Il veterano dei Miami Heat parla del ritiro, del rapporto con i compagni, del desiderio di diventare proprietario della franchigia e di molto altro.

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Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape, tradotto in italiano da Marta Policastro per Around the Game.


MIAMI – Il 28 ottobre 2003, un’ala grande undrafted fece il suo esordio nel quintetto dei Miami Heat. Oggi, quasi 20 anni dopo, Udonis Haslem è uno dei dieci giocatori ad avere giocato per 20 stagioni in NBA, in una lista che include vari Hall of Famer presenti e futuri, tra cui Kareem Abdul-Jabbar, Kobe Bryant, Dirk Nowitzki, Kevin Garnett e Robert Parish, nonché LeBron James, ex compagno di Haslem agli Heat.


Grazie alla vittoria conquistata contro i Celtics nelle Eastern Conference Finals, Haslem potrà chiudere la propria carriera al termine delle NBA Finals contro i Denver Nuggets. Se anche non arrivasse il titolo, Haslem concluderebbe la propria carriera con tre anelli e come uno dei giocatori più rispettati della lega.

“Un giocatore viene scelto al Draft, fa il proprio dovere, se tutto va bene diventa una superstar, magari riesce a portare la propria squadra al titolo, entra nell’Hall of Fame e si ritira. Le persone pensano che funzioni così”, ha raccontato Haslem ad Andscape. “Ma non è tutto bianco o nero; non è necessario essere una superstar per essere un vincente, né essere un Hall of Famer per avere un impatto duraturo sulla franchigia. La società ci vuole far credere che funzioni così, ma anche se non sono come Dwyane Wade o LeBron James, la città mi considera comunque il volto della franchigia. Voglio che le persone imparino da me che bisogna essere i padroni del proprio destino, senza seguire le convenzioni che la società ci vorrebbe imporre; mi dicono spesso che occupo inutilmente un posto del roster, ma non conoscono il mio ruolo all’interno della squadra. Se avessi seguito un percorso tradizionale, non sarei mai arrivato dove sono ora.”

Gli Heat hanno ritirato la maglia di cinque loro ex giocatori (Wade, Mourning, Hardaway, Bosh, O’Neal) e la numero 23, in onore di Michael Jordan. A queste dovrebbe aggiungersi anche la maglia #6 di LeBron, miglior marcatore della storia NBA, e non c’è dubbio che ritireranno anche la numero 40 di Haslem, forse già la prossima stagione. Nella storia della franchigia, Udonis è secondo solamente a Wade come presenze (rispettivamente 879 e 948), mentre è il leader per rimbalzi totali (5.791); nonostante non abbia mai partecipato a un All-Star Game e non sia mai stato membro di un quintetto All-NBA, l’impatto che ha avuto sulla franchigia e sulla comunità di Miami gli è valso il soprannome di “Mr. Miami”.

Haslem, che si descrive come un filantropo, ha dichiarato di avere intenzione di acquisire delle quote degli Heat, dopo il ritiro: ritiene di meritare l’opportunità per quanto fatto per la franchigia negli anni e pensa che questo risultato potrebbe generare un impatto positivo sulla comunità di colore.

Il presidente degli Heat, Pat Riley, ex coach di Haslem, apprezza molto ciò che il giocatore ha fatto per la franchigia: “È entrato in palestra e ha lottato per avere un contratto”, racconta. “Dalla partita di Preseason a Porto Rico è diventato titolare e lo è restato per molto tempo. Ora, è passato dall’essere un role player all’essere un leader carismatico, ruolo che gli riesce benissimo grazie alla sua esperienza e alla capacità di sostenere i compagni, che lo adorano e lo rispettano. È un esempio di costanza, è professionale, competitivo, un vero guerriero. Poi, viene da Miami, da Liberty City. La città e gli Heat lo adorano: è il migliore”.

In questa intervista, Haslem parla del ritiro, dell’impatto che la propria carriera ha avuto sulla famiglia, del desiderio di diventare un socio di minoranza degli Heat, della Heat Culture, del proprio sostituto e della possibilità che la maglia numero 40 venga ritirata.

