FOTO: Pounding The Rock

Dai tempi della sua introduzione, il riconoscimento individuale più ambito, il premio a cui ogni rookie sogna di arrivare un giorno, per il quale ogni superstar prepara uno spazio sulla mensola di casa, immaginandosi (anche se ora non più, visto che degli NBA Awards non si ha traccia dal pre-Covid) avvolti da outfit stravaganti per pronunciare il più strappalacrime dei discorsi è senza dubbio quello di Most Valuable Player, comunemente detto MVP. Il motivo dietro a questo dovrebbe essere quasi scontato, no? Si tratta del certificato di iscrizione alla lista dei più grandi della storia, un riconoscimento palpabile del proprio status come uno dei – anzi, no, come il miglior giocatore di pallacanestro al mondo… diciamo che non è proprio così.

Insomma, non è nel 2024 che dobbiamo parlare per la prima volta di chi sia il miglior giocatore al mondo, ma delle tante volte che lo si è fatto: quante volte erroneamente si è usato il criterio dell’MVP vinto (o in alcuni casi noti non vinto) per attribuire valore alla carriera o allo status di un giocatore? Non ci sono possibilità di verificare per mezzo di una percentuale o una statistica, ma sicuramente è possibile quantificare l’affidabilità di un simile argomento in una discussione. Detto questo, quanto vale ancora il premio di MVP?

Per partire a discuterne, c’è sicuramente bisogno di capire il significato di MVP. Il più schietto dei “copia e incolla” ci suggerisce che: Il termine inglese Most Valuable Player (acronimo “MVP”), indica, nel linguaggio giornalistico e nella letteratura sportiva anglosassone, il riconoscimento assegnato al giocatore che ha ottenuto i risultati migliori in un evento sportivo. Diventa un tema però capire come ciò si traduca nel mondo NBA, quali siano realmente i criteri che indicano i migliori giocatori in un evento, se ciò coincida con il più impattante, quello con le migliori cifre, il più importante della migliore squadra etc. etc.


Negli anni ne abbiamo viste di tutti i colori a riguardo, anche perché chi assegna questo premio (i fatidici 100 giornalisti al voto) non ci ha mai fatto capire come ciò avvenga, quale criterio o categoria sia tenuta maggiormente in considerazione fra quelle sopracitate, e questa “ipersoggettività“, checché se ne dica, si rispecchia nei risultati finali. L’MVP di Giannis Antetokounmpo nel 2019 non è certo lo stesso MVP di Russell Westbrook nel 2017, a sua volta diverso dall’MVP di Kevin Durant nel 2014, altrettanto differente da quello di Derrick Rose nel 2011(che al mercato mio padre comprò), e si potrebbe andare avanti tranquillamente per almeno altri dieci nomi solo in questo millennio. Ciò preclude l’accesso a un criterio assoluto che aiuterebbe nell’assegnazione del premio e in generale di azzerare le polemiche, aggiungendo quel fattore personale che favorisce le discussioni tossiche.

Per esempio, stando all’umile opinione di chi scrive (senza che essa voglia avere assolutamente alcun valore imperativo), l’MVP andrebbe riconosciuto in primis a chi abbia un maggior impatto generale – specie dal punto di vista analitico – nel corso della competizione, cercando di slegarlo dal contesto squadra, dal record, dalla partecipazione ai Playoffs o no, fattori che spesso vanno ad escludere alcune annate molto rilevanti di un singolo. Per fare un esempio, una delle più eclatanti degli ultimi anni è sicuramente la stagione avuta da Damian Lillard lo scorso anno, numericamente (On/Off, cifre, BPM, splits) la migliore della sua carriera, ma che non lo ha mai visto andare sopra il settimo posto nella classifica MVP per via di una disastrosa stagione dei Trail Blazers. Ma di esempi se ne potrebbero aggiungere altri, spiegando come impattino anche su quella nuvoletta che cammina sulle teste dei giocatori, chiamata legacy: il più eclatante è probabilmente quello di Chris Paul, per il quale il mancato trofeo incide sul pensiero che se ne ha oggi nei discorsi fra le migliori point guard di sempre, sottovalutando quello che è stato negli anni 2008-2013; ma anche e soprattutto Kawhi Leonard, Playoffs performer tra i migliori della storia, ma che non è mai riuscito ad arrivare il premio fra i mille asterischi della sua carriera. Questo discorso non è per cercare di far assegnare l’MVP 2023 a Damian Lillard, ma per introdurre uno dei tanti problemi alla base della premiazione: non essendoci criteri oggettivi o anche solo coerenti per valutare, qualunque discussione con un minimo di senso critico va a farsi benedire, lasciando tutto nelle mani di alcuni individui (e qui si potrebbe aprire un discorso su quanto influisca il rapporto fra media a squadre/giocatori).

