A pochi giorni dal Draft 2020, quattro chiacchiere con la seconda scelta assoluta del 2011, oggi alla terza stagione in Europa.


FOTO: ACB Photo

Dopo le esperienze con Bayern Monaco e Fenerbahçe, Derrick Williams gioca ora in Eurolega con il Valencia Basket.

Il giocatore, numero 2 dell’NBA Draft 2011, ha parlato dei suoi anni negli States con José Ramón Alba Benlloch di At The Buzzer, blog di basket spagnolo a 360 gradi da lui stesso fondato.



Sei cresciuto in California, uno stato con quattro squadre in NBA. Com’erano le tue giornate?

Certo, è uno stato di basket, con squadre NBA in tutto il territorio. Sono cresciuto guardando i Lakers: mia mamma era molto appassionata e quando avevo 6/7 anni mi portava allo Staples Center. Le franchigie dello stato in generale sono molto amate e seguite.

In ogni caso, invece di frequentare il College in California, sei andato in Arizona, com’è stato?

È stata un’esperienza incredibile, diversa da ciò a cui ero abituato. Ero lontano dalla spiaggia e da dove ero cresciuto… Ma è stato importante, perché ho imparato uno stile di basket differente. È stato un bel viaggio: dalla California all’Arizona, e quindi in tutto il mondo.

Di recente ci ha lasciati Lute Olson. Quanto importante è stato per te?

Un allenatore fantastico, e ancora migliore come persona. Ho avuto l’occasione di incontrarlo qualche volta. Ha condotto la squadra di Arizona per 25 anni. Quando io ero freshman, lui era uscito dall’università da un paio d’anni. Io avevo un nuovo coach, Sean Miller, ma l’anima di Lute era sempre lì. In tutta la città ha lasciato un’eredità importante. Le leggende non muoiono mai: in Arizona sarà ricordato per sempre.

Un altro giocatore che è uscito dal College di Arizona è Aaron Gordon: alto, esplosivo e atletico come te.

È un giocatore straordinario, molto atletico. È andato ad Arizona un paio di anni dopo di me. Seguo la sua carriera da quando andava all’High School. È un gran giocatore, abbiamo molte similitudini: siamo entrambi ali grandi, ma possiamo giocare da 3 o da 4; Aaron sa tirare, è molto atletico e vuole vincere. Per questo è con Orlando ora, e ci starà a lungo.

Dopo la brillante carriera al college, sei stato numero 2 del Draft. Non sempre essere una primissima scelta garantisce una brillante carriera in NBA. Quale credi sia stato il fattore chiave per il quale non sei diventato un top player?

È difficile da dirsi, perché ci sono talmente tanti giocatori diversi che possono andare al Draft... Molte volte dipende dalle opportunità, e ovviamente anche dalla squadra che ti sceglie. Non tutti lavorano nello stesso modo.


FOTO: NBA.com

Sono contento di essere riuscito a giocare per sei anni in NBA; ho giocato in diverse squadre… quindi posso distinguere tra le grandi organizzazioni e quelle che lo sono un po’ meno. È come in qualsiasi business nel mondo: ci sono grandi aziende, e altre che funzionano meno bene.

Sono contento di aver giocato con Cleveland e di arrivare alle Finals: sono una grande organizzazione, così come i Kings. Quindi, come dicevo, è più una questione di occasioni. Io sono contento, sono professionista da dieci anni, e voglio continuare a provvedere alla mia famiglia, a giocare con entusiasmo e a dimostrare al mondo che non è necessario giocare in NBA per avere un’eccellente carriera nella pallacanestro.

Parlando dei tuoi coetanei in quel Draft. Alcuni di loro hanno fatto strada e giocano in NBA da quasi una decade: Kyrie Irving, Kemba Walker, Klay Thompson, Jimmy Butler (numero 30), con altri giocatori del secondo giro che stanno avendo una bella carriera. E’ una cosa a cui pensi?

Mi ricordo che prima del Draft c’era gente che diceva che non sarebbe stata una grande annata, poi vedi tutti quei grandi nomi: Kemba Walker, Kawhi Leonard, Jimmy Butler, Kyrie Irving, Klay Thompson. Sono un gruppo di giocatori che hanno vinto campionati NBA, sono stati All-Star, hanno vinto l’MVP… è fantastico vedere come diversi di questi giocatori sono diventati importanti. Sono molto amico di Kyrie e di tutti questi giocatori, come Klay Thompson, e sono contento che siano riusciti a mettere in campo quello che desideravano.

Dal canto mio, sono contento di seguire la mia strada, e giocare bene in Europa. Molte persone mi chiedono ad esempio perché non torno in NBA. Nelle ultime due stagioni ho rinunciato a diverse proposte NBA; non voglio tornare indietro: qui mi sento più a mio agio, ed è una questione di come ti senti.

Ci sono diversi giocatori di quello stesso Draft, europei o meno, che sono tornati in Europa dopo aver giocato in NBA. Nikola Mirotic, Trey Thompkins, Jan Vesely: hanno fatto bene in NBA, ma ancora meglio in Europa.

Indubbiamente è stato un grande Draft, da inizio a fine. Se pensi che Isaiah Thomas era stato la scelta 60… e sono contento che così tanti ragazzi stiano ancora giocando dieci anni dopo: tra NBA, Europa o in Cina.

Come hai vissuto il periodo del lockdown e come stai vivendo ora questa situazione così complicata?

È tutto difficile, perché i viaggi sono più complicati e molti altri giocatori nordamericani non hanno qui le loro famiglie. Il governo era dovuto intervenire per far viaggiare i miei, con tutte queste nuove regole… In ogni caso, io qui non mi sono sentito solo.

Sono contento di essere qui, anche perché in tre stagioni ho vissuto in Germania, l’anno scorso in Turchia e ora sono a Valencia: tre differenti situazioni, tre stati, tre culture e lingue completamente diverse. È il bello dell’Europa, che puoi volare una o due ore e trovarti in una realtà completamente diversa. Lo adoro, non mi lamento!

Venendo dagli Stati Uniti, com’è stata la tua prima impressione appena atterrato in Europa?

È stata pazzesca. In NBA, quando giocavo a Sacramento il volo più lungo era di 6 ore per arrivare fino a Miami, mentre qui il volo più lungo è di 3 ore, per andare da Mosca a Istanbul, ad esempio. E mi piace, perché ho l’occasione di vedere posti dove non sarei mai andato, come Mosca, la Grecia, Istanbul, e ci ho giocato… Non sarei mai venuto in Spagna, e ci sto giocando, o a Monaco di Baviera. Sono esperienze che ti permettono di conoscere diverse culture: mi piace quello che sto facendo.

E cosa ne pensi di quello che sta succedendo nel tuo Paese, con le proteste sociali che hanno paralizzato il campionato per tre giorni, soprattutto avendo conosciuto altre culture?

Il problema maggiore è il razzismo, e negli USA ha raggiunto un livello massimo. Qua in Europa, andando in giro per vari paesi, non ho questa sensazione; sento più affetto in generale, c’è più rispetto per le opinioni altrui. I giocatori hanno fatto bene a mobilitare l’intera NBA, perché molta gente guarda la pallacanestro in tutto il mondo, quindi è una cassa di risonanza importante. Possiamo aiutare a sensibilizzare il pubblico su diversi temi, e la gente ascolta.


Ringraziamo José Ramón per l’intervista e per averci dato la possibilità di tradurla e proporla anche agli appassionati italiani.