Il primo incontro tra Duncan e Popovich è già nella mitologia della NBA. Quel giorno a St. Croix qualcosa è scattato, dando vita alla più incredibile coppia allenatore-giocatore nella storia dello sport mondiale.

Nella scena finale di Harry, ti presento Sally…, il personaggio interpretato da Billy Crystal finalmente apre il suo cuore a Meg Ryan con una punchline romantica entrata nell’immaginario collettivo:

“Quando ti accorgi che vuoi passare il resto della vita con qualcuno, vuoi che il resto della vita cominci il più presto possibile”.

Non so cosa si siano detti davvero Gregg Popovich e Tim Duncan nel loro primo incontro, presso le Isole Vergini, nell’estate del ’97: a nessuno tranne i due è dato saperlo, e francamente neanche mi interessa più di tanto.Mi piace pensare che, sul volo di ritorno per San Antonio, coach Pop abbia ripensato all’incontro con The Big Fundamental facendo ricorso alle parole da Baci Perugina del comico newyorkese. E come diceva il cronista Sam Silverman: “Mai rovinare una bella storia con la verità”. Ma una verità fattuale c’è: da quell’incontro è nata la più incredibile relazione giocatore-allenatore nella storia dello sport americano – e potremmo forse fare anche a meno della specifica geografica.

Quei giorni trascorsi in riva all’oceano Atlantico sono stati la scintilla, hanno dato il là a un rapporto che avrebbe cambiato per sempre il corso della carriera/vita dei due personaggi in questione, e di conseguenza della NBA.

Voglio dire, guardate queste immagini.

 

18 dicembre 2016, cerimonia di ritiro della maglia di Tim Duncan, che ha recentemente chiuso la sua carriera cestistica.

Pop si ferma: groppo in gola, occhi lucidi, cuore e mente che cercano di ricomporsi per finire una frase. Raramente lo si è visto così, e si tratta della testimonianza più chiara ed eloquente di quanto questo rapporto abbia significato per lui – e per Duncan.

Non fatevi ingannare dall’apparente cinismo, lo sguardo severo, i momenti di tensione coi propri giocatori o gli esilaranti “abusi” ai malcapitati giornalisti, vere e proprie performance teatrali per uscire dalla routine di un carrozzone stantio e noioso.

Pop è una persona emotiva e di buon cuore, che nella sua carriera ha avuto una sola missione: fare il suo mestiere al meglio, cercando di vincere il maggior numero di partite di pallacanestro possibili – risultato che tecnicamente ha raggiunto, essendo diventato nell’aprile 2019 l’allenatore più vincente di sempre.

Tim è stata la sua anima gemella professionale, perché mosso dalle stesse identiche motivazioni, da una competitività viscerale, una necessità quasi fisica di perfezionarsi sempre, senza mai prevaricare sui compagni, ma portandoli con sé nel viaggio.

“Timmy è la persona più vera, onesta e integra che abbia mai conosciuto in tutta la mia vita”.

Gregg Popovich

Duncan cresce sull’idilliaca isola di St. Croix, e fino all’adolescenza ha un solo obiettivo: diventare un nuotatore olimpico per la sua piccola terra natale, come la sorella Tricia ha fatto alle Olimpiadi di Seul del 1988.

Ma nel settembre dell’anno successivo l’uragano Hugo travolge i Caraibi, provocando danni incalcolabili e decine di morti. La piscina in cui Tim si allena viene distrutta, la squadra di nuoto dei Dolphins sposta le sue sessioni di allenamento nell’Oceano: Tim ha troppa paura degli squali e decide di concentrarsi su uno sport di terra, magari che ben si adatti alla sua fisicità.

Comincia a giocare a basket, ispirato dal marito dell’altra sorella, Cheryl – ex giocatore universitario in Ohio – e dal suo insegnante di chimica, Cuthbert George, a tempo perso allenatore della squadra del liceo St. Dunstan’s Episcopal.

Partendo da una base fisica fuori dalla media – e pochissime nozioni tecniche – inizia una vertiginoso percorso di crescita, grazie a un amore innato per il gioco e una necessità quasi fisica di competere per vincere.

Dire che le Isole Vergini siano fuori dai radar degli scout NCAA è un understatement grande come una casa. Il talento di Tim sarebbe potuto rimanere nascosto per sempre tra le palme di St. Croix. Non fosse stato per un emissario di Dave Odom, coach di Wake Forest University, che segnala questo impacciato ma promettente ragazzone di 7 piedi alla sua alma mater.

Al conseguimento del diploma sono quattro gli atenei interessati a Duncan: Wake Forest, Delaware State, Providence e Hartford. Durante la visita di Tim a queste ultime due, nevica abbondantemente e l’idea di vivere in un posto così freddo lo terrorizza.

Per la verità anche a Winston-Salem gli inverni sono piuttosto rigidi, ma le dimensioni ridotte e l’ambiente familiare di Wake Forest convincono Tim a propendere per i Demon Deacons.


