I Nets si avvicinano alla post-season più importante del loro recente passato con un dettaglio da non sottovalutare: i Big Three non hanno praticamente mai giocato insieme.
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A vederli giocare e stando ai risultati, tutto si direbbe tranne che questi Brooklyn Nets possano avere particolari problemi durante la post-season.
In tutta la stagione si possono contare sulle dita di una mano le volte che coach Nash ha avuto a disposizione il roster al completo. Dall’arrivo di Harden in poi, i Big Three hanno sofferto di vari problemi e in totale hanno giocato insieme la miseria di 7 volte, numero destinato a rimanere tale dopo la recente ricaduta dell’infortunio al bicipite femorale della gamba destra del Barba, che si rivedrà verosimilmente all’inizio dei Playoffs. E nonostante tutto, sono lì, a giocarsi il primo posto a Est con disarmante, quasi irrisoria, facilità.
I Nets, fin qui, sono andati avanti trascinati dalle loro tre superstar, quasi esclusivamente in coppia o addirittura da sole. Merito ovviamente non solo delle dette stelle, ma anche del supporting cast – da Joe Harris, Landry Shamet e Bruce Brown, passando per i veterani Jeff Green e DeAndre Jordan, al nuovo arrivato Blake Griffin – e del coaching staff guidato da Steve Nash.
Tuttavia, quello che da un lato è innegabilmente un merito di tutta la squadra, ovvero l’aver sopperito ottimamente e con successo all’assenza, talvolta concomitante, dei suoi elementi migliori, nasconde dall’altro lato un particolare da non sottovalutare, soprattutto in vista dei Playoffs: i Nets non hanno avuto e non avranno tempo, prima della parte più importante della stagione, per costruire la necessaria chimica tra le tre punte di diamante del roster.
Steve Nash ha affrontato il tema nel corso della chiacchierata pre-partita coi media prima della sfida ai Suns di due domeniche fa, che ha marcato il ritorno di Kevin Durant.
“Le contender solitamente non vincono al primo anno, il caso dei Lakers nella passata stagione è più che altro un’eccezione alla regola. Al primo anno insieme le squadre costruite per arrivare fino in fondo non vincono perché non hanno condiviso esperienze comuni in momenti difficili durante i Playoffs. Noi ne siamo consci, ed è qualcosa che non possiamo controllare. Ma possiamo trovare modi per mitigare questo problema, il primo è esserne consapevoli, il secondo è trovare una sicurezza e determinazioni comuni, che ottieni solitamente con un vissuto condiviso e che ti permettono di non sbandare quando sei sotto 2-1 in una serie, sei fuori casa e stai subendo un parziale di 12-0. Ecco, quando ci sei già passato hai maggiore padronanza di quello che succede e sei meno in balia degli eventi. Noi dobbiamo cercare di costruire questa mentalità nel corso dei Playoffs”
Come sottinteso nell’incipit di questo passaggio, la storia non è esattamente dalla parte di Brooklyn.
Le contender, costruite da un anno all’altro, solitamente non vincono. Al caso opposto dei Lakers nella passata stagione, fa da contraltare l’esperienza alquanto negativa dei cugini nella bolla di Disney World. I Los Angeles Clippers pagarono, a detta di tutti e confermato dagli stessi protagonisti, la mancanza di chimica tra i giocatori nel momento-clou della stagione. Le due stelle, Paul George e Kawhi Leonard, tra infortuni e load management, saltarono, combinandole, 59 partite di stagione regolare.
Nel recente passato altri superteam fallirono, quantomeno, al primo anno. Nonostante un quintetto con quattro All-Star – benché avessero tutti più o meno passato il loro prime – come Kobe Bryant, Pau Gasol, Dwight Howard e lo stesso Nash, quella versione dei Los Angeles Lakers tra inizio e metà della passata decade non sfiorò nemmeno lontanamente il titolo, tormentati anche loro da svariati infortuni e da rapporti interpersonali non idilliaci.
