L’inizio complicato degli Warriors ha tre cause ben riconoscibili.

Ripartire dopo i successi non è mai facile. Anche dopo i festeggiamenti più sfrenati, occorre ritrovare un equilibrio di squadra, e mettersi nelle condizioni di ricominciare a competere. Il processo non è automatico, e ne stanno dando prova i Golden State Warriors.
Dopo 16 partite il record dei detentori del titolo è 7-9, con 8 sconfitte su 8 trasferte, tra cui alcune molto sorprendenti (Hornets, Pistons, Magic). Al di là della calma da predicare per quello che è soltanto l’inizio della stagione, raramente abbiamo visto la squadra di Steve Kerr attraversare momenti difficili così prolungati in assenza di infortuni.
Quindi c’è da chiedersi: cosa non va? Proviamo a rispondere al quesito in tre punti chiave.
1 – Difesa
Ogni successo di Golden State ha trovato le sue fondamenta nella difesa. Nonostante lo scintillante attacco porti l’attenzione altrove, l’efficacia difensiva è stata il principale segreto della dinastia, il motore che alimenta la squadra da ormai 8 anni. Gli Warriors sono stati la seconda miglior difesa nel 2021/22, la quinta nell’annata precedente, la quarta nel 2015/16 e la migliore nel 2014/15 e nel 2016/17. Ad oggi, invece, il Defensive Rating dei campioni in carica si piazza appena al 17esimo posto.
Dato che il materiale umano è grossomodo quello di qualche mese fa, la prima risposta per un tale calo non può che essere trovata nell’impegno collettivo messo nella metà campo difensiva. Mancate rotazioni ed errori di comunicazione sono stranamente all’ordine del giorno.
Il livello intermittente della concentrazione causa agli Warriors problemi in aspetti apparentemente secondari, come tiri liberi ed extra-possessi concessi agli avversari. Draymond Green e compagni sono infatti noni per eFG% concessa e palle perse causate, ma 23esimi per rimbalzi offensivi concessi (29 ogni 100 tiri sbagliati) e penultimi per tiri liberi concessi (25 ogni 100 tiri tentati).
A tutto questo si aggiunge un problema strutturale non da poco se si considera unicamente la Regular Season. Nell’era Kerr, Golden State è sempre stata una squadra parecchio incline a cambiare marcatura su tutti i blocchi, ma la lunghezza della Regular Season e la necessità di moderare gli sforzi obbliga tutte le squadre a utilizzare in modo massiccio la drop coverage (se non conoscete il significato del termine, lo potete trovare qui), in quanto meno dispendiosa. Causa lunghi sottodimensionati e un’oggettiva carenza di screen navigator di alto livello, i Dubs sono mal equipaggiati per difendere in drop coverage, e finiscono inevitabilmente per soffrire le squadre con più minacce offensive dinamiche (vedere, ad esempio, le partite contro i Sacramento Kings e le uscite dai blocchi di Kevin Huerter).
Detto ciò, il personale per tornare presto a essere una delle migliori difese della lega c’è, ma occorre ritrovare le buone abitudini il prima possibile.
2 – Klay Thompson (e Jordan Poole)
15.5 punti con il 36% e il 33% da 3 punti: l’inizio di stagione di Klay Thompson è stato un vero e proprio incubo. La condizione atletica arretrata rispetto ai compagni non ha di certo aiutato, e il numero 11 non riesce a ritrovare le percentuali al tiro a cui ci aveva abituati prima dell’infortunio.
Sembra inoltre soffrire abbastanza le difficoltà al tiro dal punto di vista mentale. Quando inizia a sbagliare una serie di conclusioni, spesso anche la sua difesa scende di livello, inizia a commettere più di qualche banalità e isolarsi dai compagni. Il peggio arriva quando comincia istintivamente a forzare i tiri per ritrovare il feeling con la retina; va da sé che un atteggiamento di questo tipo non aiuta né lui, né tantomeno il buon funzionamento della squadra, che perde immediatamente fluidità.
