FOTO: NBA.COM

Questo articolo, scritto da C. Brandon Ogbunu per The Undefeated e tradotto in italiano da Alessandro Di Marzo per Around the Game, è stato pubblicato in data 14 ottobre 2021.


Negli ultimi mesi sono stati condotti diversi studi riguardo la trasmissione del Covid-19 utilizzando dati provenienti dalla NBA, il cui piano ha consentito di disputare una stagione e mezza in sicurezza. Da qui sono stati tratti importanti spunti medici per il resto del mondo.

Chi lavora nel mondo NBA è, di norma, sano e giovane: per questo non c’è stato il bisogno di operare rilevanti suddivisioni nel gruppo di individui studiati, concentrandosi solo e soltanto sulle varianti del virus. Pur con tante questioni ancora irrisolte, questa ricerca ha permesso di trovare risposte almeno per una parte di esse.


La lotta tra Covid ed NBA è durata per quasi tutta la stagione, e si è visto anche in finale: dopo la vittoria del titolo da parte dei Bucks, infatti, Giannis Antetokounmpo ha parlato con suo fratello Thanasis solo tramite video-call, dato che stava scontando un breve periodo di quarantena (assieme ad altri membri dello staff) e non poteva accedere al Fiserv Forum. Un caso che ovviamente ha ricordato a tutti quanto fosse concreto il rischio di contagi in momenti-chiave della stagione.

Verso l’inizio della Summer League 2021, una domanda in particolare cercava risposta: la contagiosità delle varianti, soprattutto della variante delta. Per vaccinati e non.

Attraverso i dati forniti da NBA, sono state fatte delle proiezioni in contesti simili, come quello scolastico o di altri campionati sportivi. Questo processo è servito per commisurare le misure sanitarie da applicare (distanziamento sociale, uso della mascherina, e via dicendo). Il tutto, ovviamente, in relazione alla situazione vaccinale del dato contesto.

La Yale School of Public Health, la Harvard T.H. Chan School of Public Health e ad altri istituti hanno utilizzato i dati provenienti dalla stagione NBA 2020/21 (più di 200.000 campioni di studio) per analizzare la questione. “Esiste un caso di studio migliore del’NBA, in questo momento? Credo proprio di no”, ha spiegato Joseph Fauver, noto scienziato e ricercatore di epidemiologia alla Yale School. “Non posso davvero esprimere l’importanza e la qualità di questa collaborazione, si tratta di molti dati che l’NBA non ha utilizzato solamente per i propri health and safety protocols, ma anche per il bene comune”.

Fauver ha aggiunto che un focus molto rilevante dello studio riguardava il grado di trasmissibilità di determinate varianti rispetto ad altre. “Un’ipotesi sosteneva che una variante più contagiosa avrebbe dovuto generare cariche virali maggiori, come dimostrato anche dal picco di infezioni che si ha avuto.”

L’ipotesi è stata poi testata su campioni dell’NBA, con un confronto tra la diffusione e la carica virale della variante delta e quella delle altre varianti. I risultati hanno chiarito che, anche se la delta è più contagiosa, non ha una carica virale maggiore delle altre tipologie, una volta in corpo.“Comparando le medie dei risultati tra le varianti registrate dall’NBA, non cambia molto. Ci aspettavamo di vedere un picco più alto per la variante delta, ma le differenze statistiche non mostrano questa evidenza.”

Questo risultato è stato una tappa importante del percorso di ricerca. Certifica infatti che i fattori che rendono la variante delta più contagiosa non riguardano la carica virale. Quanto i vaccini, in questo contesto, influenzano l’andamento delle infezioni? La chiave sta nel tempo di guarigione: 5.5 giorni di media per i vaccinati, 7.5 per i non vaccinati.

I test hanno evidenziato dunque che la vaccinazione rimane un’importante ed efficace strumento per combattere la trasmissione del contagio, ma anche che i vaccinati possono comunque diffondere la variante delta. Conseguentemente, bisognerà fare attenzione a come si comporterà la salute pubblica in questi ultimi mesi del 2021, dove il tempo speso al chiuso da parte della popolazione sarà più alto rispetto ad ora.

Nita Bharti, epidemiologa al Center for Infectious Disease Dynamics della Penn State University, ha affermato che questi studi condotti grazie ai dati dell’NBA “chiariscono che i vaccini sono lo strumento principale per la lotta al Covid, ma non possono combattere da soli. Abbiamo bisogno di continuare a comportarci in modo adeguato, riducendo il contatto anche tra vaccinati ed utilizzando mascherine e distanziamento. Da marzo 2020 l’NBA ha preso decisioni coraggiose, implementando misure per la salute pubblica ancor prima dei nostri leader politici. L’immediata sospensione delle partite di Regular Season fu un messaggio molto forte per comunicare la serietà della pandemia.”

Infine, bisogna riconoscere rilevanza anche al fondamentale ruolo della NBPA (associazione giocatori): il solido rapporto con la lega ha infatti evitato di andare incontro a controversie pubbliche e tensioni che sono invece toccate, ad esempio, alla NFL.

“Spero davvero che riusciremo a costruire qualcosa che possa proteggere i nostri studenti e tutte le altre comunità a partire da quello che abbiamo imparato dall’NBA. Ci ha aiutati a capire quali sono i rischi concreti e quali no.”

Nita Bharti