La guardia dei Cavaliers riflette sui suoi cinque anni con i Jazz, il suo rapporto con Rudy Gobert, i legami con Cleveland, la comunità di Salt Lake City e tanto altro. 

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Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape, tradotto in italiano da Stefano Tedeschi per Around the Game.


Nella storia degli Utah Jazz solamente Adrian Dantley, Karl Malone e Pistol Pete Maravich hanno avuto una media punti più alta di Donovan Mitchell. 


Mitchell è l’ottavo giocatore nella storia della franchigia per punti segnati, nonostante abbia giocato con i Jazz solamente 5 stagioni. Non di meno, “Spida” ha avuto un indimenticabile impatto positivo sulla comunità dello Utah con le sue iniziative di volontariato. 

Le maglie ritirate nella storia dei Jazz sono 12 ma, nonostante l’impatto avuto dentro e fuori da campo, Donovan Mitchell non ritiene che il suo numero 45 meriti di essere tra quelli ritirati e appesi al soffitto nella Vivint Arena di Salt Lake City. 

“Non credo di aver fatto abbastanza. Magari qualcuno potrebbe pensare che io lo meriti e certamente ne sarei per sempre grato ed onorato se dovesse accadere. Ma ho standard elevati per me stesso e non credo di aver fatto abbastanza in quei cinque anni per vedere la mia maglia là in cima al fianco di quelle di Karl, John [Stockton], Pistol Pete e Darrell Griffith. Ho ancora un bel pezzo di strada da fare per migliorare”. 

Mitchell è stato una stella dei Jazz fin dal suo arrivo come 13esima scelta al Draft del 2017, in uscita da University of Louisville, fino alla stagione appena conclusa. Il tre volte NBA All-Star ha accumulato medie di 23.9 punti, 2.8 canestri da tre, 4.5 assiste e 1.3 palle rubate a gara. 

Le sfide più grandi che abbia dovuto affrontare nel suo periodo ai Jazz sono state la convivenza con Gobert, spesso sotto i riflettori, e l’incapacità di tradurre i successi in regular season in altrettanti successi ai Playoffs. Inoltre, da afro-americano, Mitchell ha raccontato ad Andscape come iniziasse a stancarsi di alcune problematiche di discriminazione razziale che doveva affrontare nello Utah, ivi incluse reazioni poco piacevoli in occasione di alcune sue dichiarazioni sulla parità razziale.  

La storia con i Jazz è cambiata radicalmente dopo la sconfitta contro Dallas nei Playoffs 2022, quando coach Quin Snyder si è dimesso improvvisamente e poco dopo Gobert è stato scambiato verso i Minnesota Timberwolves. In seguito è arrivato il turno di Mitchell, scambiato in direzione Cleveland Cavaliers per Lauri Markkanen, il rookie Ochai Agbaji, la guardia Collin Sexton, tre prime scelte non protette e due pick swaps. Lunedì scorso, Mitchell ha riaffrontato i Jazz per la prima volta dalla trade, mentre tornerà a giocare a Salt Lake City il 10 gennaio. 

Eccoci al botta e risposta con Donovan Mitchell, in cui ripercorre i momenti più felici ma anche i più difficili della sua esperienza con i Jazz, il perché del fallito rapporto cestistico con Rudy Gobert e la vita complessa da afro-americano nello stato dello Utah, ma anche il nuovo adattamento a Cleveland e il sogno di portare in questa città il secondo anello. 


  • “Quando hai capito che la fine della tua esperienza con gli Utah Jazz era prossima?”

“Sostanzialmente quando abbiamo perso contro Dallas. Si capiva che la storia stesse finendo, non pensavo così rapidamente. Ma certamente sapevo che qualcosa durante l’estate sarebbe cambiata, anche se non immaginavo in questi termini. Quando Quin [Snyder] se ne andò dissi “Oh, ok”. Poi ci fu Rudy [Gobert], ed allora capii che era tempo di andarsene.

  • “Ci racconti com’era veramente il rapporto con Gobert e come è ora?”

In tutta onestà, sul campo non funzionava. Non ci trovavamo come avremmo dovuto. E’ vero, entrambi volevamo vincere, ma lo volevamo in modi diversi. Non ha funzionato, ma questo non vuol dire che ci odiassimo. Certo non eravamo migliori amici, ma non eravamo in cattivi rapporti come si diceva. 

Quando lo vedo, non faccio altro che abbracciarlo e sono felice di vederlo. Gli auguro il meglio, non ci sono rancori tra di noi. I problemi riguardavano solo il nostro gioco, cose che possono capitare. 

