Malice at The Palace la NBA è inflessibile – stavolta forse troppo – e i due giocatori, fondamentali per gli equilibri dei Suns, vengono squalificati per Gara 5, che gli Spurs vinceranno comodamente, chiudendo poi la serie alla sesta sfida. Per molti, quella fu davvero l’ultima occasione per i Suns di superare l’ostacolo nero argento e approdare alle Finals: il fatto che una discutibile scelta arbitrale abbia condizionato così tanto un duello tanto affascinante ancora non va giù a molti in quel di Phoenix.

Nel 2008 le squadre si affrontano di nuovo al primo turno dei Playoffs, mentre ai Suns in febbraio si è aggiunto Shaquille O’Neal: stavolta la sconfitta è più netta, un 4-1 che sa di fine di un’era, visto anche l’addio di Mike D’Antoni che lascia la panchina dopo quasi 5 anni.

L’ultimo capitolo delle tremende delusioni dei Suns va in scena nel 2010, quando la squadra si prende finalmente la rivincita sugli Spurs, eliminandoli nelle Semifinali di Conference con uno sweep carico di rabbia e frustrazione, prima di sfidare i favoritissimi Lakers campioni in carica al penultimo step prima delle Finals.

Un’altra serie epocale, molto combattuta nonostante i pronostici, con uno Stoudemire dominante, un Nash ultra 35 enne commovente e dei Lakers che faticano a prendere le misure agli uomini di Alvin Gentry che sembrano una squadra in missione.

Gara 5 è, come spesso capita, il momento chiave dell’intera tenzone. Nel primo tempo i gialloviola sembrano in controllo, ma nella seconda frazione i Suns rientrano fino alla parità sul 101-101 a 3 secondi dalla fine, grazie alla sontuosa prestazione da 29 punti e 11 assist del canadese. L’ultimo tiro è dei Lakers, meglio, di Kobe: i cambi difensivi funzionano benissimo e il Mamba si ritrova le mani di Grant Hill e Nash davanti agli occhi. Airball clamoroso. Ma la palla finisce dritta nella mani di Metta World Peace sotto canestro che – fa strano dirlo – quell’anno sarà l’uomo della provvidenza per i giallo-viola.

Su quel tiro terminano i sogni di gloria di tutta la Suns Nation e inizia la malinconica fase conclusiva della carriera da giocatore di Steve Nash.

Che, per uno strano scherzo del destino, si concluderà proprio in California.

Nel 2011 Steve divorzia dalla moglie e madre dei suoi tre figli Alejandra Amarilla e alla fine della stagione, a 38 anni, decide di chiudere la straordinaria avventura in Arizona.

I Raptors, i Knicks e i Lakers restano in attesa della sua decisione, che ricade sui gialloviola. La ragione principale è la vicinanza con Phoenix, verso la quale può volare comodamente in meno di due ore per passare più tempo con i propri bambini.

Capitava che, terminato un allenamento, mi catapultassi all’aeroporto e volassi verso Phoenix, anche solo per vedere una partita di softball delle gemelle. Trascorrevo un paio d’ore con loro e rientravo in serata a Los Angeles.

Inoltre i Lakers stanno tentando di costruire nuovamente una squadra da titolo, allestendo un quintetto di cinque All-Stars con Kobe, Nash, Metta, Pau Gasol e Dwight Howard, arrivato anche lui in estate: chissà che l’insperato Titolo non possa arrivare proprio all’ultima tappa della sua carriera.

Secondo spoiler: un fiasco totale.

Alla seconda gara della stagione, dopo uno scontro fortuito con Damian Lillard – nonostante provi a continuare a giocare… – Nash subisce una frattura composta al ginocchio sinistro, infortunio dal quale, per sua stessa ammissione, non ha mai recuperato del tutto. Chiaramente la sua stagione è compromessa, ma lo è anche la successiva, in cui continua ad avere problemi ai nervi legati all’infortunio al ginocchio, che si ripercuotono anche sulle già precarie condizioni della schiena.

Il 21 marzo 2015, nonostante diverse squadre gli offrano la possibilità di continuare come rincalzo dalla panchina, Steve Nash dice addio alla pallacanestro: il suo misterioso fisico, martoriato da una carriera in cui mai si è risparmiato, non lo regge più.

Lascia un atleta unico, mai banale, che ha ispirato – direttamente o indirettamente – un’intera generazione di point guard dopo di lui, con la sua totale libertà e creatività espresse sul rettangolo di gioco, sempre al servizio della squadra.

Nel settembre del 2018 viene indotto nella Hall of Fame di Springfield e il suo testamento al basket giocato è lo splendido discorso che tiene in quell’occasione.

“I was never supposed to be here”. Inizia così, prima di lanciarsi nell’accorato racconto di una carriera ventennale, non dimenticando di citare neanche una delle persone a cui sente di dovere qualcosa, per poi concludere il monologo con alcune delle parole più belle mai pronunciate in quella sala.

Trovate qualcosa che vi piace fare e fatela tutti i giorni. Lasciate che diventi un’ossessione, l’equilibrio verrà col tempo. Lavorate più degli altri e ragionate sul lungo periodo: non dovete essere per forza The Chosen One. Non smettete mai di inseguire i vostri obiettivi finché non li avrete raggiunti. In verità però, anche una volta che li avrete raggiunti, saranno gli sforzi, la lotta, lo spingersi oltre i limiti per raggiungerli a mancarvi. Non vi sentirete mai più vivi di quando darete tutto quello che avete per qualcosa che amate.

Appese le scarpe al chiodo era convinto che non avrebbe mai più avuto a che fare con la pallacanestro. Invece è diventato consulente per i Warriors prima e capo allenatore dei Brooklyn Nets poi.

Evidentemente ha ancora bisogno di sentirsi vivo.