L’impatto dell’All-Star Game 1992 sul dibattito riguardante l’HIV, protagonista Magic Johnson.

FOTO: NBA.com

Nella tensione muta si riusciva a sentire chiaramente il serpeggiante suono del cassetto della scrivania, il Dr. Mellman fu lento e cauto anche nel movimento di apertura. Prese la busta targata FedEx e guardò quell’omone dal talento sopraffino osservarlo con occhi che parlavano una lingua nervosa. Dal momento in cui Jerry pronunciò quel “Send Magic home” (“Manda Magic a casa”) le domande nella testa di Magic si erano affollate intorno al semplice “perché?”, e gli ultimi secondi di attesa, seduto accanto al suo agente, Lon Rosen, li percepiva come ore interminabili nell’assordante groviglio di pensieri e preoccupazioni.

“Ho una notizia spiacevole, hai l’HIV.”

Il playmaker incassò le parole, una ad una, come colpi al fegato che svuotano i polmoni e ti lasciano in un abisso di immobilità sonora. Difficile dire quali siano le parole che il tuo monologo interiore fa deflagrare nella tua testa quando ricevi una notizia come quella, sicuramente il rumore delle domande diventa più acuto e come un fastidioso effetto Larsen, ti ritrovi sordo ad ogni agente esterno alla tua mente. C’era però una domanda che vibrava a frequenze più alte delle altre.


“Morirò?”

Nel pronunciare quella domanda il suo cervello fece silenzio, la risposta che attendeva era la più importante della sua vita. “Non lo sappiamo ancora con certezza”, il medico tentò di pronunciare quelle parole con il massimo garbo e la massima gentilezza; aveva di fronte sia Magic Johnson, un predestinato della pallacanestro, sia Earvin Johnson, un giovane di 32 anni, dal sorriso contagioso, sempre allegro, sposato da poco più di un mese e in attesa di un bambino. La mente di Magic ricominciò a lavorare, frenetica e insaziabile. Aveva necessità di sapere, di risposte, di ordine in quella caotica sensazione di epilogo che stava vivendo. Cookie. Il bambino. Il suo flusso ritrovò una direzione.

“Dobbiamo fare delle analisi anche a lei”

Doveva dirlo a Cookie. Si congedò dal medico e si diresse a casa, la chiamò per avvisarla che sarebbe rientrato e che avrebbe dovuto dirle qualcosa: “Non so come dirtelo, se non dirtelo e basta. Ho l’HIV”. Furono queste le parole che disse alla moglie più tardi, che ebbe la stessa reazione del marito. Silenzio frenetico e poi una domanda semplice: “Stai per morire?”. Era quella la percezione in quel periodo, contrarre il virus era una condanna a morte, non immediata magari, ma inesorabile e sfibrante.

Nei giorni che seguirono la strada fu chiara, il vuoto del silenzio e le analisi immediate di Cookie; la situazione necessitava di essere affrontata un passo per volta e Magic non avrebbe potuto far altro prima di conoscere i risultati del test. L’attesa fu la sadica protagonista nei giorni che passavano, in cui mentire ai compagni di squadra, ai fan, a chiunque era un male necessario per non essere sopraffatti dalla pressione. Da quel 26 Ottobre il tempo sembrò una creatura informe e vorace, che si muoveva senza alcuna fretta, divorando ogni istante con indifferenza. In questa inquietante calma, quest’essere viscido procedeva assorbendo ogni istante di vita sul suo cammino, fagocitando la vitalità stessa di Earvin, che si trovò privo del suo enorme sorriso.

Il 3 Novembre arrivarono i risultati, Cookie era negativa e di conseguenza anche il bambino. Una buona notizia. Magic riuscì a diradare la nebbia nella sua mente, riuscì a percepire di nuovo qualcosa per cui vivere, e a vedere chiaramente quale sarebbe dovuto essere il suo cammino. In quei giorni i Los Angeles Lakers giustificarono l’assenza del loro miglior giocatore in quell’inizio di stagione con una semplice influenza, ma era chiaro quanto col passare delle ore chiunque facesse fatica a credere a quella storia, dai suoi compagni di squadra alla stampa. È in quel momento che ripensando all’attesa angosciosa che ha consumato in quei giorni ogni istante della sua esistenza decide di indire una conferenza stampa l’8 Novembre del 1991:

“..A causa del virus dell’HIV che ho contratto, oggi sono costretto a lasciare i Lakers..”

Lo fece, con dignità e abbozzando inizialmente quel sorriso che tutto il mondo conosceva. Nonostante non fosse pronto a ritirarsi, nonostante non fosse pronto a lasciare i suoi compagni e il basket. Ma si apriva, davanti ai suoi occhi, un capitolo fondamentale della sua vita, in cui Magic e Earvin avrebbero dovuto riunirsi e combattere uno stigma, rendersi il volto di una battaglia non solo medica, ma sociale.