La nostra relazione è stata decisamente sotto i riflettori, più di altre. Ma tutto iniziò con il periodo del Covid, dove ogni cosa veniva vista al microscopio e sembrava che venissimo giudicati in base a quante volte ci passavamo la palla.

Purtroppo non ha funzionato come doveva, abbiamo avuto la possibilità di farlo ma non ci siamo riusciti. Ora siamo in contesti diversi ma voglio augurargli il meglio e so che lui fa altrettanto con me.”

  • “Come giudichi la tua esperienza con i Jazz?”

“Abbiamo fatto un sacco di cose positive. Abbiamo stabilito dei record e abbiamo avuto anche il miglior record della lega [stagione 2020-21 n.d.r.]. Sarebbe facile dire che, non avendo vinto il titolo, non abbiamo fatto niente di buono, ma non è così. Ho imparato tante cose che tutt’ora mi stanno tornando utili. Ho incontrato un sacco di persone speciali, allenatori e giocatoti. 

Ma a parte questo, alla fine della storia, non abbiamo compiuto quello che avremmo dovuto, sebbene io sia riconoscente del tempo trascorso lì e verso tutte le persone che hanno contribuito a rendermi migliore.”

  • “Cosa ti manca di più di Utah, fuori dal campo?”

Senz’altro il premio che veniva attribuito ad ogni vittoria degli Utah Jazz tra il 2020 e il 2022, in cui veniva garantita una borsa di studio per un ragazzo al college. 

Il fatto di poter garantire una borsa e la stanza a chi non se lo sarebbe potuto permettere è una delle cose migliori che ricordi, perché trascende il basket. Non si tratta solo di giocare per vincere, ma di giocare per qualcosa di più grande e che non riguarda solo te stesso. Mi sembrava che giocassimo per quello e che eravamo in grado di avere un impatto sulla vita delle persone. 

Poter mandare un ragazzo al college che a sua volta avrebbe imparato, creato e costruito qualcosa per la propria famiglia era fantastico. Ci saranno due, tre, quattro, cinque generazioni di persone che andranno al college proprio perché quel ragazzo è riuscito ad andarci. Questo ha un significato profondo per me, e giocare per questo è la cosa più importante che abbia mai fatto.

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Nello Utah, stava diventando un po’ troppo da sopportare, sera dopo sera. Una volta sono stato costretto ad accostare forzatamente. Un poliziotto ha cercato di intimidirmi finché non ho mostrato il mio documento. E da lì ho pensato a cosa succedesse ai ragazzi di colore nello Utah che non hanno il potere come avevo io derivante dal mio status. Questa è stata una delle cose che mi ha profondamente ferito.

– Donovan Mitchell
  • “Come va l’adattamento a Cleveland?”

“Sta procedendo bene. Come squadra, vogliamo vincere, ci sono ragazzi affamati di successo. Ragazzi che come me hanno voglia di migliorare, e avere delle persone che credono in me come leader rende il mio compito più facile. Qui sembra che tutto fili liscio. Certo, c’è sempre un periodo di adattamento ma sta andando bene. Mi lasciano essere quello che sono, anzi, mi chiedono di essere come sono; non mi chiedono niente di diverso. 

Ognuno si porta i propri problemi e ha qualcosa da dimostrare. Cleveland ha perso nei Play-In, Utah ha perso malamente nel primo turno dei Playoffs. 

Abbiamo tanto da dimostrare in questa stagione e questo mi entusiasma.”

  • “In riferimento a Salt Lake City, come è stato per te lasciare una città popolata prevalentemente da bianchi rispetto ad una con maggioranza di persone di colore? Forse ti sembra un po’ di essere tornato a New York?”

“Sono a mio agio, al 100%. Non mentirò su questo. Non è un segreto che abbia avuto diversi problemi nello Utah fuori dal campo. Non l’ho mai detto apertamente ma è stato estenuante. E’ stato snervante non poter condividere certe cose. Non mi riferisco specificatamente ai fan, ma parlo in generale. Un senatore dello Utah [Stuart Adams] disse che io avrei dovuto imparare quale fosse la storia afro-americana. Ma intanto i ragazzi di colore vengono bullizzati per la loro pelle e una ragazza [Isabella Tichenor] si è impiccata proprio per questo. 

