Nel corso della sua carriera di tifoso Knicks, il regista premio Oscar alla carriera è stato protagonista di alcuni tra i più accesi episodi di Trash Talking con stelle di squadre avversarie – da Reggie Miller a Kevin Love, passando da Pierce, Jordan, Bryant e Garnett.

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Passaggio schiacciato a terra, in post alto.

Kevin Love riceve il pallone nei pressi del gomito, spalle a canestro per proteggersi da Carmelo Anthony in una inusuale versione “Strong Defense”.

I Timberwolves, on the road in quel di New York, sono avanti di 6 punti quando alla fine del quarto periodo mancano meno di 4 minuti.

Una classica azione “face to face”, nella quale si vedono contrapposte le due stelle. Gli altri 8 in campo e tutto il resto è semplice contorno, compreso il timido “De-fense” dei 20’000 del Madison Square Garden. Ancora una volta tutti presenti e altrettanto destinati a tornare alle proprie case con il cuore scaldato dalla speranza: che la prossima sarebbe andata senz’altro meglio.

Il piede d’appoggio di Love danza, piroetta sul parquet arancione. Il 42 sembra attendere il movimento a smarcarsi di uno dei suoi quattro compagni in maglia blu. Ma nella realtà dei fatti ha coscientemente deciso da tempo che quel tiro sarà suo. Già.

La ricezione in quella particolare zona del campo non era stata affatto casuale: corrispondeva infatti allo spicchio di parquet esattamente di fronte al seggiolino d’onore di uno dei tifosi più caratteristici della Grande Mela. Vera e propria istituzione del parterre Knicks, il pittoresco signore in cinquanta sfumature Blu-Arancio sin dalla palla a due aveva acceso la propria corrosiva parlantina su frequenze particolarmente affezionate al Trash Talking. Un trapano acustico dalla doppia faccia, capace di accendere i Knicks e i consanguinei contribuendo a mantenerli aggrappati ai Wolves perennemente davanti, ma anche di indisporre il Beach Boy, per l’occasione in una inedita variante particolarmente “incattivita”.

Love aveva deciso di ricevere di fronte a Spike Lee. Per tirare in faccia a Spike Lee. Per segnare in faccia a Spike Lee.

Finta di partenza di destro. Palleggio ed incrocio di sinistro. Melo crolla a terra come fulminato da un cecchino, più per accentuare il contatto subìto che per la velocità di esecuzione di Love.

“Foul! FOUL! Oh, damn it! Ref!”

Le imprecazioni di Spike accompagnano la parabola del tiro che, beffarda, entra appoggiandosi al tabellone dopo un precario step back. Il tutto dopo aver eluso il semi-disperato tentativo di stoppata del “giovane” rookie Prigioni.

Un circus shot degno di nota, che lascia frastornata la difesa Knicks e dipinge un sorriso quasi incredulo sui visi della panchina di Minnesota. Il cantilenato “de-fense de-fense” si tramuta in un masticato “ooooh” di stupore, ma dei 20’000 presenti uno solo si alza in piedi. Quasi con tracotanza.

Un riflesso incondizionato, in realtà condizionatissimo dal voler comunque aver l’ultima parola, pur di fronte alla palese sconfitta nel suo personale duello.

Gli occhi azzurri di Love corrono a cercarlo, e, vedendolo spiccare sulla linea delle teste della prima fila, non faticano né a trovarlo, né a caricarsi di sarcasmo. Accompagnando le dita della mano destra raccolte in un “2 points” sventolato di fronte al naso al regista.

Eppure Lee pare cieco: prosegue imperterrito nella sua ondata di provocazioni, sotto ormai di 8 con una giocata che ha letteralmente tagliato le gambe ai Knicks.

Anche quando Kevin Love, portando il livello dello sfottò ai limiti dell’umiliazione, decide di offrirgli “sportivamente” un cinque, contraccambiato da Spike con lo sprezzante sorrisetto di chi non è convinto di dover soccombere.