Dopo questa piccola premessa, ricolleghiamoci con la attuale corsa: la regola delle 65 gare ci ha privati di un candidato che, per rendimento statistico, stava vivendo una delle migliori stagioni offensive di sempre e che sarebbe stato il chiaro MVP, ovvero Joel Embiid, lasciandoci in una potenziale corsa a quattro.

Chi statisticamente sta dominando la scena in regular season fra questi quattro è indubbiamente Luka Doncic, che nel mese di Febbraio 2024 ha dei numeri spaventosi come i 33.4 PPG ad alta efficienza (65.7% è tra le migliori True Shooting nel ruolo), accompagnati dai 10.6 APG. Il più “popolare”, essendo alla guida di una nuova squadra che sembra apparentemente pronta per contendere in breve, è sicuramente Shai Gilgeous-Alexander, miglior giocatore nella squadra con le migliori prestazioni di questa regular season (anche se non prima per record), anche lui con numeri da stagione offensiva da MVP – specie nello scoring, dove è il migliore relativamente all’efficienza al tiro e con il miglior percentile al ferro fra i contendenti con volume simile. Il più impattante fra tutti nella propria squadra è sicuramente Nikola Jokic, con numeri impressionanti nella produzione per i compagni e uno spaventoso on/off di +23.6 (di cui +18.5 solo offensivamente). Questo per dire che già solo tre dei quattro contendenti abbiano valide motivazioni per il premio a seconda del criterio di cui si vuole prediligere.

Al di là di qualunque criterio si usi, il punto è che, ultimamente, sono davvero pochi gli anni in cui si possa associare il vincitore dell’MVP a quello che è effettivamente il migliore giocatore al mondo, e il motivo è di fronte agli occhi di tutti: la discrepanza tra il gioco Playoffs e quello della Regular Season. Ciò fa sì che l’MVP premi semplicemente chi performa meglio a un livello di pallacanestro mediocre, a discapito di giocatori anche migliori che potrebbero contendere al premio tranquillamente, ma che non lo fanno per diversi motivi. Questo lo rende automaticamente un premio di immagine, svalutato, anche perché il vincitore è poi chiamato a ripetersi in un incredibilmente pesante banco di prova chiamato Playoffs. E negli anni (specie gli ultimi) ne abbiamo visti di MVP underperformanti in post-season: da Westbrook fuori al primo turno contro i Rockets a Joel Embiid fuori dopo una serie sottotono contro i Celtics al secondo turno, passando per il secondo turno di Antetokounmpo con gli Heat della bolla.

La soluzione a questo problema potrebbe essere abbastanza semplice: MVP dei Playoffs, che premia il miglior giocatore durante la competizione nel miglior momento possibile della stessa, nonostante il volume delle partite sia alquanto basso ma sufficiente a rispecchiare molto meglio quello che è il livello della lega attualmente. Dare quindi molta più importanza ai Playoffs performer e sfruttare al massimo il momento in cui il livello sarebbe estremamente competitivo, soluzione che andrebbe ad eliminare anche alcuni bias dovuti a calendari favorevoli, statpadding contro squadre molto peggiori, dislivello di competitività fra le due Conference.

