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Sotto le luci scintillanti della MECCA Arena di Milwaukee, il destino della pallacanestro americana stava per essere scritto. Era il febbraio del 1977, un’epoca di cambiamenti e trasformazioni, dove la magnificenza dei movimenti civili si intrecciava con l’energia e la passione del gioco. Mentre i giocatori più talentuosi della nuova NBA si preparavano ad affrontare la sfida dell’All-Star Game, la città di Milwaukee era pronta ad accogliere lo spettacolo con occhi vigili. Le strade risuonavano dell’entusiasmo degli appassionati, mentre la città stessa si trasformava in un teatro di emozioni e ambizione. Era più di una semplice partita, era il momento in cui le stelle si allineavano e la magia della competizione si fondeva con il bagliore dei riflettori. Ogni giocatore celava in sé una storia, un sogno e ogni passo sul parquet si portava dietro il peso della storia e la promessa di gloria. L’All-Star Game del 1977 si profilava all’orizzonte e il mondo teneva il fiato sospeso, consapevole che quel momento avrebbe plasmato il futuro della lega e fatto eco nei cuori degli appassionati per anni a venire.

La fusione tra la NBA e l’anarchica e spettacolare ABA aveva sapore di rivalsa e crescita. Era l’inizio di un nuovo cammino, che avrebbe portato anno dopo anno ad una profonda rivoluzione nel gioco e nel modo di concepire la lega come uno show. La storia del gioco ci ha insegnato a percepire un’aria diversa quando un cambiamento si sta per verificare, ed è ciò che capitò alla nascita della American Basketball Association. Fondata nel 1967, iniziò immediatamente con il suo rumore, apparendo da subito come la sorella minore che rifiuta le bambole, che colora intenzionalmente fuori dai margini, non tollera i capelli ordinati e vuole urlare al mondo “LET ME BE ME!”. Impossibile da contenere, si distaccò dalla NBA, che nella nostra metafora è la figlia perfetta, dai modi soavi e mai fuori dalle righe; per stile di gioco, impatto culturale e soprattutto per il modo di “vendere” le proprie stelle e partite.

Il gioco era straripante, aggressivo, veloce, votato all’attacco e alla spettacolarizzazione di ogni azione anche grazie ad alcune regole differenti, la più importante delle quali era l’introduzione della linea dei 3 punti (piazzata ai 7,25 metri) che da subito ha reso ancor più imprevedibili gli esiti di ogni partita, impedendo alle difese il sistematico collasso in area creando così enormi spazi non solo per gli impressionanti atleti, ma anche per giocatori non altrettanto dotati fisicamente. Anche la difesa si rivoluziona: per la prima volta viene mostrata una versione iper-aggressiva del concetto difensivo, con full-court press e difese trappola per costringere gli avversari ad un errore nei primi secondi dell’azione e propiziare palle rubate. Insieme al gioco, innovativi sono gli elementi culturali e di riconoscimento nel mondo del basket professionistico. Si trattava di un’ulteriore rottura delle consuetudini cristallizzate nei 21 anni di egemonia della NBA. Il simbolo più riconoscibile e che maggiormente spicca nelle immagini del tempo è la capigliatura Afro del giocatore che ha più incarnato la sregolatezza della ABA, Julius “Doctor J” Erving:


“La ABA ha offerto alla NBA lo stimolo a svegliarsi. Siamo stati la prima lega a comprendere davvero come promuovere una squadra e le sue stelle. Quello che l’NBA ora fa con Michael Jordan, Larry Bird e Magic Johnson, l’ABA lo faceva già con George McGinnis, George Gervin e con me medesimo. Nella mia testa, l’NBA è solo diventata una versione più ampia della ABA. Giocano con lo stesso stile con cui giocavamo noi, vendono le stelle come facevamo noi, la sola differenza è che hanno più risorse e che possono farlo in scala molto superiore rispetto a quanto si sia mai potuto fare in ABA.”

Le parole dell’ Hall of Famer ben rappresentano ciò che la sorellina ha portato con sé nella fusione del 1976, tutte innovazioni riprese dal commissioner visionario David Stern, negli anni successivi, per sopperire al calo di ascolti che la lega iniziò a registrare. Ad esempio, lo shootaround pre-partita, introdotto da Bill Sharman per scaricare la tensione, o l’half-time show, divenuto un vero e proprio must negli anni a venire. Ma soprattutto lo Slam Dunk Contest, per la primissima volta messo in scena in ambito ABA, proprio nell’anno precedente all’All-Star Game di Milwaukee. E caso vuole che, esattamente nella stagione 1976/77, l’NBA abbia riportato in auge la possibilità di schiacciare, dopo un bando durato 10 anni, consentendo di istituire la competizione. Peccato che, in primissima istanza, questa novità abbia avuto ben poco a che fare con la partita delle stelle: certo, dei 22 partecipanti, uno per squadra, molti sono ad oggi Hall of Famer (Kareem, Doctor J, Alex English, Moses Malone, George Gervin, Elvin Hayes e via dicendo), ma il formato prevedeva che ci si affrontasse a coppie nell’arco di tutta la stagione, disputando degli uno-contro-uno durante l’intervallo di ciascuna gara. A uscire vincitore fu Darnell “Dr. Dunk” Hillman in quello che, negli anni successivi, è risultato essere un relativo anonimato, tanto che il giocatore non viene ricordato come primo vincitore di sempre del contest NBA, a vantaggio di Larry Nance, né ha ricevuto per anni un riconoscimento ufficiale. Hillman quel premio lo otterrà infatti solo 40 anni dopo, quando un altro Pacer, Glenn Robinson III, vincerà lo Slam Dunk Contest 2017 (per come lo conosciamo oggi).