 

Nella realtà il sentimento di fondo era più che nobile: non potendo scendere in campo, aveva per l’ennesima volta cercato di accendere tifo e giocatori, per tentare di recuperare una partita che con occhi diversi non sarebbe parsa del tutto irrecuperabile.

Un combattente, un guerriero vero, soccombe solo dopo aver esalato l’ultimo respiro. E tale spirito non si poteva dire che fosse il tratto distintivo di New York.

“Radio Spike”, in fondo, s’era accesa per questo.

Con i suoi pro. E i suoi contro. Uno dei quali provocare, ancora una volta, la stella avversaria.

Il 42 in maglia blu si allontana dandogli le spalle, così come la possibilità dei Knicks di recuperare la partita.

Non c’era più nient’altro d’aggiungere.

Un’altra volta nella sua parallela e rispettata carriera di Knicks’ fan, Spike aveva perso in maniera assordante.

L’occasione di fare la cosa giusta.

Era il 1986 quando i New York Knicks staccarono la prima cedola di abbonamento per un posto in prima fila al MSG a nome “Shelton Jackson Lee”. Spike – nomignolo amorevolmente conferitogli dalla madre per il suo carattere peperino – esaudì uno dei sogni coltivati sin da bambino. Grazie soprattutto al successo della pellicola She’s gotta have it, fu messo sulla bussola e del panorama cinematografico e di quello pubblico, iniziando a farsi conoscere come un ottimo regista illuminato da un amore viscerale per Brooklyn e la descrizione della dura realtà afro-americana.

Le sue pellicole erano impregnate del suo modo di essere: esuberante e sopra le righe. Esattamente l’archetipo di tifoso che una città come la Grande Mela stava aspettando. Il popolo Knicks lo individuò immediatamente come suo Mosè: un fan che letteralmente sanguinava blu-arancio, visceralmente appassionato e particolarmente umorale nel suo rapporto con la franchigia.

Nelle vittorie osannava; nelle sconfitte criticava.

Entrò nel cuore di tutti per la sua pittoresca capacità di descrivere a gesti e comportamenti il pensiero comune.

Una personalità celebre che esulava completamente dal clichè del VIP: perché era uno del popolo. Si comportava come uno del popolo.

E una città scintillante come New York non potè fare a meno di innamorarsi dei suoi look eccentrici e canotte con le quali individuava il beniamino da seguire in campo sino all’esalare dell’ultimo sospiro di voce.

Anche quando, suo malgrado, intraprendeva duelli pugilistici con le star avversarie. Con un lampante finale delineato all’orizzonte: cadere rumorosamente KO.

SPIKE LEE VS. REGGIE MILLER

In piedi. L’unico in un brusio di tensione. Una maglia bianca extra large targata “numero 1”.

Le braccia aperte in un gesto eloquente: “Davvero? Tutto qui?”.

In campo Reggie Miller sta letteralmente facendo a pezzi i New York Knicks, all’inizio del quarto periodo avanti di ben 12 lunghezze.

Non è propriamente una partita di fine Regular Season: è Gara 5 delle Eastern Conference Finals 1994. Contro gli odiati Indiana Pacers.

Miller ha appena sparato la bomba del -1, fulminando la retina e con essa le certezze di una New York fin troppo convinta di avercela fatta. Era da qualche azione che le sue orecchie erano state raggiunte da un fastidioso ronzìo.

Una voce costante ed incessante, che gli si rivolgeva confidando fin troppo in un esito positivo tutt’altro che certo.

Dentro di sé si chiese se quel “chiacchierone” di un regista non fosse pazzo.

Forse ignorava con chi avesse a che fare.

Si era fatto conoscere negli anni come uno dei Trash Talkers più duri, capace di entrare sotto pelle e far perdere le staffe a diversi giocatori della Lega. Aveva persino avuto l’ardire di sfidare, sprezzante, sua maestà Michael Jordan. D’altronde che ci si poteva aspettare da colui che ricevette il battesimo da Larry Bird?