Facciamo un esempio, prendendo come annate di riferimento il 2017 e il 2018. Partendo dal primo: nel 2017 Russell Westbrook finisce una storica regular season in tripla-doppia di media (31.4/10.4/10.7), cosa che non si vedeva dai tempi di Oscar Robertson nel 1962, oltre a un impatto enorme sulla Regular Season di una OKC per il primo anno orfana di KD, con il migliore BPM della lega con 11.7, un WS/48m di 0,224 e un On/Off di +13.4 (97esimo percentile); arrivati i Playoffs, in quella fatidica serie di cinque partite contro i Rockets, i dati crollarono in termini di efficienza (da 47.7 eFG% – già di per sé sotto la media, al 31esimo percentile – a 43.1%, terrificante sesto percentile di Cleaning the Glass), il WS/48 dimezzato e molte prestazioni da empty points (come i 51 punti di gara due, dove sono serviti 43 tiri) che hanno messo in luce alcuni dei suoi difetti principali, come la mancanza del tiro (13/45 da tre nella serie) e le eccessive palle perse (6 a partita), arrivando a una serie tutto sommato salvabile ma non da MVP in carica – quando poi, dall’altro lato del tabellone, Kevin Durant arrivava al suo primo titolo in carriera con una run Playoffs importante impreziosita da una serie finale tra le migliori del millennio (35.2 PPG da 70% di True Shooting), con un livello delle due squadre altissimo. In quel momento, sapevamo tutti quanto il premio di miglior giocatore nella stagione fosse da attribuire a Kevin Durant, arrivato solo nono nella classifica finale per via di una regular season “sottotono” e con poche partite giocate.

E ancora, senza nulla togliere a uno dei migliori attaccanti che la storia del gioco abbia mai visto, James Harden nel 2018 mise dei numeri senza senso in un attacco che riusciva a guidare alla perfezione, ma anche lì, alla fine dell’anno, venne eclissato dal fatto che ad Est si verificò una delle run Playoffs più dominanti di sempre: le famose serie di LeBron James contro Indiana e Boston, con uno sweep a Toronto di mezzo, la gara leggendaria dei 51 alla Oracle Arena nelle Finals, uno spaventoso WS/48 di 0.269, BPM migliore dei Playoffs con 12.7, il tutto con una efficienza abbastanza alta per il carico offensivo e il load difensivo riservato dalle varie squadre (61% di True Shooting su 25.6 tiri a partita).

Facendo un giochino su quanto varierebbe la lista degli MVP con questa differenza di assegnazione, chi sarebbero gli MVP dal 2014 al 2023? P.S. ovviamente, ancora una volta, non siamo noi ad avere la verità in tasca, è solo un metodo “ludico” e dimostrativo per far percepire la variazione rispetto ai fatti – se per voi nel 2015 l’MVP Playoffs debba comunque essere Curry, nessuno in redazione si strapperà le vesti.

MVPMVP Playoffs
2023Joel EmbiidNikola Jokic
2022Nikola JokicStephen Curry
2021Nikola JokicGiannis Antetokoumpo
2020Giannis AntetokoumpoLeBron James
2019Giannis AntetokoumpoKawhi Leonard
2018James HardenLeBron James
2017Russell WestbrookKevin Durant
2016Stephen CurryLeBron James
2015Stephen CurryLeBron James
2014Kevin DurantKawhi Leonard

Parliamo di un futuro distopico in cui probabilmente non esisterebbe il Finals MVP, abbastanza inutile, essendoci un premio che contestualizza tutta la run Playoffs e non solo quella della serie di finale, eliminando ben due premi di pura “immagine”. Probabilmente una variazione nel metodo non avverrà mai e il premio continuerà a svalutarsi con l’ulteriore diminuzione di agonismo in regular season, ma lasciateci fantasticare.