Perché questo è il momento giusto per ritirarsi?

Ho dato tutto quello che avevo, ma ho anche rinunciato a molto: soprattutto il mio tempo, in particolare quello con i miei genitori, che non potrò mai recuperare perché loro adesso non ci sono più. Ho sacrificato molto per arrivare dove sono adesso, ma non devo dare per scontato che le persone a cui tengo ci siano per sempre: è arrivato il momento di dedicarmi a loro.

A cosa hai dovuto rinunciare?

Alle partite di mio figlio, al tempo con la famiglia, ai compleanni, alle vacanze. Invecchiando, mi sono reso conto dell’importanza dei ricordi, che sono l’unica cosa che resterà per sempre: per questo sento il bisogno di crearne con la mia famiglia. Prima ragionavo in modo diverso, pensavo di avere molto tempo davanti.  

Quando hai perso i genitori?

Mia madre è morta 13 anni fa, mentre mio padre nel 2021. Tutto ciò che mi rimane di loro sono i ricordi, quindi voglio crearne il maggior numero possibile con le persone a cui voglio bene.

Pensi che tu e veterani come Andre Iguodala e Garrett Temple abbiate dimostrato l’importanza di avere giocatori esperti in panchina come leader carismatici per i più giovani?

L’investimento che si fa nei giovani talenti non deve essere solo finanziario: non si può caricare il futuro di una franchigia che vale miliardi di dollari sulle spalle di un giocatore di 21 o 22 anni, perché non avrà mai la maturità necessaria. C’è un gap tra questa generazione di stelle e i front office e gli allenatori, e spesso a capo delle organizzazioni ci sono persone bianche di una certa età, che ovviamente non possono capire quello che abbiamo passato.

Io invece vedo i giocatori come persone, come esseri umani e posso aiutarli a raggiungere i loro obiettivi. Spesso viene detto ai giocatori come si devono comportare, che è meglio rompere i legami con l’ambiente nel quale si è cresciuti, ma non è il giusto consiglio. Le prime domande che faccio ai miei compagni sono: “Che tipo di persona sei? Da dove vieni? Hai dei figli?”. Conosco i genitori di Strus, di Martin e di tutti gli altri; ho creato con i miei compagni relazioni che vanno al di là del basket: in questo modo riesco a farli rendere al massimo, perché sentono che ci tengo a loro.

Come vedi il tuo futuro dopo il ritiro?

Il mio obiettivo è entrare nalla proprietà della franchigia. Capisco chi scegli di allenare, anche perché Riley è stato uno dei migliori coach della storia, ma grazie alle relazioni che ho sviluppato nel corso degli anni con le franchigie, i proprietari e i GM, sento che posso continuare ad avere un impatto positivo sulla città e sulla squadra, come co-proprietario degli Heat.

Pensi che ti verrà data la possibilità di comprare delle quote?

Non lo so, ma spero di sì; ho sempre detto pubblicamente che è il mio obiettivo. Ho parlato con alcuni giocatori che hanno seguito questo percorso, come Buster Posey, ex ricevitore dei Giants che oggi è uno dei proprietari della squadra, James Jones, presidente e GM dei Suns, nonché mio ex compagno agli Heat. E ne ho parlato anche con Wade. Mi sono fatto raccontare come hanno fatto; non sono qui ad aspettare in modo passivo che succeda qualcosa, ma mi sono preparato al meglio: sono un vincente, un leader, un filantropo, un padre, un marito e un uomo d’affari, nato e cresciuto qui. Per tutte queste ragioni sono il candidato perfetto.

Perché è importante che ci siano dei proprietari di colore in NBA?

È importante mostrare alle persone del mio quartiere che si possono ottenere i miei stessi risultati: da piccolo non pensavo in grande, perché non sapevo di poterlo fare; voglio essere un esempio per i futuri giocatori di basket, di football e sportivi in generale, e mostrare quali sono i risultati che possono essere raggiunti da una persona proveniente dal loro stesso contesto.