Non smise mai di giocare realmente, non si fermò mai completamente; ogni giorno, Magic, esigeva furiosamente la sua parte di quotidianità da Earvin, bramava il campo, il gioco, i suoni, la competitività. Magic era rimasto in disparte a mangiar quotidianamente un po’ di basket, mentre Earvin faceva il suo dovere per la lotta all’HIV. Il mondo non si dimenticò mai del giocatore dentro l’attivista. E questo ricordo si manifestò dirompente alla votazione dell’All-Star game 1992. I fan lo volevano in campo tanto da renderlo la seconda guardia ad Ovest per voti. In quei mesi nessuno dimenticò Magic, che sentì un rumore di fondo, come catene che si rompono, e ritornò alla luce più esigente che mai.

Fu proprio il commissioner David Stern, che accolse la causa del giocatore da subito, a pronunciarsi in maniera perentoria: “Basta. Ci sarà”. Non si trattava solo dello sport più bello del mondo, fu una presa di posizione verso l’umanità e, in fin dei conti si trattava di Magic. Le polemiche non mancarono, i dibattiti furono quotidiani.

Magic sentiva ogni cosa, non poteva che ascoltare: gli altri All-Star che pensavano di boicottare l’evento, per paura che con un taglio ci potesse essere un contagio erano le voci più risonanti. Fu Isiah Thomas a prendere in mano la situazione. Convocò gli altri giocatori, si mise in mezzo al gruppo e pronunciò parole che quella generazione di stelle non poté più dimenticare:

“Non ci sarà una votazione, perché Magic giocherà questa partita. E noi lo accetteremo. E non solo lo accetteremo, lo accoglieremo”

Magic si rese conto che il playmaker dei Bad Boys era l’unico che avrebbe potuto pronunciare quelle parole, con quella calma e con quella autorità. Ci si avviò alla partita, alla Orlando Arena, il 9 Febbraio 1992, con ancora un alone di paura e disapprovazione. Magic non poteva che esserne spettatore. Non avrebbe permesso a quella sensazione di cibarsi di lui, stava tornando in campo, era l’unico pensiero importante.

La partita iniziò, e il sorriso di Magic si spense: tutti ci andavano piano con lui, nessuno sembrava pronto. Ma in un’azione spalle a canestro Dennis Rodman si ritrovò in difesa su di lui, gli fece un body check così forte da risuonare quasi in tutta l’arena. Quel suono sembrò risvegliare ogni giocatore coinvolto nella partita: “Se Dennis gioca così duro, allora noi non possiamo essere da meno”. Sembrava questa la frase tatuata sui volti dei giocatori, e improvvisamente per Magic cambiò tutto. Tutto ciò che si era detto evaporò e rimasero solo lui e i suoi amici di una vita a giocarsi una partita che aveva un sapore di cambiamento.

Ciò che più viene ricordato di quell’All-Star Game furono i minuti finali. Magic aveva 16 punti a referto, tutti segnati nel primo tempo e, tornando in campo nei 4 minuti d’epilogo di partita, sentì fremere il suo stomaco. L’MVP. Doveva averlo, la partita doveva essere sua. Ricevette palla in quel momento, guardia sinistra, puntò il canestro, iniziò il movimento di tiro e con naturalezza lo concluse, quasi senza pensare. 3 punti. 19 punti per lui. Fece una difesa in isolamento su Isiah, uno-contro-uno, per la competizione, per il gioco. Era in un’altra dimensione, non subì canestro, corse in attacco, ricevette dallo stesso punto di prima. 3 punti. 22 a referto, con la folla che vedeva chiaramente le sue intenzioni.

“Sta puntando all’MVP!!”

Urlò il commentatore, nel mentre Mike chiese l’isolamento per giocare anche lui uno-contro-uno con Magic, nessun passaggio di torcia in quella partita, sarebbe stata sua. Difesa perfetta, Jordan sbaglia. Si va in attacco, si ritrova contro l’amico, quello che parlò a tutti gli altri, quello che decise per tutti che avrebbero accolto il playmaker più forte ed atipico di tutti i tempi. Due palleggi dalla punta verso la guardia destra, proteggendosi da Isaiah; raccolse, si girò leggermente. 3 punti. 25 a referto per Magic. Sentenziò la fine insieme a tutti gli altri che smisero di giocare nonostante il tempo ancora rimasto sul cronometro. Doveva finire così, l’ultimo canestro doveva essere suo.

Vinse l’MVP con 25 punti e 9 assist e, con esso, la partita: la Western Conference passò per 153 a 113 sulla Eastern Conference. Ritirò il trofeo dalle mani di Stern con la consapevolezza che quella vittoria, quella partita, sarebbero state una pietra miliare non solo per la pallacanestro, ma per il mondo intero.

“Io e il commissioner David Stern con quella partita abbiamo cambiato il dibattito sull’HIV e l’AIDS in tutto il mondo.”