Una vita a Caserta, il rifiuto all’NBA e i record olimpici con la maglia del Brasile. Questa è la storia di Oscar Schmidt, detentore del record mondiale di punti segnati in carriera, capace a suo modo di segnare per sempre la storia del Gioco grazie alla sua ” Mão Santa“.

Ci sono luoghi in cui il divino ha stretto un patto con lo sport: lo ha unito all’uomo in maniera diversa, quasi trascendentale, inviolabile. Sono i luoghi in cui sognare è proibito e l’unico modo per sfuggire dalla realtà è cominciare a rincorrere un pallone. I luoghi in cui gli eroi non sono né politici, né personaggi storici, ma sportivi, che segnano politica e Storia.

Ecco, il Brasile è uno di questi. Terra ricca, fertile, infinita, dove il mito s’incontra direttamente con l’atleta. Dove i bambini nascono senza niente, se non una sfera. Dove speranza vuole dire calcio, basket e poco altro. Dove arte è movimento.

È la terra di Ayrton Senna, considerato talmente integro e cristallino che non può non avere a che fare con la rifrazione delle stelle, come diceva Lucio Dalla, che gli ha dedicato una canzone. Oppure di Pelé, “O’ Rey”, orgoglio dell’intero Paese. Il migliore calciatore di tutti i tempi: fin troppo elegante, leggero, intelligente per essere umano.


Insomma, gli atleti brasiliani sono diversi. Forse per natura, forse per fortuna, o forse perché effettivamente esiste qualcosa di mistico tra gli abitanti carioca e lo sport.

Così, tra Ayrton e O’ Rey c’è un’altra leggenda. Si chiama Oscar Schmidt: è perfetto, limpido, divino e non per caso viene chiamato “a Mão Santa”, la Mano Santa.

Probabilmente quell’imperscrutabile magia che lega gli atleti brasiliani con il loro popolo è l’eternità, l’incredibile capacità di fermare il tempo e rimanere “per sempre”.

E lo fanno con frasi, vittorie, scelte, ma anche numeri.

Oscar ha optato per quest’ultimi, segnando 49.737 punti – 11 mila in più del record NBA di Kareem Abdul Jabbar -, diventando il più grande realizzatore della storia della pallacanestro al mondo.

Non sempre, da noi, il suo nome rievoca nitidi ricordi. Eppure, se a Napoli c’era la Mano di Dio, Diego Armando Maradona, a soli 27 kilometri di distanza, a Caserta, c’era a Mão Santa. Entrambi figli di un quadro superiore, donati all’umanità per illuminare un rettangolo di gioco, chi con la palla incollata ai piedi, chi scrivendo poesia con un semplice movimento di polso.  

E pensare che per raggiungere la piccola Caserta, e sedersi dopo poco tempo direttamente sul trono della reggia, gli è bastato versare delle lacrime. Lacrime di dolore, che in quaranta minuti si sono trasformate in gioia.

Oscar piange. È giovane, della vita conosce ancora poco. Piange perché ha paura di perdere, di fallire. Non vuole deludere la sua famiglia, gli amici, i tifosi. È il 6 ottobre 1979. Sono a San Paolo, in Brasile. L’altro San Paolo, il tempio di Diego Armando, non ha nemmeno idea di dove si trovi. Pensa solo a casa sua. Quella sera si gioca Sirio-Bosna Sarajevo per decidere l’Intercontinental Cup, in cui le migliori squadre d’Europa sfidano le migliori delle Americhe, NBA esclusa.  

Segna e piange. Alza lo sguardo al tabellone. Vede che i bosniaci, allora jugoslavi, sono avanti.

Di nuovo: segna e piange. Ma pian piano il suo Sirio si avvicina, arriva ai supplementari e le sue lacrime che prima battevano su un volto distrutto, lievitano sul dolce sorriso di un semplice ventunenne che lancia i pugni in alto in segno di vittoria, dopo aver segnato 42 punti.

Oscar Schmidt Sirio San Paolo Around the game
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Dall’altra parte, seduto sulla panchina della squadra di Sarajevo c’è il giovane Bogdan Tanjevic, che pochi anni dopo, nel 1982, sposa il nuovo progetto dell’imprenditore bresciano Giovanni Maggiò, ricordandosi di quelle lacrime.