Dwyane, Alonzo, LeBron hanno contribuito al successo della franchigia, il cui valore è passato da 23 milioni di dollari a 2.3 miliardi. La città stessa ha tratto un enorme beneficio dalla franchigia e io ho avuto un ruolo importante: per questo ritengo di meritare un’opportunità.

Quanto è importante la mentalità?

Se avessi vissuto seguendo il consiglio degli altri, non sarei mai arrivato a questo livello. Secondo la gente, successo è andare al college, avere una bella casa e una bella macchina, ma non è così che dovrebbe essere la vita. Il successo e la felicità non sono prodotti standardizzati, sono condizioni diverse per ognuno di noi. Nella vita affronteremo tutti dei momenti difficili e dovremo riuscire a superarli e a reinventarci per continuare a essere felici: così è la vita.

Quali emozioni proverai, quando la tua maglia verrà ritirata?

Sarà un giorno molto emozionante perché non potrò viverlo con i miei genitori; mi mancano molto. Mio padre sarebbe stato fiero di vedere ciò che sono diventato e a mia madre sarebbe piaciuto volare sul jet privato: ne ha passate tante, tra la dipendenza dalla droga e il non avere un tetto sulla testa. Non dico che non sarò felice, ma sarà diverso non averli al mio fianco. Quando mio padre morì, persi un po’ del mio entusiasmo: lui era sempre stato con me, in un modo o nell’altro, a bordo campo o al telefono. Senza di lui non era la stessa cosa. Anche se amo ancora il basket, non sono più affamato come un tempo.

Com’è stato segnare 24 punti nella tua ultima partita di Regular Season, contro Orlando, con Wade tra il pubblico?

Non vedevo l’ora di giocare. Leggo tutti i commenti degli altri giocatori che mi prendono in giro, ma io non sono qui per perdere tempo: mi alleno esattamente come tutti gli altri perché se non lo facessi perderei il rispetto dei miei compagni, che mi guadagno tutti gli anni con l’impegno e la costanza. Più io li responsabilizzo, più loro responsabilizzano me.

Che cosa ti mancherà di più, dopo il ritiro?

Lo spogliatoio, le battute e il tempo passato con i compagni. Sono uno che scherza tanto, faccio sì che l’atmosfera sia sempre distesa.

E quale sarà la prima cosa che farai dopo il ritiro?

Dovrò occuparmi dei miei affari, ma prima di tutto vorrei portare la moglie di mio padre al concerto di Bruno Mars, lo adora. Guarda sempre i suoi video su YouTube e li mostra a tutti: non sapevo che le piacesse così tanto, e appena finisce la stagione la porterò a vederlo a Las Vegas. Lei è il mio angelo custode, è entrata nella mia vita quando avevo cinque anni. È già difficile crescere un bambino, figuriamoci crescere un bambino che non è nemmeno tuo figlio. Ma lei è sempre stata il mio punto di riferimento.

Che cosa ci dici della Heat Culture?

Io sono la Heat Culture. Per me è uno stile di vita. Mi occupo di diverse attività in città e ho giocato per più di vent’anni in NBA. Adesso ho l’opportunità di discutere della possibilità di diventare un proprietario degli Heat. La Heat Culture si applica a tutti gli aspetti della vita: noi facciamo le cose che altri ritengono superflue, perché vogliamo distinguerci, vogliamo essere migliori.

Chi colmerà il vuoto che lascerai nella squadra?

Ottima domanda, nessuno lo potrà fare. Non potrà essere una sola persona, ma abbiamo Kyle Lowry, che sarà qui anche l’anno prossimo, poi ci sono Kevin Love e Bam Adebayo, per il quale sono stato un mentor in questi anni. Poi c’è coach Spoelstra, con il quale ho condiviso il mio percorso. Ci vorrà una leadership collettiva, ma i ragazzi riusciranno a trovare una soluzione.