Foto: NCAA.com

Dopo soli due anni di college basket, seguendo i sapienti insegnamenti di coach Odom (figura centrale della sua formazione cestistica) Duncan è già materiale da top 3 al Draft, tanto che il suo stesso allenatore lo invita a lasciare l’università anzitempo per fare il grande salto.

Ma Tim ha fatto una promessa che non può non mantenere.

“Sua madre morì quando Tim non aveva neanche 14 anni e prima di andarsene, gli fece promettere che avrebbe terminato il suo corso di studi e si sarebbe laureato. E così fece”.

– Dave Odom

Due anni dopo, Tim si laurea in psicologia e le sirene dei professionisti non si sono certo acquietate, anzi, se possibile risuonano ancora più forti: alla vigilia del Draft 1997 non c’è un singolo GM NBA che non lo sceglierebbe alla prima chiamata.

Ad accaparrarsi la pallina decisiva della Lottery sono i San Antonio Spurs, reduci da una deprimente stagione da 20 vittorie e 62 sconfitte, sulla panchina dei quali si è da poco seduto un certo Gregg Popovich.

Mentre Duncan ancora pensava a una carriera nel nuoto in quel dei Caraibi, sul continente Pop aveva portato avanti la sua lunghissima gavetta. Prima la Air Force Academy, poi il college di Division III Pomona-Pitzer, infine il periodo a bottega da Larry Brown, prima a Kansas e poi nella NBA proprio a San Antonio.

Dopo due anni come assistente di Don Nelson a Golden State, nell’estate del ’94 gli Spurs lo richiamano, offrendogli il ruolo di General Manager, che ricopre fino all’autunno ’96 quando, dopo un traumatico inizio di stagione da 3-15, coach Bob Hill viene accompagnato cortesemente alla porta: l’intera organizzazione è d’accordo che Popovich sia pronto per sedersi finalmente come capo allenatore su una panchina NBA.

È una stagione disastrosa, caratterizzata dagli infortuni di tutti i giocatori chiave del roster – David Robinson, Sean Elliott e Chuck Person – e quella successiva ha già il sapore dell’ultima chiamata per il futuro lavorativo di Gregg.

Il Draft alle porte è decisivo: scegliere il giocatore sbagliato non sarebbe certo un bel biglietto da visita.

A quanto pare Pop era rimasto molto impressionato da altri due prospetti, Keith Van Horn e Scott Pollard, che per un attimo pensa davvero di poter scegliere con la prima chiamata assoluta.

Ma solo per un attimo.Per sue stesse parole, anche “il vostro cane o il vostro gatto avrebbero scelto Duncan alla prima chiamata” e R.C. Buford conferma che avrebbero dovuto passare sul suo cadavere prima di non selezionarlo.

Come detto, però, è un momento chiave per la carriera di Popovich, che vuole assicurarsi al mille per cento di compiere la scelta giusta.

Alla base della sua filosofia di pallacanestro – e del rapporto con i suoi atleti – c’è un concetto molto semplice: l’uomo viene prima del giocatore, e quale miglior modo di capire l’animo di una persona che andarla a conoscere nel suo ambiente naturale, nei luoghi a lei più familiari, vicino ai suoi affetti?

I primi minuti di Gregg Popovich sull’isola di St. Croix ricordano incredibilmente una barzelletta vecchia come il mondo che mio nonno era solito raccontare a ogni piè sospinto, ridendo da solo di gran gusto.

“Qui le auto sono d’importazione americana, con il volante a sinistra, ma si guida sul lato sinistro della strada…nessuno mi aveva detto nulla: affitto la mia auto all’aeroporto, comincio a girare per la città insultando mezzo mondo, prima di capire che il cretino ero io. Ho rischiato la morte tre volte prima ancora di conoscere Tim”.

Arrivato alla casa sulla spiaggia della famiglia Duncan, in località Christiansted, Pop s’immerge nel meraviglioso mondo di Tim, tra le carismatiche sorelle maggiori e un padre con la schiena dritta che ha costruito con le proprie mani l’abitazione in cui il coach degli Spurs viene ricevuto.

Si sente istantaneamente a suo agio.

Nei giorni successivi, i due trascorrono ore e ore da soli a parlare di tutto, qualunque argomento, fuorché la pallacanestro.

La cultura e l’istruzione hanno sempre avuto un ruolo centrale nella formazione di entrambi e ridursi a parlare di schemi, statistiche, progetti tecnici, movimenti offensivi suonerebbe davvero stonato, soprattutto in un paradiso come St. Croix.

Giornate intere passate a nuotare nell’Oceano, a prendere il sole in spiaggia, tra lauti pranzi e cene a casa o in giro per l’isola, con Pop che già cerca, inutilmente, di inculcargli la passione per il vino; oppure ancora visitando qualche mercato locale, momenti in cui Popovich riesce a cogliere ancor meglio il lato umano di quel gigante che è andato a trovare.

“In quei giorni ho capito quanto fosse speciale, anche solo da come la gente di Saint Croix lo trattava: non come una superstar, un eroe, ma come Tim il ragazzo, a cui tutti volevano bene”.