Il cavalier Maggiò è stato uno di quegli uomini che hanno riscritto il destino dello sport nel nostro Paese. Uno di quegli uomini sinceri, onesti, puri che ha creato da solo il basket a Caserta, investendo denaro e passione. E mentre l’Italia intera gioiva alle reti di Paolo Rossi al Mundial dell’’82, in soli 100 giorni è riuscito a costruire un palazzetto d’avanguardia, centro di controllo della Juvecaserta, con più di 7000 posti, con uffici e un campo regolamentare d’allenamento al proprio interno. Una struttura che – purtroppo – tutt’oggi pare impossibile da mantenere per la città di Caserta e non solo, ma il cavaliere, negli anni ’80, l’aveva tirata su in soli tre mesi.

Così, coach Tanjevic dopo aver scelto di prendere in mano la squadra bianconera in A2, convinto dalle ambiziose idee di Maggiò, ha una sola richiesta al patron: «Mi porti qui Oscar, il brasiliano che piange e segna».

Tre anni dopo quella sera brasiliana in cui il Sirio si è laureato campione continentale, Bogdan e Oscar si rincontrano per scrivere insieme la grande favola della Juvecaserta, cambiare per sempre la storia della pallacanestro italiana e cominciare quella di “O’ Rey do triple”.

Oscar è un’ala lunga e pesante. Gratta il cielo dall’alto dei suoi 205 centimetri e si muove lentamente. Eppure, non gli si riesce a togliere gli occhi di dosso. Non è né brutto, né meccanico. È semplicemente armonico, grazie alla sua mano santa. Romantico nel movimento, poetico nel lanciare la sfera tendendo all’infinito, che puntualmente buca la retina, come fosse il soffio di qualche vento divino. Non è un grande palleggiatore, per nulla esplosivo e pessimo passatore. Si limita a prendere palla, tirare e segnare. Senza mai fermarsi. Senza che ci sia nessuno capace di stopparlo.

Canestro dopo canestro. Partita dopo partita. Con prestazioni da 40 o 50 punti una dietro l’altra, si guadagna l’amore di una città, prendendosi il soprannome di “Re delle triple” (dal 1984, quando è stato introdotto il tiro da tre in Italia). Ma soprattutto trascina la sua Juve in Serie A per la prima volta, dove fin da subito può sognare lo Scudetto, aiutato da ragazzi destinati a essere campioni.

La Juvecaserta di quegli anni non è una semplice squadra. È qualcosa di più. Per i ragazzi della città è un barlume di speranza in una terra perennemente nascosta dalle tenebre della malavita. È cristallina, limpida, pulita, come poco altro. E non per caso quello che verrà ribattezzato Palamaggiò diventa centro di culto per migliaia di abitanti campani, un luogo in cui c’è spazio solo per sorrisi, amore e pallacanestro.

Quella Juve è un miracolo nato sul fumo di due sigari, imboccati dal cavaliere Maggiò e il Boscia Tanjevic, che riescono ad affiancare al fenomeno brasiliano due giovanissimi italiani, autentici fuoriclasse.

Appena quindicenne viene chiamato in prima squadra Nando Gentile, un uomo dallo sguardo da guerriero e l’animo da poeta. Elegante, ma indemoniato, segnato dallo spirito campano della “cazzimma”. E pian piano si fa strada anche Vincenzino Esposito, primo italiano in NBA, talentuoso e folle, per tutti “o scugnizzo”.

Quella dei bianconeri è una storia triste, scritta più da sconfitte che vittorie, più da delusioni che gioie. Eppure, il ricordo è quello di una magia, scandita da un imprenditore illuminato, un allenatore jugoslavo visionario, la campanità di due giovani pronti a segnare il basket italiano e dalla mano destra, santa, di un ragazzo nato oltreoceano sotto il canale di Panama.

E inizialmente è proprio Oscar il mito di Caserta, che, insieme a Maradona, urla all’Italia intera che il sud vale quanto il nord, in un’epoca complicata per il Meridione. Che nessuno va lasciato indietro. Che una cittadina campana può lottare con Milano. Che la palla a spicchi, adesso, può scendere anche al di sotto di Roma.

