Voleva le cose a modo suo. A volte in modo sottile, altre volte in modo palese.

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Questo articolo è una traduzione autorizzata. La versione originale è stata scritta da J.A. Adande e pubblicata su The Undefeated (ESPN), tradotto in italiano da Alessandro Di Marzo per Around the Game.


Fu durante la sua seconda stagione che Kobe Bryant rispose alla mia domanda. O almeno, così pensavo.

Secondo la logica NBA, per vincere un titolo una squadra avrebbe bisogno di almeno due giocatori da Hall of Fame nei loro prime per trionfare, e Shaquille O’Neal, nel 1998, sembrava già avere la strada spianata per entrare a far parte della celeberrima e ristretta lista di Springfield. Nel corso della seconda stagione NBA di Kobe Bryant, mi chiedevo se qualcuno, oltre a Shaq, si sarebbe innalzato fino a raggiungere un livello simile.

Non ricordo il momento esatto della stagione, ma ad un certo punto mi è sembrato evidente che quel giocatore mancante sarebbe stato proprio Kobe; evidentemente anche Jerry West, che già aveva notato in lui un potenziale da Hall of Famer nel pre draft workout di due anni prima, ci aveva visto piuttosto bene. Onestamente, però, non avrei mai immaginato che vi sarebbe stato introdotto postumo.

La sua morte è stata probabilmente l’unico momento in cui non ha potuto prendere il controllo delle sue azioni, dove non è stato in grado di sconfiggere le aspettative. Ed andandosene così tragicamente, non ho nemmeno potuto rispondere alla mia domanda. Tecnicamente, non entrerà davvero nella Hall of Fame, perlomeno non fisicamente, accanto a Tim Duncan e Kevin Garnett a godersi i complimenti di tutti per poi rivivere insieme agli altri i momenti più belli della sua carriera.

In mezzo a questa crudele realtà è sbucata anche una sottile rivelazione: Kobe non ha mai realmente risposto alle domande che gli ho posto, o perlomeno non ha mai confermato ciò che gli chiedevo.

Dopo la vittoria decisiva contro Sacramento nelle Western Conference Finals del 2002, per esempio, lui ha negato l’esistenza di una rivalità tra Lakers e Kings. “They gotta beat us first. You know the rules, baby”. Questa è stata la sua giustificazione.

In questo momento, mi stanno tornando in mente molte delle sue uscite indimenticabili, come quella in cui mi evitò, uscendo dalla sala stampa dopo aver rimontato 15 punti ai Blazers nell’epica Gara 7 delle Western Conference Finals del 2000. Ma è comprensibile, voleva fortemente andare lì fuori e dimostrare a tutti coloro che dubitavano di lui e della squadra che si erano sbagliati di grosso.

“Killer instinct? No?” Chiese ironicamente.

Il suo atteggiamento, perennemente volto a lottare contro le avversità, si mise in luce anche nelle Finali di Conference del 2009 contro Denver: Los Angeles era costretta a vincere in Colorado per mantenere viva la serie; in casa, però, i Nuggets non avevano ancora perso durante quei Playoffs. 

Riguardo alla difficoltà di quei match, Kobe si rivolse retoricamente a me: “Who the fuck said it was going to be easy?”

Non mancavano nemmeno i suoi severi avvertimenti: “Be careful what you write” – esclamò mentre stavo iniziando a scrivere riguardo alla serie contro Dallas, che li aveva battuti per la seconda volta consecutiva (i Mavs vinsero poi la serie 4-0).

Il suo commento più agghiacciante che ricordi, però, fu quello nel 2001 dopo la vittoria in Gara 2 contro gli Spurs nelle finali di Conference. I Lakers avevano già vinto la prima partita a San Antonio, e Kobe segnò la tripla decisiva a poco più di un minuto dalla fine. Partita e serie virtualmente chiuse (serie, appunto, vinta 4-0, con 68 punti di scarto spalmati sulle 2 partite in California).

“Con quel tiro hai tagliato loro un’arteria” gli chiesi, mentre ci incamminavamo verso il pullman.

Let ‘em bleed”, replicò.

Normalmente, non si stupiva molto per ciò che io trovavo più interessante: gli feci infatti notare che era l’unico giocatore dai tempi dell’unione tra NBA e ABA a disputare due All-Star Game in una stessa città, ma lui non si mostrò così impressionato. “Is that supposed to mean anything?”

Quando però spiegai che Kobe era uno dei 7 giocatori su 24 dell’All-Star Game 2004 ad essere ancora nella stessa squadra, sembrò molto più orgoglioso: “The All-Star Game coming back to LA means that I’m in a hot city”.

L’unica volta in cui si è trovato d’accordo con me è stata quando ho affermato che, con la scomparsa di Jerry Buss, Kobe era ora l’ultimo Laker connesso fortemente con la franchigia: “I will carry that torch happily. It’s a honor. A tremendous honor”.

Bryant era così, a volte sottile e pungente, a volte sfacciato. E realizzare quanto fosse grande (anche da questo punto di vista) non è necessariamente qualcosa di immediato.

Uno dei momenti in cui ha tirato fuori il suo carattere è stato quello in cui ha dovuto affrontare il processo per le accuse di stupro. È infatti stato in grado di non mettere mai al primo posto questa situazione, tanto che alcuni si sono sentiti obbligati, anche a loro rischio e pericolo, ad affermare che parlare della sua vita senza includere questo periodo risulterebbe un’operazione incompleta.

Lo sport, d’altronde, è così: ci sono dei vincitori e degli sconfitti, e questo è ciò che conta. Dopo la caduta delle accuse in Colorado, Bryant ha vinto un MVP, due titoli NBA e una medaglia d’oro alle Olimpiadi, risultati che hanno definitivamente dimostrato come Bryant, ormai, si fosse sbarazzato anche di queste difficoltà.

C’è chi pensa che il raggiungimento di obiettivi sportivi non debba condizionare i giudizi sul comportamento di un uomo, e c’è chi invece adotta spesso la visione opposta. Come si potrebbe condividere la prima opinione sapendo che Bryant, appena uscito da un primo interrogatorio in Colorado e volato a Los Angeles, giocò (arrivando a partita iniziata) e segnò il canestro decisivo? È riuscito a trasformare un ritardo lavorativo causato da un presunto stupro ad una tappa memorabile della sua vita.

Che fosse con la palla o con un microfono in mano, Bryant si è sempre sentito a suo agio nel modellare a suo favore la realtà, non sempre dall’inizio, ma sicuramente con la capacità di determinare le sorti finali degli eventi.

Nel 1999 Jesse Jackson, davanti al monumento commemorativo di Walter Payton, ha spiegato che sulle lapidi si trovano la data di nascita a sinistra, quella di morte a destra e un trattino in mezzo, che noi non possiamo scrivere le date in questione, ma possiamo decidere ciò che quel trattino racconterà di noi.

E Kobe ha lavorato più di ogni altro per far raccontare a quel trattino una storia meravigliosa.