
La tua carriera al college ha avuto inizio all’Otero Junior College, in Colorado. Hai fatto tanta strada per allontanarti da Saginaw…
Volevo solo mettere quanta più strada possibile tra me e tutta quella merda. Scusate per il linguaggio, ma quando ripenso alla mia adolescenza, mi viene solo in mente quanto tossica fosse quella situazione.
Mi aveva convinto un mio amico a giocare a basket, Rodney Alston… e anche lui, purtroppo, non è più tra noi. Sono cresciuto giocando a football, ma andando avanti con gli anni non ero molto bravo, pensavo che mio padre non mi avrebbe lasciato giocare a football. Allora ho iniziato a giocare a basket nelle leghe cittadine e nei tornei organizzati dalla chiesa.
Otero era l’unica opzione per te dopo l’high school?
Mio padre e i suoi due fratelli, i miei zii, hanno servito nell’esercito. E anche il fratello di mia madre, che ha prestato servizio in Vietnam. Mio padre e i miei zii invece hanno lavorato per l’Air Force. Una volta gli ho detto che mi sarebbe piaciuto provare ad entrare nell’Air Force, ma mio padre mi disse che era meglio provare ad andare al college. Se non avesse funzionato, allora avrei potuto provare la carriera militare.
Sono entrato al college, a Otero, perchè Rodney aveva parlato bene di me a quello che sarebbe diventato il mio allenatore, Marshall Thomas. Thomas era alla ricerca di ragazzi da reclutare, e gli sono stato proposto io. Per me era tutto nuovo e non ero molto abituato ad avere attorno a me gente non afroamericana. A Saginaw c’erano alcuni latinoamericani, pochissimi caucasici, il resto era solo gente afroamericana. Arrivare in Colorado ha cambiato le cose per me.
Poi sei andato a giocare a Texas Tech, dove sei diventato noto soprattutto per quella famosa schiacciata, finita in copertina su Sports Illustrated. Ti chiedono ancora di quella dunk?
Ogni giorno. Ancora oggi ricevo riviste per posta: le autografo e rispedisco indietro. Mi piace tantissimo che quella schiacciata sia ancora così dopo 26 anni.
Poi cos’è successo?
Dopo aver finito la mia esperienza a Texas Tech nel maggio del 1996, ho firmato con i Jacksonville Barracudas che giocavano nella United States Basketball League, dove ho avuto l’onore di giocare con Roy Jones Jr (leggenda della boxe), che era co-proprietario della squadra. Quell’anno abbiamo giocato un torneo primaverile, uno di quei tornei a cui i ragazzi che potrebbero essere scelti al Draft partecipano per acclimatarsi al ritmo e all’intensità dell’NBA. Ho giocato 15 partite, poi sono stato scambiato ai Florida Sharks, dove sono stato allenato da Eric Musselman e ho conosciuto Phil Handy (ora assistant coach dei Lakers). Con loro abbiamo vinto il campionato, battendo gli Atlantic City Seagulls in casa loro.
Poi, i Denver Nuggets ti hanno offerto un contratto. Com’è stato il tuo arrivo in NBA?
C’era un tizio che mi aveva visto giocare e a cui piaceva il mio gioco, conosceva la mia storia e tutto ciò che ho dovuto affrontare in vita mia: Bernie Bickerstaff. Bernie è stato il mio head coach sia ai Nuggets che a Washington. Non andava per il sottile con me, specie quando non davo il 100% o non giocavo come si aspettava. Era una spina nel fianco. Tutt’oggi parlo con coach B, è un punto di riferimento per me. Siamo come una famiglia, ed è sempre pronto a darmi dei consigli.
Hai avuto 2.7 punti di media in 417 partite tra Denver, Indiana, Washington, Atlanta e Detroit. Dove trova le motivazioni un role player in NBA?
Cercavo sempre di fare in modo di avere un obiettivo. Molti giocatori ai margini delle rotazioni giocano solo nel cosiddetto garbage time, ma io penso una cosa: se giochi in NBA, non esiste garbage time. Sei in NBA, ogni secondo è e deve essere quello buono per dimostrare chi sei e quanto vali.
E quindi, qual è il segreto per rimanere tanto a lungo in NBA, pur avendo poche chances in campo?
Penso si tratti di attitudine e approccio al basket. Se si perde troppo tempo dietro alle statistiche, si finisce col perdersi e basta. Io pensavo a massimizzare i pochi minuti che avevo a disposizione. A volte andavo in campo a fine quarto, a volte a fine partita, ma dovevo comunque conoscere gli schemi e le giocate dei miei avversari, dovevo evitare di commettere troppi falli o errori banali. Il tutto mantenendo alta la concentrazione e l’agonismo.
Penso che avendo compreso ed assimilato tutto ciò, sommato al voler essere un buon compagno di spogliatoio, professionale nei confronti della squadra e dei tifosi sin dagli allenamenti in palestra. Cercavo di avere sempre il sorriso in volto, e così mi sono costruito la mia strada. Tutti gli allenatori che mi hanno avuto in squadra hanno apprezzato il mio modo di essere, da Bernie a George Karl, passando per Larry Brown, Terry Stotts, Lon Kruger e tutti gli altri. Ho sempre cercato di essere una persona positiva che sprigiona vibrazioni positive.
Questa è la tua filosofia anche da allenatore?
Certo, ovviamente. Mi infastidisco se capita di essere avanti di 30 punti e i ragazzi in campo se la prendono comoda, giocando senza grinta e senza onorare l’avversario, la partita e i tifosi; quando capita di pensare che non c’è fretta, tanto si sta già vincendo di 30 punti.
Quando altri allenatori vedono i miei giocare al massimo, anche se stanno vincendo con ampio margine, l’unica cosa che vorrei dire loro è “non è colpa nostra se stiamo vincendo di 30 punti. La tua squadra avrebbe dovuto marcare meglio i miei e sfruttare ogni occasione in attacco.” Ma in fin dei conti, chi sono io per dire chi dia o meno il 100% di se? Ognuno aspetta la sua chance, a modo proprio. Comprendo e accetto la sportività e il rispetto verso l’avversario. Ma io lo faccio a modo mio.
Quanto è stato importante per te il titolo coi Pistons, nel “tuo” Michigan?
Essere a casa, aver vinto lì essendo un ragazzo cresciuto nelle strade di Saginaw, per me è stata l’emozione più grande che abbia mai provato.