Così la Juvecaserta comincia il proprio cammino, spaventando fin da subito la scena cestistica italiana. Dopo due anni in A, a un passo dalla finale Scudetto, coach Tanjevic prende un treno direzione Trieste e viene sostituito dall’allievo Franco Marcelletti. Si apre un nuovo capitolo, ma poco cambia. Oscar continua a superare i 40 punti per partita, Nando e Vincenzo crescono ancora. Nelle stagioni 1986 e 1987, i bianconeri raggiungono l’ultimo atto del campionato, perdendo entrambe le volte contro l’Olimpia Milano.

Il pianeta si è accorto di Oscar Schmidt. Si è capito che non esiste nessuno che riesce a trafiggere la retina con la stessa semplicità e tranquillità della Mão Santa.

Ma la verità è che era già finito sotto i riflettori mondiali nel 1984, dopo la sua seconda stagione in Italia.

Siamo al 19 giugno ’84. L’NBA è un mondo completamente diverso da quello di oggi. Lo spazio per gli stranieri non esiste, eppure quell’anno i New Jersey Nets chiamano il brasiliano: vogliono che giochi per loro.

10 giri, 228 giocatori, prima volta per la lottery. È un Draft NBA speciale, è quello del 1984, di Michael Jordan, Hakeem Olajuwon, Charles Barkley e John Stockton, per intenderci. E tra questi citeremmo anche Oscar Schmidt, se solo non avesse rifiutato il contratto oltreoceano, dopo essere stato scelto alla numero 144, al sesto round.

Già, l’occasione per entrare dalla porta principale per il Monte Olimpo della pallacanestro l’ha avuta. Al Hernandez, al tempo GM dei Nets, aveva visto potenziale nel ragazzo che illuminava Caserta.

Eppure, Oscar ha detto no.

«Meno male che non sono andato in New Jersey. Non sono volato negli Stati Uniti per Caserta e per il cavalier Maggiò. Ma anche per il mio Brasile, per cui non avrei potuto giocare se fossi andato in NBA. È stata la scelta più bella della mia vita

C’è anche da dire che il contratto offerto dai Nets era piuttosto basso, minore rispetto a quello che guadagnava in Campania. Insomma, un po’ per amor proprio, un po’ per la sua nuova città del cuore, ma soprattutto per il suo Paese, sceglie di rimanere in Europa, di restare a Caserta.

Quindi continua la volata della Juve verso il tetto del Bel Paese, tanto che nel 1988 arriva il primo trofeo: la Coppa Italia.

Oscar Schmidt juvecaserta coppa italia around the game
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Oscar segna e piange, ancora una volta.

Non è più un ragazzino, non è più quello di San Paolo. Ma sta piangendo, di nuovo. Lo fa davanti alla sua seconda grande vittoria con un club. Non riesce a contenere le lacrime. Stavolta non bagnano il volto per paura di fallire o per una gioia smisurata, ma perché quella sera ha segnato 41 punti dedicando ogni singolo canestro al cavalier Giovanni Maggiò, che pochi mesi prima, il 9 ottobre 1987, è stato portato via da una brutta leucemia.

Così, in una serata perfetta a Bologna, contro Varese, i bianconeri vincono il primo titolo della storia, sospinti dal patrono da lassù, dopo stagioni commoventi concluse con sconfitte all’ultimo respiro.

Ma facciamo un piccolo passo indietro.

Pochi mesi prima della morte di Giovanni Maggiò, quasi un anno prima della coppa juventina, come per disegno divino – lo stesso che gli ha donato quella mano destra – Oscar ha trasformato per sempre il basket mondiale, dando in questo modo il suo addio al cavaliere.

D’altronde quella di Oscar Schmidt non è una carriera di un vincente, di un uomo che dovunque sia andato abbia sollevato trofei. Un po’ perché non ha mai giocato in squadre stellari, un po’ perché gli è sempre piaciuto essere l’unico terminale offensivo, non ha mai vinto tanto.

Eppure, ogni volta che alza una coppa al cielo è come se cambiasse l’organizzazione degli astri, muovendo il destino.

Il 24 agosto 1987, durante la finale dei giochi Pan-americani a Indianapolis, Oscar segna 46 punti in faccia al Team USA, orfano dei giocatori NBA (che non potevano andare a giocare per la propria nazione), battendo la selezione guidata dai collegiali David Robinson e Danny Manning.