È in questa aria nuova, vibrante che i quasi 11mila spettatori si accomodavano nei propri posti della MECCA Arena, in attesa di uno spettacolo mai visto in precedenza: con ben 12 ex giocatori ABA, ci si preparava alla 27esima edizione della partita delle stelle, consci di star per osservare un giro di boa fondamentale nella linea temporale del gioco. La Eastern Conference contava 10 futuri Hall of Famer, tra cui Bob McAdoo, Doctor J, Earl “The Pearl” Monroe e Pete “Pistol” Maravich contro una Western Conference con altrettanti giocatori leggendari in cui spiccavano il centro losangelino Kareem Abdul-Jabbar, non scelto nel quintetto titolare (votato dai fan), e Paul Westphal alla sua prima apparizione.

Il tono aggressivo si presentò immediatamente dopo la contesa iniziale, con le stelle dell’Est che macinarono 34 punti contro i 23 degli avversari. Il messaggio che passò era chiaro, gli ex ABA non avrebbero permesso alle critiche che li vedevano come semplici funamboli e circensi di perdurare, sembravano urlare al mondo che il loro posto era tra i migliori dal mondo, senza possibilità di replica. Doccia fredda che non scombussolò affatto i giocatori dell’Ovest, che non riuscirono a riguadagnare velocemente i punti concessi, ma nemmeno lasciarono dilagare quell’apparente strapotere offensivo. Al rientro in campo il punteggio diceva WEST 58 – 68 EAST, con metà gara ancora da giocare. Nessuna estrema unzione prematura per la squadra allenata da Coach Larry Brown, che proprio nel terzo periodo salì in cattedra e, facendo la voce grossa, limitò gli avversari a 21 punti segnandone 39. Punteggio ribaltato a favore dell’Ovest per 97 a 89 e tutto da rifare per Doctor J e compagni. L’ultimo quarto, quello decisivo che decide la partita, è uno dei più belli visti negli anni ’70 per intensità, per l’orgoglio messo in campo, perché ogni azione dava la sensazione di congelarsi nella storia della lega non appena si concludeva. E fu Bob McAdoo, il futuro eroe (cestistico) dei due mondi a martellare il canestro dell’Ovest, segnando 14 punti nel solo quarto periodo e dando una scossa tremenda ai propri compagni, ponendo negli ultimi secondi il destino della partita. Un solo punto di scarto, palla per la Eastern Conference, che ebbe quindi la possibilità di un game winner per tornare a casa e vantarsi della vittoria. Game winner che non avvenne mai, perché Paul Westphal si fece protagonista di una magistrale e intensissima difesa su Pete Maravich, a cui rubò palla, che finì nelle mani di Rick Barry fino allo scadere del tempo regolamentare. Il tabellone segnava WEST 125 – 124 EAST alla sirena finale, quasi sorda per via del boato che deflagrò al momento della palla rubata e ancora scuoteva l’arena e l’intera città Milwaukee.

La partita fu unica nel suo genere, così come la scelta del Most Valuable Player, che ricadde su Julius Erving, autore di 30 punti 12 rimbalzi e 4 palle rubate nel loosing effort della Eastern Conference. Non una scelta senza polemiche, per la velocità in cui avvenne e per la straordinaria prestazione di Paul Westphal.


Si mise un punto alla partita, per voltare pagina e vedere l’immenso libro di opportunità che l’NBA aveva grazie soprattutto all’accettazione, nella fusione, dei modi bruschi, un po’ barbari, ma spettacolari e dirompenti, della sorellina giovane e anarchica. Accettazione che sapeva di presa di coscienza, che solo l’equilibrio tra due mondi opposti avrebbe potuto assicurare un futuro alla lega, così radioso com’è stato. Il connubio dello spirito audace e del rigore tradizionale, una miscela di cui ancora oggi tutti ci nutriamo. Perché senza quella fusione, senza quell’All-Star Game, non staremmo fruendo del basket d’oltreoceano in questi freddi e strani tempo che viviamo.