L’intento di Lee era chiaro.

Una scommessa: se lo avesse provocato e fosse crollato, quel Reggie Miller sarebbe risultato un giocatore senza attributi. Incapace di rispondere e di sostenere la tensione e degli sfottò e del disperato tentativo di rientro in partita della propria squadra.

Nell’ultimo quarto. In trasferta. In un clima più che ostile – contando che il suo modo di agire avrebbe ulteriormente aizzato i compagni di fede.

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Così, come se fosse la cosa più naturale da farsi in quel momento, era balzato dal suo seggiolino e aveva iniziato a sciorinare una sequela di epiteti coloriti a suo indirizzo.

Certo: il rischio, qualora avesse perso, sarebbe stato quello di una doppia umiliazione per lui. Sul campo come tifoso, ma soprattutto fuori. Come uomo.

Ah: perché Spike Lee avrebbe potuto perdere?

Il Madison pare essersi risvegliato dallo shock. Quantomeno tenta di ostacolare la risalita di Indiana – 14-2 Pacers nei primi 5 minuti del quarto periodo – con una bordata di fischi all’indirizzo di Haywood Workman in lunetta. Ma alla regia di NBC non interessa, forse nemmeno allo stesso pubblico.

Di sicuro non a Miller.

Il suo sguardo non è rivolto verso il compagno, ma alla prima fila. Inamovibile, è piantato sulla sagoma di Lee.

Aveva appena segnato 10 punti in un amen, raggiungendo quota 24 e portando i Pacers a -1.

Workman segna il primo libero. Inquadratura tutta per Reggie. Non ha staccato gli occhi un istante dal suo “avversario”.

Ad un tratto, Miller alza la mano destra. Le dita, sventolate verso Spike, segnano eloquenti un 4.

In the fourth quarter…”

Entrambe le mani poi si avvicinano al collo, avviluppandosi attorno ad esso. La lingua leggermente di fuori a mimare lo strozzamento, la disperata ricerca di respirare aria quando sembra esser destinata a finire.

The Choke. “That’s it”.

Il pubblico a casa non ha il piacere di poter assistere alla reazione del regista.

Sembra quasi sentirsi un grido: è una discussione a due, almeno fateci vedere l’altro!

Niente, i riflettori sono tutti puntati sul numero 31 in maglia giallo-blu. Sulla brutalità psicologica e fisica del suo gesto. Una crudezza al limite, che aveva per certi versi indignato i presenti – compreso il telecronista, molto critico nei confronti della star di Indiana per un gesto del genere rivolto ad un membro del pubblico – ma che era destinata a restare nell’immaginario comune come uno degli atti di Trash Talking meglio riusciti di sempre.

Spike non si vede. Ma si sente.

Quel gesto ha varcato il confine tra parlato e fisico. Ma il suo unico modo di reggere il confronto è alzarsi in piedi e spingersi quasi a ridosso della linea laterale. E’ uno show, in fin dei conti.

Quasi non si rende conto: quasi non conta che sia Gara 5 delle finali di Conference. Conta solo la sua personale battaglia. Un generale che conduce in battaglia il suo esercito. Se solo il suo esercito fosse tutto dalla sua parte…

Perché alle grida di supporto incondizionato si accompagnano anche magri scuotimenti di teste.

“Spike, ci sta distruggendo. Non è forse meglio starsene seduti?”

Possesso successivo dei Pacers. Miller ora palleggia centralmente, di molto dietro l’arco dei 6,75.

Un gatto che gioca col topo. Davanti sente di avere Spike.

Quello è Spike, non un John Starks qualsiasi in pressione su di lui.

Dopo due palleggi si alza in un rilascio fantasmagorico, da una distanza che suona molto come una resa dei conti.

Il pallone non tocca neanche il ferro.