Nuovo trofeo. Nuove lacrime. E il Los Angeles Times dopo quella partita si chiede se forse l’America non dovrebbe schierare Magic Johnson e Larry Bird.

Così, grazie a Oscar gli americani si sono accorti di non essere gli unici, di non essere imbattibili, di non essere sempre i migliori. Detto fatto: nel 1989 cambiano le regole, nel ’92 nasce il Dream Team e ancora oggi possiamo vedere le più grandi stelle della pallacanestro alle Olimpiadi. Per merito di un tiratore che faceva sognare la piccola Caserta.

È facile. Per Oscar fare canestro è incredibilmente facile. Gli viene automatico. Alza il braccio verso le nuvole e sa già che la sfera bucherà la retina. È estremamente facile. Lo è perché ha talento, certo. Ma soprattutto perché non smette mai di allenarsi.

E questo lo sa perfettamente un ragazzino, figlio di un giocatore di Pistoia, che vede sempre Oscar battere suo padre e in futuro lo imiterà.

Questo ragazzino si chiama Kobe, il padre Joe Bryant, e da piccolo si ispira all’ala della Juve, sperando, un giorno, di segnare proprio come lui.

Punto dopo punto, però, dopo otto lunghi anni, qualcosa tra Oscar e Caserta cambia.

Il primo momento di gelo, che assomiglia a un bacio d’addio, è nel 1989, in Grecia, ad Atene. Nel tempio dell’Olympiakos, si gioca la finale di Coppa delle Coppe.

È una battaglia campale, uno scontro epico tra Achille ed Ettore, tra il Real Madrid e la Juvecaserta.

Ma soprattutto, è Drazen Petrovic contro Oscar Schmidt. Il Mozart della pallacanestro contro la Mão Santa.

Due tra migliori giocatori non americani della storia uno contro l’altro. Avrebbero potuto giocare insieme, se solo qualche anno prima Oscar non avesse preferito la reggia di Caserta al Palazzo d’Oriente di Madrid, rifiutando i blancos.

I due sono veri e propri artisti della palla a spicchi. Fuoriclasse assoluti. Ed entrambe le squadre sono incredibili.

La Juve riesce a reggere benissimo i giganti del Real. Si gioca a ritmi altissimi e cifre impossibili. Drazen ne segna 62, Oscar 44. La partita va ai supplementari. Ferdinando Gentile è eroico in mezzo al campo, lottando su ogni palla vagante e realizzando 34 punti. Eppure, non è abbastanza. Il Real Madrid è troppo forte, vince 117 a 113 e Oscar comincia, pian piano, ad allontanarsi da Caserta.

Il brasiliano, in realtà, rimarrebbe sempre in Campania. Ma la dirigenza, dopo una stagione incolore come quella del ’90, comincia a chiedersi se forse non è la Mano Santa il problema, troppo ingombrante ed eccentrica, che rischia di limitare l’intera squadra.

Gli comunicano che deve trovarsi una nuova città.

L’uomo che ha portato in alto la Juve a suon di triple si sente distrutto, divorato da quelle parole. Lui che ha rinunciato a tutto pur di stare a Caserta, si sente tradito. E soprattutto non pensa di aver già finito la sua storia, la sua carriera. Segna ancora più di tutti, e vuole farlo ancora per molto.

Hanno ragione entrambi. La Juve, l’anno dopo la sua cessione, nel 1991, vince uno storico Scudetto, mentre Oscar…è sempre Oscar.

Così, dai 31 ai 34 anni, rimane in Italia e va al nord, a Pavia, per quattro stagioni. La riporta in Serie A dalla A2 e mostra, ancora una volta, di essere il più grande realizzatore di sempre segnando, dal 1989 al 1992, in ordine 33.1, 43.7, 38.6, 39.3 punti di media. Cifre che non possono stare né in cielo né in terra, ma solo in quel Mondo ultraterreno che ruota intorno a Oscar Schmidt e alla sua mano destra.

Il tempo passa, ma lui, l’abbiamo detto, pare eterno. Ferma le lancette, non facendole scorrere, continuando a illuminare i parquet all’infinito, anche quando l’età non dovrebbe permetterglielo.

