FOTO: Raymondlewis.com

Questo contenuto è tratto da un articolo di Stephen Silver per The Philadelphia Inquirer, tradotto in italiano da Stefano Tedeschi per Around the Game.


Raymond Lewis è stato una delle scelte al primo giro del Draft per i Philadelphia 76ers esattamente come leggende del gioco quali Joel Embiid, Charles Barkley, Allen Iverson, Darryl Dawkins, Billy Cunningham. Ciononostante, Lewis non giocò mai né per i Sixers, né per altre squadre NBA. 


I retroscena di questa storia (di ormai mezzo secolo fa), il breve periodo in cui Lewis ha vissuto a Philadelphia ed il suo talento cestistico sono oggetto di un documentario intitolato “Raymond Lewis: L.A. Legend”. 

I Sixers, dopo aver sciolto il core della squadra che vinse il titolo nel 1967 costituito da Wilt Chamberlain e Bill Cunningham, si trovavano nel 1973 in una fase che oggi definiremmo di ricostruzione, ancora temporalmente lontana dall’arrivo di Doctor J – Julius Erving

Dopo una stagione da ben 73 sconfitte, i 76ers giunsero al Draft con la scelta numero uno, che si tramutò in Doug Collins, già star del team olimpico statunitense, e scelsero alla 18esima proprio Raymond Lewis. 

Tuttavia Lewis, in assenza di supporto da parte di agenti sportivi, negoziò in prima persona con i Sixers il proprio contratto, portando a casa una formula molto poco favorevole, in cui buona parte del corrispettivo era non-garantito. 

Come successivamente riportarono nelle interviste i presenti, Lewis si dimostrò cestisticamente superiore a Collins già al camp estivo dei rookie di quell’anno. 

Forte del successo al summer camp, Lewis chiese di rinegoziare subito il contratto con Philadelphia (per chi di voi segue l’NFL, ricorderà una situazione simile, ma di un giocatore già professionista, ovvero Terrell Owens, sempre a Philadelphia, con gli Eagles) senza però trovare l’appoggio della franchigia. Lewis iniziò a saltare qualche allenamento e venne sospeso per un anno, addirittura con il divieto di poter giocare per le squadre della lega sorella ABA.

Nel documentario, il General Manager dell’epoca, Pat Williams, dirà:

“Volevamo che fosse chiaro al mondo che Raymond era nostro, che era di nostra proprietà”. 

FOTO: The Philadelphia Inquirer

Lewis stette fuori dalla squadra e non venne pagato – ad eccezione del bonus ricevuto alla firma del contratto – per ben due anni, dopo i quali venne invitato al training camp, nel 1975. A quel punto, però, i Sixers avevano già acquisito giocatori come Darryl Dawkins, World B. Free e Joe Bryant (il papà di Kobe) che, di fatto, chiudevano gli spazi per Raymond. 

In effetti, Lewis abbandonò il training camp e negli anni a seguire, nonostante vari provini eseguiti in giro per la lega, non ottenne nessuna firma, quasi come se si fosse generata una forma di pregiudizio nei suoi confronti. 

Nel 1976 si realizzò la fusione tra NBA e ABA, e questo impedì a Lewis di tentare la strada per la ABA.

Raymond Lewis morì nel 2001, all’età di 48 anni, dopo aver lottato con l’alcolismo e le sue complicazioni. 


Raymond Lewis: L.A. Legend è un documentario nato dal lavoro di due filmmakers durato diversi anni. Il primo, Ryan Polomski, co-direttore, è originario di Lansdale (vicino Philadelphia) e giocò a basket nella squadra dell’High School North Penn; il secondo, Dean Prator, co-direttore e produttore, è di Compton, California e studiò in una high school rivale rispetto a quella per la quale giocava Lewis: Prator era freshman quando Raymond giocava da senior. 

Prator disse:

“Sapevamo già a quel tempo che era una leggenda, era un giocatore tipo Steph Curry”. 

Ad anni di distanza dall’high school, Prator, domandandosi come fosse andata la storia di Lewis, aprì un sito web, nel 2005, nel tentativo di creare un collegamento con i membri della famiglia dell’ex giocatore, e da lì iniziò il lungo processo che ha portato al documentario. 

FOTO: www.raymondlewis.com

Polomski arrivò a Los Angeles nel 2014 e, insieme a Prator, iniziò a raccogliere testimonianze, parlando con il coach dell’epoca dei Sixers, Gene Shue, oltre che con ex amici di Lewis, così come con l’ex Laker Michael Cooper. 

“Sapevamo di avere per le mani una storia da raccontare fin dalle prime interviste” disse Polomski, ma quello che era difficile da trovare erano dei documenti originali o video di Lewis mentre giocava, poiché usualmente High school e college, negli anni settanta, non preservavano registrazioni per così tanti anni. 

Casualmente sbucarono dei video di Lewis l’anno scorso e, con essi, una sorpresa: una registrazione di Raymond all’età del college, intervistato dalla futura star del giornalismo Bryant Gumbel, all’epoca ventenne.

Doug Collins, che allenò tra gli altri Micheal Jordan prima ai Bulls e poi ai Wizards, fu allenatore dei 76ers negli anni 2010-2013, abbandonando la franchigia appena prima di quella fase che chiamiamo “The Process”. Sebbene compaia in numerosi documentari riguardanti il basket, Collins rifiutò in questo caso di essere intervistato per il documentario, congedando Prator augurandogli “buona fortuna”.

I filmmakers sperano che il documentario trasmetta quella che è la storia di Raymond Lewis e che faccia meditare i tanti giocatori della NBA attuale, facendo prendere loro consapevolezza che vivono un’epoca in cui non solo sono pagati esponenzialmente più di quanto non accadesse negli anni ’70 ma, soprattutto, che esercitano anche un potere molto maggiore sui propri team.

“Penso che questo scenario derivi da una eccezionale serie di coincidenze”, dice Polomski: senza dubbio, se Lewis fosse stato scelto da un altro team, se la ABA fosse rimasta in vita o se anche Lewis avesse avuto un agente, la sua storia sarebbe stata probabilmente molto diversa. 

“Credo che se Raymond Lewis fosse stato pagato per quello che meritava, all’epoca, egli sarebbe diventato uno dei migliori giocatori mai scesi in campo per la lega”, sostiene Polomski.

Lewis giocava in un tempo in cui praticamente ogni posizione di rilievo nella NBA era occupata da persone bianche. “Non era solo un grande giocatore di basket, ma era un grande giocatore di basket nero, originario di Watts, CA., e semplicemente la lega non voleva storie di questo tipo”, dirà Polomski. 

Egli sostiene che la questione razziale “era il sottofondo di tutto la storia, ma non la rappresentava per intero… non credo che lui volesse diventare un simbolo della lotta all’uguaglianza ma, suo malgrado, finì per esserlo”. 

Il film documentario è stato finalista al 2022 Library of Congress Lavine/Ken Burns Prize (premio dedicato a produzioni che approfondiscano aspetti della storia americana).

Le parole di Prator saranno:

“Ci è costato molto tempo e lavoro ed è stata una sfida, ma l’abbiamo raggiunta ed ora siamo entusiasti di portarlo all’attenzione del mondo”.