In barba ai disperati tentativi del pubblico di animare con un elettroshock la difesa di New York, entra facendo schioccare la retina.

Nemmeno si gode il momento, Reggie.

Si gira immediatamente verso di Lui, conoscendo già l’esito del suo gesto.

Indietreggia saltellando, un’espressione di sfida scolpita sul volto.

Ad un tratto si ferma, e fa due passi in avanti, il capo proteso verso Lee.

“It’s over bitch!”

75-72 Indiana. E vale davvero la pena godersi lo spettacolo:



25 punti nell’ultimo periodo. 39 finali. Dopo ogni singolo canestro, si era girato verso la prima fila. Per cercare Lee. Spike aveva ribattuto colpo su colpo, anche dopo quel macabro Choke fatto per intimargli il silenzio. Ma quella tripla, straordinariamente, per un attimo lo aveva zittito, seppur non quietato.

“What about Spike Lee?”

Lo sguardo di Miller si lascia andare ad un’esplosione di compiacimento all’indirizzo del giornalista.

“Spike who?”.

Già, Spike. Probabilmente l’incontenibile rabbia stava, in quel momento, aiutandolo a delineare nella sua testa le prime battute del meraviglioso monologo capolavoro recitato successivamente da Edward Norton ne La 25a ora.

“Fuck me? Fuck you!”.

SPIKE LEE VS PAUL PIERCE

“I’ve been tuning Spike Lee out for years”.

È il 7 gennaio 2013, e da poco è appena suonata la sirena finale di Knicks-Celtics. Gara che verrà ricordata come quella dell’incidente “Hooney Nut Cheerios”, dagli squisiti cereali al dolce sapore di miele utilizzati come metro di paragone da Kevin Garnett per dare a Carmelo Anthony una valutazione della propria “esperienza” con sua moglie. Una tanica di benzina rovesciata a cascata nei pressi di un cerino acceso, che era costata a ‘Melo la totale perdita di controllo in un momento personale particolarmente complesso con la sua dolce metà.

Era seguito un doppio fallo tecnico, con rimessa assegnata ai Celtics in attacco.

Pierce, sornione, s’era incaricato della battuta.

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Che c’entrava Spike?

Domanda da non porre e da non porsi.

Sta di fatto che non appena aveva visto The Truth approssimarsi di fronte al suo seggiolino, era schizzato in piedi fulmineo. Lo spirito del

demonio in grembo. La maglia di Bernard King – suo grande feticcio – sul cui numero 30 si adagiava una pesante collana con un crocefisso d’oro massiccio. Pierce aveva sogghignato: evidentemente non gli era bastato quanto accaduto soltanto 4 anni prima…


Rimessa per Boston nelle mani di Pierce, col punteggio nel terzo quarto fissato sul 62-66 per i Knicks.

Una partita di Regular Season qualunque, che sarebbe scivolata via indenne nel mare delle 82 gare.

Sia che fosse stata vinta sia che fosse stata persa.

Ma qui siamo a New York, nella vera capitale degli States. Lights on, Babies!

Le telecamere inquadrano Spike, la coppola calcata sulla testa. Un look straordinariamente sobrio, rispetto agli standard.

Applaude e se la ride. Non ritiene nemmeno opportuno di doversi alzare: si sarebbe goduto lo spettacolo del patetico tonfo di Paul per mano della difesa di New York dal morbido della sua poltroncina.

Mai avrebbe risolto quella situazione.

I Knicks avrebbero difeso la manciata di secondi che restava al finire dell’azione, accompagnando quello che era un airball già preannunciato con gli sguardi.

Affianco a lui un padre sorride osservandolo: probabilmente aveva regalato al suo figlioletto un biglietto per assistere al match in prima fila. Ma non esistevano cifre a due zeri in grado di pareggiare quello spettacolo.

Pierce non fa una piega. Lascia che Lee strilli acuto alla sua schiena. Al suo numero 34.