Un ragazzo amabile, educato, puro e genuino, come solo chi è cresciuto su un’isola, lontano dal battage mediatico riservato ai suoi omologhi sul continente può essere. Prima che Pop lasci le Isole Vergini, il padre di Duncan gli strappa una promessa: dovrà essere duro con suo figlio, lo terrà in riga, gli impedirà di montarsi la testa e si aspetterà da lui niente di meno del massimo dell’impegno.

A Popovich sembra di vivere un sogno: cosa ha fatto nella vita precedente per meritare tutto ciò?!

Qualche settimana più tardi, allo Charlotte Coliseum, va in scena la mera formalità.

Da questa intervista con Craig Sager, pochi istanti dopo la chiamata, già si capisce con chi abbiamo a che fare: un ragazzo umile ma sicuro di sé – sicurezza, non arroganza – consapevole di dover crescere e imparare molto dai professionisti.

Al primo allenamento Duncan si presenta indossando i pantaloncini al contrario. Quando Pop e il suo staff fermano l’azione per spiegare un concetto, il 21, un enigma dentro un enigma dentro un altro enigma, fissa il suo allenatore con uno sguardo che all’allenatore degli Spurs in principio sembra quello di una persona distratta, non presente, invece è il modo di Timmy di restare concentrato.

Tim parla poco, in campo e fuori, ma Pop si rende conto che con lui c’è un altro canale di comunicazione che funziona benissimo: la telepatia, un’intesa innata di cui solo due anime gemelle come loro possono usufruire.Il loro rapporto supera quello tra allenatore e giocatore per diventare quello di un mentore e il suo discepolo o di un padre con il proprio figlio: come detto il 21 parla poco, ma quando deve farlo, per problemi personali, per allentare lo stress o semplicemente chiedere consiglio, con papà William lontano, si affida a Popovich, di solito davanti a una torta di carote che lo stesso allenatore era solito recapitargli nei momenti bui, per tirargli su il morale.

Pop è una spalla su cui piangere ma anche un sergente di ferro che lo spinge a migliorarsi in ogni momento, anche se Tim è chiaramente una delle ali forti più devastanti ad aver mai calcato un parquet NBA.

“Hanno una passione cocente, l’unica cosa che conta per Tim e Pop è vincere. Non è una tendenza così rara nella NBA, quello che li distingue dagli altri è il fatto che niente e nessuno riesca a distrarli dalla loro missione. Sono entrambi molto schietti, diretti, tremendamente concentrati sull’obiettivo e il business della NBA non li condiziona in nessun modo”.

– Lon Babby, ex agente di Duncan

Avere una superstar che non pretende di avere certe cifre tutte le sere è un lusso che pochi allenatori possono permettersi. Duncan fa quello che serve per vincere: se sono 20 punti e 20 rimbalzi tanto meglio, dovessero essere raddoppi, recuperi, difese forti che non finiscono nelle statistiche, poco importa. Può essere decisivo oppure avere una giornata storta, ma con la sua sola presenza in campo gli avversari sanno già che in qualche modo condizionerà la partita a favore della sua squadra.

Avere una superstar che non pretende trattamenti di favore, poi, è l’altro lusso che ha permesso agli Spurs in questi anni di costruire una mentalità vincente.

“Tim mi ha permesso di allenarlo, e di questo gli sarò sempre grato. Ci sono state situazioni in cui ho esagerato con lui, alzando la voce, sgridandolo. Lui non ha mai risposto, non ha mai messo in dubbio le mie parole, ha sempre rispettato la mia posizione, soprattutto davanti al resto dei compagni: se la tua stella sopporta qualche parola dura nei suoi confronti, il resto della squadra non può far altro che mettersi in fila e seguirlo. Senza di lui, a quest’ora, sarei ad allenare nelle minors…”

Nessun favoritismo, nessun trattamento speciale, linguaggio duro ma onesto e diretto: proprio per questo il rispetto che Popovich ha ricevuto da tutti i suoi giocatori non ha eguali tra i coach della NBA. Molti ex Spurs continuano a cercare la sua approvazione anche una volta lasciato il Texas.

Tim e Pop hanno tirato fuori il meglio l’uno dall’altro, completandosi in modo idilliaco, tanto da far pensare davvero alla relazione perfetta.

Sono stati fianco a fianco per quasi vent’anni, fatti di successi, sconfitte, lutti, problemi familiari: tutta la vita adulta di Tim, una buona fetta della carriera professionale di Pop. Il ritiro del 21 ha significato la fine di un’era e per Popovich, ormai oltre i 70 anni, la prospettiva di lasciare la sua creatura in tempi non troppo lontani. Non sorprende quindi che la cerimonia del ritiro della sua maglia sia stato un momento così carico di emozioni.

La promessa al padre di Duncan, comunque, è stata mantenuta.

“Quest’uomo, a distanza di vent’anni, è esattamente la stessa persona che ho conosciuto su quella spiaggia di St. Croix”.