
Questo contenuto è tratto da un articolo di Gautam Varier, Titan Frey e Orlando Silva per Fadeaway World, tradotto in italiano da Marco Marchese per Around the Game.
Gli atleti professionisti sono obbligati a mantenere certi standard per dare smalto e longevità alla loro carriera. I cestisti NBA, volenti o nolenti, non sono esenti da queste ferree imposizioni. E, anche se oggigiorno l’NBA ha abrogato l’obbligo di sottoporsi a drug test anche per verificare l’uso di cannabis, non sempre è stata tanto clemente e di larghe vedute. Tra la fine degli anni 90’ e l’inizio del Nuovo Millennio, i vertici del più importante campionato statunitense erano molto intransigenti e restrittivi in questo senso, punendo severamente chiunque violasse le regole sull’assunzione di sostanze dopanti, inclusa la marijuana. Si sa, per stessa ammissione di diversi cestisti NBA, che fumare marijuana sia una delle loro abitudini ricreative – attività, ad oggi, ritenuta praticamente innocua dal punto di vista atletico. Nel corso degli anni, fino a quando è stato proibito da regolamento, la federazione cestistica si è assicurata di perfezionare i drug test affinché raggiungessero il massimo dell’efficienza. Un giovane Al Harrington ha avuto l’occasione di tastare più volte con mano quanto appena detto, assaporandone alcuni contorni amari. Ad esempio quando, durante il periodo di “gavetta” a cui è stato sottoposto dai veterani durante l’anno da rookie, ha scoperto che tutti loro fumassero erba: sin dal suo arrivo agli Indiana Pacers ha dovuto portare donuts e orange juice in spogliatoio, pulire e lucidare le auto e portar loro i bagagli. Ciò lo ha condotto alla stravagante scoperta, oltre all’incremento di peso dovuto al continuo consumo di ciambelle, alle quali si era affezionato nel corso del tempo.
“Sin dal mio anno da rookie ho avuto ben chiaro che i giocatori più rinomati e famosi fumassero abitualmente marijuana. L’ho scoperto perché, essendo il rookie, venivo mandato sempre a comprare ciambelle ed aranciata, ma anche cartine, blunt e tutto il resto.”
Nel corso della sua pluriennale e longeva carriera, Al Harrington è incorso in alcune disavventure a causa della marijuana: nell’anno successivo, quello da sophomore sempre con la maglia degli Indiana Pacers, ha provato a fumare per la prima volta in vita sua. Dato il contesto, parrebbe nulla di anomalo, senonché l’indomani è stato improvvisamente convocato per un test antidroga in occasione di una partita. Al ha raccontato di quest’episodio a All The Smoke in un’intervista:
“Era il mio secondo anno in NBA, quello da sophomore. Ed era la prima volta in vita mia che ho fumato marijuana, a Phoenix. Fui convocato per un test antidroga, che ho superato perché avevo diluito il mio campione. È accaduto tutto in maniera caotica: uno dei coach mi chiamò al telefono per avvisarmi che avrei dovuto sostenere un test delle urine per l’antidroga, telefonata alla quale risposi con un secco ‘Fuori dalle p***e!’. Avevo provato la cannabis per la primissima volta in vita mia e sono stato convocato l’indomani per un test antidroga. Quando l’ho saputo ero sull’autobus, dal quale scesi immediatamente alla ricerca di un supermarket, per comprare valanghe di cibo e quel Sonne’s #7 che tutti dicevano di bere prima di un drug test: l’ho bevuto ed era disgustoso. Ha stimolato il mio impulso ad urinare, e per tutto il giorno sono andato in bagno decine di volte. Prima della partita mi sono recato al centro analisi ed ero nervosissimo, tanto da non poter urinare, quindi mi dissero di tornare a fine gara. Ricordo che tutti mi stavano aspettando e quando finalmente sono riuscito ad ottenere il mio campione ho capito che fosse praticamente solo acqua, e che ero riuscito a diluirlo. Ecco come riuscii a superare quel test. Dopo aver inserito il campione nel macchinario per i controlli, il medico mi disse che era un campione quasi interamente costituito da acqua: ‘Cosa vuole che faccia, dottore?’, questa fu la mia risposta.”