In questo senso, l’ultima vittoria casalinga contro i New York Knicks è sembrata un buon punto di partenza, con Thompson apparso più predisposto a servire i compagni e punire le attenzioni difensive ancora elevate nei suoi confronti. Secondo quanto dichiarato dallo stesso cinque volte All-Star, l’aggiustamento sarebbe frutto di una conversazione con Green, che gli ha consigliato di “essere più calmo e paziente, e avere fiducia dei compagni”.
Trovare il miglior Thompson possibile è importante anche per stabilizzare il ruolo di Jordan Poole. Attualmente, la sua incostanza è evidente, e ancora più evidente è la differenza di aggressività messa sul parquet tra le buone prestazioni e quelle opache. Il 23enne alterna serate in cui si propone e prende iniziative di gioco ad altre in cui è quasi totalmente passivo in entrambe le metà campo, tra canestri regalati in difesa ed esitazioni insolite in attacco (un esempio è stata l’ultima trasferta a Phoenix, in cui Poole ha tirato solamente cinque volte in 27 minuti di impiego).
Dopo il famoso episodio con Green e il contratto ultra-milionario firmato alle porte della stagione, entrare nella sua testa è un compito impossibile per tutti. Partendo dalle informazioni che abbiamo a disposizione, ovvero quelle strettamente relative al campo, è possibile però ipotizzare una forte volontà di ottenere più spazio e considerazione, e di conseguenza un po’ di frustrazione nel vedere davanti a sé nelle gerarchie un compagno così in difficoltà.
Ecco perché ho precedentemente accennato a concetti come l’equilibrio e la stabilità: con un Thompson più “altruista” e una rotazione maggiormente rodata, Poole non avrà più scusanti e dovrà dimostrare di meritare il contratto che ha appena strappato al Front Office. E l’attacco degli Warriors ha dannatamente bisogno del suo apporto da secondary creator e attaccante del ferro.
3 – Giovani e profondità della rotazione
Pur lasciato per terzo e ultimo, questo ha buoni argomenti per essere considerato il problema dal maggior impatto negativo in questo inizio di stagione.
Dopo aver salutato, tra gli altri, Gary Payton II e Otto Porter Jr (rispettivamente 19 e 17 minuti di media nelle ultime Finals, 36 combinati), gli Warriors si sono scoperti corti.
L’inizio disastroso di James Wiseman (Net Rating pari a -21.2 con lui in campo) e il conseguente declassamento in G-League, ha portato a cinque il numero di spot a roster inutilizzati: uno vuoto, uno occupato dello stesso Wiseman, poi Andre Iguodala e i due rookie Rollins e Baldwin Jr, non ancora pronti per avere minuti. E, se non fosse abbastanza, Moses Moody e Jonathan Kuminga non godono ancora della piena fiducia di Kerr.
Risultato? Rotazione risicata, poche alternative, e minuti importanti obbligati per un two-way contract come Anthony Lamb. Con Curry seduto in panchina, i Dubs vanno in negativo di oltre 13 punti su 100 possessi, e i quintetti con pochi titolari non danno alcuna garanzia. Va da sé che, con una stagione così lunga all’orizzonte, una situazione di questo tipo obbliga il Front Office a
riflessioni scomode sull’ambizioso progetto delle due timeline parallele.
Con questo Stephen Curry, questo Andrew Wiggins e questo Draymond Green, ha davvero senso danneggiare la rotazione attuale in nome della costruzione del futuro? Determinati giocatori passano una volta sola, e le finestre da titolo sfruttabili non sono certo all’ordine del giorno. Tradotto: la possibilità di andare all-in attraverso il trade market non può non essere un’idea concreta sul tavolo del GM Bob Myers.
Per quanto questi discorsi possano essere considerati precoci, ci stiamo avvicinando alla conclusione del primo quarto di Regular Season, e in questa Western Conference nessuna posizione da Playoffs è assicurata. In attesa di ulteriori valutazioni dirigenziali, gli Warriors necessitano di una spinta netta sull’acceleratore per rimettersi in carreggiata.