Era un episodio dopo l’altro, certamente non accadono solo lì. Ma sarò sempre un rappresentante dell’eguaglianza razziale e ricevere così tante opposizioni per questo stava diventando troppo.”

  • “Cosa fece più male?”

“Tutto cominciò quando postai una foto per il Juneteenth [giornata nazionale dell’indipendenza che commemora la liberazione degli schiavi afroamericani n.d.t.] che diceva “Free-ish”, ovvero apparentemente liberi, prima della bolla. Da lì parecchie persone non fecero altro che commentare dicendo frasi come “non sai di cosa parli, ci sono ingiustizie ovunque, non solo verso la razza nera”. Ed io rispondevo che erano loro a non avere idea. Mi sono preso tutte queste critiche, pensando di farcela, ma a un certo punto è diventato troppo. 

E siccome non vedevo molti di noi di colore nel pubblico, facevo in modo di invitare sempre alle partite ragazzi neri, per far sì che la nostra comunità fosse presente. Ma era dura. Qui a Cleveland, se guardi a bordocampo, beh, è un sollievo essere tra persone come me. 

Ma tornando allo Utah, stava diventando un po’ troppo da sopportare, sera dopo sera. Una volta sono stato costretto ad accostare forzatamente. Un poliziotto ha cercato di intimidirmi finché non ho mostrato il mio documento. E da lì ho pensato a cosa succedesse ai ragazzi di colore nello Utah che non hanno il potere come avevo io derivante dal mio status. Questa è stata una delle cose che mi ha profondamente ferito.”

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  • “Cosa ti vorresti portare del ruolo che hai avuto per la comunità dello Utah, qui a Cleveland?”

“La cosa che mi rende più fiero è di esserne veramente stato parte, della comunità. Andavo alle partite di High School e lo facevo perché, quando ero studente, avrei dato qualsiasi cosa per poter giocare davanti ad un atleta NBA. Sapevo cosa rappresentavo per la comunità e per i ragazzi. Non ci immaginiamo cosa passino ogni giorno certi ragazzi e quanto voglia dire un momento come quello, anche solo per un giorno. 

Quando ero a mia volta un ragazzino, poter star vicino a persone che avevo messo su un piedistallo voleva dire molto, e quindi è il mio turno, come parte della comunità, di scendere da quel piedistallo e andare alle partite, a un barbecue o fermarsi con loro in un mall.

Non cambierò, sono fatto così. Sarò sempre grato per quello che posso fare e per le reazioni che evoco. E’ fantastico essere il motivo di una buona giornata per qualcuno e voglio continuare a farlo anche dopo essermi ritirato.”

  • “Quanto sono speciali questi Cavaliers?”

“Lo sono molto. Come ho detto nella prima conferenza stampa “sulla carta facciamo paura”. Ma, in fondo, non abbiamo ancora combinato niente. Personalmente non ho mai fatto molta strada nei Playoffs. Così come Mobley, Darius Garland, Jarrett Allen e Caris LeVert. Come squadra, a parte Kevin Love, non abbiamo vinto titoli. Abbiamo ancora tanto da dimostrare, ma se lavoriamo insieme possiamo essere un gruppo veramente spaventoso. Non sarà facile e dobbiamo migliorare giorno dopo giorno.” 

  • “Cosa pensi quando vedi il banner del titolo NBA 2016 nell’arena dei Cavaliers? Pensi mai all’aura che ha lasciato LeBron James?”

“Fare le finali per quattro volte consecutive è un segno di grandezza. Kevin è stato parte di quella grandezza ed è rimasto solo lui. Noi non siamo LeBron James, ma come gruppo possiamo farcela. E vogliamo portare un altro titolo in questa città

I nostri fan sono appassionati, noi abbiamo talento e l’abilità per vincere. Ma abbiamo tanta strada da fare. Non dobbiamo giocare pensando di fare i Playoffs o di raggiungere il secondo turno, ma il nostro obiettivo deve essere di vincere il titolo e giocare al meglio delle nostre possibilità. La città lo ha già vissuto una volta e forse lo rivivrà.”

  • “Cosa potresti portarti dalla tua esperienza con i Jazz che ti aiuti a formare un legame con i tuoi nuovi compagni di squadra e il coach a Cleveland?”

“La cosa più importante che ho imparato è che non puoi rivolgerti a tutti nello stesso modo. L’ho imparato da Rick Pitino, ai tempi di Louisville, dove se facevi qualcosa di sbagliato ti urlava di farlo nel modo maledettamente giusto. Nella lega non funziona così, devi saper ascoltare, e devi saper entrare in rapporto con le persone per essere un leader. 