Un incredibile aneddoto su come aggirare le regola a proprio favore. Su suggerimento di vari compagni di squadra, Harrington è riuscito a farla franca, diluendo il campione d’urine ha avuto modo di ottenere un’altra chance. Dev’esser stata una situazione critica e piena di tensione per Al, che tuttavia n’è uscito a testa alta e con un’importante lezione per il futuro. Harrington ha portato a termine una carriera da ben 16 stagioni disputate in NBA, avendo indossato le canotte di varie franchigie e ottenuto il rispetto di tifosi e compagni per le buone giocate messe in mostra lungo tutto il corso di essa – con una notevole media di 13.5 punti, 5.6 rimbalzi, 1.7 assist, 0.9 recuperi e 0.3 stoppate a partita.
Il rapporto tra Al Harrington e la marijuana si è consolidato quando ha deciso di appendere gli scarpini al chiodo. Spesso, una volta terminata la propria carriera d’atleta, i cestisti rischiano di finire in un limbo prima di riuscire ad adattarsi alla nuova vita. Non è stato il caso di Harrington, che dopo il ritiro ha deciso di intraprendere una carriera nel mondo dell’industria della cannabis. Dopo il 1998, anno in cui è stato scelto dagli Indiana Pacers al Draft, è stato rinomato per essere un role player versatile, abile nel playmaking e nel tiro da oltre l’arco, con solide caratteristiche e propensioni difensive. Al termine della sua carriera ha guadagnato ben $97,698,919 milioni, per HoopsHype, con il contratto più remunerativo firmato nella Stagione 2009/10 con i New York Knicks.
La sua carriera nel business della canapa ha radici lontane: quando ancora militava nei Los Angeles Lakers, nel 2012, ha co-fondato una società per la vendita di prodotti ottenuti dalla cannabis chiamata Viola, in onore di sua nonna (lo abbiamo raccontato QUI). Essa si occupa di tutto il processo relativo alla vita della pianta di canapa, dalla semina alla raccolta, vendendo vari tipi di prodotti derivati da essa, tra cui infiorescenze, oli, concentrati e prodotti edibili. La prima sede è stata fondata proprio a Los Angeles e nel corso degli anni si è espansa, raggiungendo Colorado, Michigan, Oklahoma, Oregon e Washington, oltre che numerosi punti vendita nella stessa California. Solo nel 2020, la Viola ha concluso l’anno con un incasso di oltre $20 milioni. Quasi il doppio rispetto al massimo dei guadagni ottenuti in un singolo anno da Al Harrington durante la sua carriera da cestita. I suoi intenti, però, non sono volti al mero guadagno personale: Al ha infatti aiutato a crescere molte altre attività come la sua, gestite da cittadini afroamericani. Ha affrontato questa tematica in un’intervista rilasciata a Forbes, di cui riportiamo di seguito le parole.
“Il proibizionismo riguardo questa pianta ha causato diversi problemi e disagi nel corso degli anni nelle nostre comunità. E adesso è divenuto un business da miliardi di dollari, al quale comunque non viene concesso il libero accesso a tutti. Il mio obiettivo è quello di costruire una legacy. Amo il mio lavoro e ciò che faccio ogni giorno alla Viola. Tutto il mio impegno è volto a costruire un brand che sfrutti il suo nome ed i suoi introiti per creare nuove opportunità di lavoro, ispirazione ed educazione scolastica per la gente, specialmente coloro che sono stati colpiti dalla piaga delle droghe. Che spesso sono afroamericani come me.”
Harrington intende investire su altre società gestite da afroamericani, aiutando loro ad ottenere le licenze per poter lavorare come dispensari di cannabis. Finora è riuscito in quest’intento con 8 aziende attive attualmente, aiutandone i proprietari ad avere introiti milionari. La strada è ancora lunga, ma Al ha dimostrato di essere una persona molto determinata a raggiungere i propri obiettivi. Per quanto in NBA abbia portato avanti un’ottima carriera da role player, è indubbio che nel business della cannabis Al Harrington sia divenuto un vero e proprio All-Star.