Rimette per Garnett. Fa un passo dentro il campo e, immediatamente, si butta in back door verso il fondo. KG gli passa una brutta palla schiacciata a terra, a chiudere l’azione mancano 4 secondi.

The Truth agguanta il pallone come se fosse la cosa più importante sulla faccia della terra.

Finta e contro finta, in una specie di spin move.

Step back e tiro cadendo indietro.

La sirena accompagna il pallone nel canestro. Una perla.

“It’s for you!”



Come Kobe solo qualche sera prima. Gli aveva fatto scherzosamente notare quanto per lui fosse ridicola la triangle offense versione Blu-Arancio. Lee non aveva voluto sentir ragioni. E allora Kobe glielo aveva spiegato di nuovo, in campo. In 61 declinazioni diverse. Una delle prestazioni più dominanti di sempre al Garden.

Errare è umano. Perseverare diabolico. E il fatto che fosse in piedi, dopo un tanto assordante manifesto di superiorità di Pierce, a gridare ingiurie a suo indirizzo testimoniava una scarsa attitudine da parte del “demonio” a fare le valigie e lasciare il suo spirito.

Dall’altra parte dell’Oceano qualcuno, intanto, commentava: “Io, fossi un tifoso dei Knicks lo pagherei. Per stare a casa”.


“Paul Pierce! He does it again!”.

Un altro tiro cadendo fuori equilibrio. Quando mancava poco meno di un secondo al concludersi dell’azione, e 45 alla fine della partita. Pierce aveva chiamato un isolamento: il mismatch con Chandler era un’occasione troppo ghiotta. Dopo una serie di esitazioni, aveva lasciato partire il tiro che avrebbe inciso la parola “fine” per quanto riguardava quella disputa. Con Boston sopra di 6 e una giocata che sapeva di condanna per le speranze di New York.

Aveva corso all’indietro, le braccia aperte in un’espressione di sbigottimento. Carica fin quasi all’eccesso di derisione.

Perché rivolta, ancora una volta – l’ennesima – a Spike.

Aveva poi aggiunto un piccolo omaggio dalla casa: un bacio spedito con due dita, nel quale il regista aveva probabilmente rivisto quel “Bye Bye” mimatogli da Jordan anni addietro. Dopo avergliene messi 50 in faccia.



“We’re gonna kick LeBron’s Ass”.

32 punti, 11 rimbalzi e 10 assist del Re nella vittoria degli Heat al Madison del 17 dicembre 2010 per 113-91.

Ennesimo fuori giri del motore. Eppure, osservandolo, non si può fare a meno di essere sfiorati da una forma di ammirazione.

Negli eccessi – più dannosi che proficui alla causa Knicks – non si può fare a meno di simpatizzare per Spike, uno dei pochi tifosi d’Oltreoceano in grado di vivere la passione un po’ più all’ “europea”. Il tifo nostrano, fatto di sfottò ai limiti, passione fisica e mimica quasi struggente: per certi versi si reincarna in un uomo che ha fatto della personale interpretazione della realtà la sua più grande arte.

Così come i suoi film, il suo vivere il tifo è visto con la luce dei suoi occhi. È scandito dai battiti del suo cuore.

Una scheggia impazzita nel fin troppo piatto tifo che spesso si vede nei vari palazzetti NBA.

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I suoi personali scontri, regolarmente persi per KO tecnico, sono entrati di diritto nella storia della Lega, contribuendo a creare un personaggio che sarebbe troppo superficiale definire come “macchiettistico”.

Anche quando fece notare con grave indignazione che:

Mi ha insultato senza motivo. Forse perché Stoudamire gliene ha messi 39 in faccia. Ma prenditela con Stat, dico io! Non ho detto un c…o a Garnett per tutta la partita. Questa cosa davvero non me la spiego. Ha perso completamente la ragione. Dovrebbe darsi un c…o di calmata!”

Già, Spike.

Una “c…o” di calmata.