E lo fa ovunque, in Italia, in Spagna, a Valladolid, dove finisce dopo l’esperienza a Pavia, e in Brasile, a casa sua, a più di 35 anni dove termina la carriera giocando fino ai 45, senza smettere mai di segnare.

49.737. Quarantanovemilasettecentotrentasettemila. Una cifra impensabile, impossibile. Un numero che qui, da noi in Italia, in Europa, non viene ricordato a dovere. Un uomo, un giocatore, che ha battuto ogni record.

Ha tenuto durante l’intera carriera una media punti per partita superiore ai 30. Ha guidato la classifica marcatori in Serie A quasi ogni stagione in cui ci ha militato, ha comandato quella brasiliana per otto volte consecutive, a oltre 35 anni di età. Ha duellato con Petrovic allo stesso livello.

Ha rifiutato l’NBA, per la sua bandiera, per la sua nuova casa. Ha giocato cinque Olimpiadi differenti, più di ogni altro giocatore di pallacanestro. Nelle competizioni a cinque cerchi ha segnato più di chiunque altro, 1.093 punti. Nell’’88, a Seul, ha mantenuto una media di 42.3, siglando anche la più grande prestazione di sempre ai Giochi Olimpici, con 55 punti contro la Spagna.

Oscar è stato questo. È stato il più grande realizzatore della storia del basket. Un tiratore da tre formidabile, prima che diventasse una moda. Un cestista che, a suo modo, ha cambiato per sempre la pallacanestro.

Oscar Schmidt Olimpiadi Around the Game
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«La realtà non mi piace più. La realtà è scadente».

Non è Oscar a parlare, bensì Fabietto Schisa, il protagonista di È stata la Mano di Dio, l’ultimo film di Paolo Sorrentino. Ma possiamo giurarci siano le stesse parole che la leggenda brasiliana si è ripetuto più e più volte tra sé e sé.

O per lo meno lo ha fatto fino al 2013. Quando si è visto crollare il Mondo addosso, dimenticato dalla palla a spicchi, mai ricordato e ringraziato per quello che è stato. E lo ha pensato sicuramente quando ha visto che la realtà lo stava portando via per sempre dalle persone che ama, dai suoi figli, il 30 aprile 2013.

Ha 55 anni e sua moglie Cristina, la donna di una vita, incontrata ovviamente durante un allenamento romantico sotto un canestro – come probabilmente Oscar aveva sempre sognato – piange.

Versa lacrime perché suo marito, Oscar Schmidt, sta per essere operato all’ospedale Albert Einstein di San Paolo, in Brasile. Di nuovo, come due anni prima, il cancro si è ripresentato davanti a lui. Nel 2011, al cervello, era andata bene. Dopo diverse ore in clinica, un nodulo asportato sulla parte frontale sinistra si era rivelato di natura benigna.

Ma nell’aprile 2013 sembra diverso. Di nuovo, alla testa: stavolta maligno. Ma nonostante gli orizzonti ricolmi di tenebre, la storia ha un lietofine. Oscar si salva.

Così si rialza, torna a respirare l’aria di libertà, fuori da un ospedale. Tempo qualche settimana, forse mese, viene chiamato al telefono da un numero sconosciuto che inizia con +1, il prefisso degli Stati Uniti.

«Parlo con Oscar Schmidt

«Si, chi parla

«La chiamo per conto dell’Hall of Fame. Vogliamo inserire anche il suo nome».

«Mi perdoni, faccio già parte dell’Hall of Fame dal 2010»

«No, non siamo la FIBA. La chiamiamo da Springfield, dal Naismith Memorial Basketball Hall of Fame. Vogliamo darle il massimo riconoscimento per un giocatore di pallacanestro».

Oscar non ci crede.

Nel settembre del 2013, pochi mesi dopo l’ultimo intervento, si trova davanti alla platea più importante del basket, uno dei pochi a farlo senza nemmeno una presenza in NBA.

Perché lui è Oscar Schmidt e nessuno è riuscito a fare più canestri. Perché lui è A Mão Santa ed è riuscito a sfuggire dalla realtà, proprio come sperano di fare milioni di ragazzini brasiliani: grazie a una palla a spicchi e alla sua mano destra.