Tante volte J.B. [Bickerstaff n.d.r.], il coach di Cleveland, dice esattamente quello che penso, e allora non devo dire niente per non essere ripetitivo. Devo solo stare al mio posto.

In alcune occasioni abbiamo colloqui in cui chiedo come Mobley preferisca giocare, magari gli dico come sono abituato a difendere  e magari è proprio Evan a rispondere e ci confrontiamo sugli schemi. Oppure Garland, mentre guardiamo le tattiche, mi dice come si muoverà per facilitare il gioco. Avere queste conversazioni per me è fenomenale, e penso che ci abbia aiutato molto ad arrivare al punto rapidamente, perché c’è una comunione di intenti. 

Tutti vogliamo queste conversazioni, e J.B. le agevola. Abbiamo avuto un meeting in cui eravamo tutti seduti e parlavamo dei nostri ruoli, di cosa ci aspettavamo da ognuno di noi e dal ruolo di ognuno. Sapere quale sia il ruolo di ognuno è importante. J.B. ci ha anche detto di lavorare sul rapporto con ognuno anche fuori dal gruppo. 

Ci chiese cosa volessimo. J.B. ci avrebbe allenato in base a quella risposta. Dicendo che volevamo vincere il titolo, ci avrebbe allenato per quello. Quindi se, andando a Sacramento, fossimo usciti sconfitti, beh, sarebbe stato peggio per noi, perché se vuoi vincere l’anello non deve succedere. 

Ci fa venire voglia di combattere e di competere con noi stessi.”

  • Stai imparando a conoscere Cleveland?”

“Sì, certo, stiamo imparando a giocare insieme. Ma abbiamo tanto lavoro da fare per arrivare dove vogliamo. Giocatori come Evan, Darius, Lamar Stevens, Jarrett Allen si stanno calando nei loro ruoli e lo stanno facendo bene. Darius sta uscendo fuori e Ricky Rubio sta rientrando. Abbiamo tanti pezzi che si stanno ricomponendo e tanto in cui migliorare. 

E’ sempre meglio imparare vincendo che perdendo, e stiamo cercando ogni strada per farlo anche in situazioni dove non siamo mai stati come gruppo. Non abbiamo ancora vinto ad alto livello come team e quindi dobbiamo continuare a migliorare.”

  • “Sei stato a vedere i Cleveland Browns o i Guardians o la Hall of Fame Rock & Roll? Sei uscito in città?”

“Sono stato a due partite dei Browns, una partita di G League e a una dei Guardians. Sono stato a una partita di High school. Sto cercando di trovare la mia strada qui in città. Ho ricevuto un’accoglienza fantastica. Usciamo spesso insieme con i ragazzi e questa è una grande cosa. Siamo un gruppo e questo fa bene ai nostri rapporti. 

Sto sviluppando un legame con Cleveland, ci sono grandi persone qui e sto cercando di lasciare un segno nella comunità. Ci sono alcuni progetti nel futuro, di cui non posso ancora parlarvi, ma sono assolutamente entusiasta. 

Mi sto ambientando e sto capendo in cosa posso essere utile qui in città. Ovviamente per le festività sarò molto nella comunità, ma la cosa più importante per me è di entrarne veramente a fare parte. Io e mia madre, che è la mia colonna, vogliamo iniziare a costruire qui. I Cavs sono stati fantastici nel rendermi partecipe dei progetti che hanno fatto finora e sto pianificando a mia volta. 

Si possono fare donazioni economiche, che vanno bene, ma donare il proprio tempo è forse ancora più importante. Voglio entrare nella comunità, che sia un locale da asporto, un negozio di alimentari o una partita di basket è lo stesso.”

  • “Che aspettative per la partita di Salt Lake City del 10 gennaio? E poi, potresti essere uno degli All-Star per la Eastern Conference proprio a Salt Lake City nell’All-Star Game del 2023?”

“Sarà interessante. Non so bene se sarò accolto positivamente o meno, ma sono entusiasta di tornare lì a giocare. Sono stato lì per cinque anni, si lasciano radici e relazioni sia nella organizzazione che nella comunità. Tornare e giocare contro quel pubblico sarà triste. 

Non so come la prenderanno, ma alla fine giocherò per vincere. E’ un campo difficile dove giocare e sarà strano entrare nello spogliatoio degli ospiti. Ma, alla fine, quando si è sul campo, si gioca cinque-contro-cinque. “