Per trovare un paragone forse un po’ più calzante, a livello di talento combinato e momento della carriera, anche i Miami Heat di LeBron James, Dwyane Wade e Chris Bosh, nonostante arrivassero con i favori del pronostico e dopo una stagione in cui saltarono appena 14 partite tra tutti e tre, persero in finale contro i Mavs di Nowitzki nella loro prima annata insieme in Florida.
Si potrebbe continuare con diversi altri esempi, ma il confronto con altre squadre possiede un valore relativo, non certo assoluto. Si tratta di contesti unici e irripetibili, e per questo diversi gli uni dagli altri.
Questi paragoni sono utili però a ricordarci che per nessuna squadra costruita da un anno all’altro o che giochi insieme da qualche mese, per quanto forte essa sia, può essere scontato il successo finale. Tanto più per una compagine la cui stagione regolare sia stata caratterizzata dalle continue assenze dei suoi elementi migliori.
Questo discorso non vuole insinuare che il Larry O’Brien avrà sembianze chimeriche per questi Nets; ma che se effettivamente raggiungeranno questo obiettivo, la loro impresa sarà ancora più grande e dovrà tenere conto delle difficoltà descritte sopra.
Se, durante i Playoffs, con tutte e tre le stelle in campo non faranno, verosimilmente, fatica a trovare una loro dimensione offensiva, diverso è il discorso nell’altra metà campo. I Nets – vuoi per le caratteristiche dei suoi campioni (sono, a parere di chi vi scrive, i migliori scorer della loro generazione), vuoi perché si tratta pur sempre di Regular Season – vincono le partite segnando un canestro in più degli avversari. Sono, su 100 possessi, il primo attacco e la 26esima difesa della Lega.
Può questo assetto essere efficace quando, secondo uno degli adagi più famosi degli sport di squadra e molto in voga Oltreoceano, gli attacchi vendono i biglietti e le difese vincono i campionati?
A guardare le statistiche – mostrate nella tabella qui sopra – dei campioni NBA del nuovo millennio, la risposta non può che essere negativa. A “salvare” parzialmente le prospettive di Durant e compagni c’è, tuttavia, il dato sul Net Rating. Il loro attuale settimo posto non è, statisticamente, così rassicurante, ma non si tratterebbe di un unicum insomma. Come non sarebbe un unicum, nello stesso periodo, che la squadra con il miglior terzetto di scorer venga coronata campione alla fine della stagione. È successo per tre volte con i Lakers di inizio millennio guidati da Shaquille O’Neal e Kobe Bryant, e due volte con i Warriors di Curry, Thompson e Durant nel 2017 e nel 2018.
Avere il miglior terzetto di realizzatori e il miglior attacco non sono, come deducibile, condizioni di per sé sufficienti. È chiaro che il livello difensivo di squadra debba salire ed è lecito aspettarci che sarà così con una attenzione e impegno maggiori da parte dei diretti interessati. La questione però è: quanto potrà veramente migliorare una difesa i cui tre elementi di maggiore minutaggio hanno giocato la miseria di 7 partite insieme?
Una difesa non si improvvisa, certi meccanismi hanno bisogno di tempo e allenamento per essere fatti propri. Solo l’infinita esperienza presente in questo gruppo potrà in qualche modo mitigare questo problema.
Non sarà quindi un cammino scontato quello dei Brooklyn Nets durante l’imminente post-season. Se, come probabile, chiuderanno al secondo posto a Est, dovranno potenzialmente affrontare le altre due contender della Eastern Conference – Philadelphia e Milwaukee – prima delle Finals. Ne consegue che, se questo cammino sarà vittorioso, molto dipenderà dalla capacità e celerità di rispondere a eventuali e probabili incidenti di percorso.
La storia non è esattamente dalla parte dei Nets. Ma, dopotutto, come diceva Mark Twain, “la storia non si ripete, ma fa rima”. Se, in questo caso, dovesse fare rima con talento…