Stephen Jackson: pregi e difetti di un girovago.
Port Arthur, Texas:
Mette giù il telefono e si siede sul divano della piccola catapecchia dove vive con la madre, la sorella e il fratello. Il ragazzo non può credere a ciò che è successo. Donald Buckner, fratellastro, migliore amico e insegnante, è morto. Un colpo al cuore per il sedicenne Stephen. Donald era la sua figura di riferimento nella comunità, non certo salubre, di Port Arthur, nel Texas. Una discussione con l’ex fidanzato della sua compagna, una rissa che si è trasformata in un handicap match 3 contro 1 e Donald non ce l’ha fatta.
Stephen Jackson, all’epoca stellina della Lincoln High locale, non si è mai abituato a tutto questo. Il rimpianto di non essere stato presente e aver potuto aiutare un suo caro lo ha sempre tormentato. Pensava di poter fare la differenza, perché il talento con la palla a spicchi lo rendeva un’intoccabile a Port Arhur, un posto dove se un ragazzo ce la fa, tutta la comunità ce la fa.
Da quella tragica morte e la promessa di esserci sempre per i propri fratelli, parte il viaggio nella psiche, cestistica e non, di Captain Jack, al secolo Stephen Jackson. Una storia controversa come l’ambiente nel quale è cresciuto, fatta di pulsioni irrefrenabili, scelte sbagliate e notti difficili da dimenticare.
IL GIROVAGO
Il talento con la palla a spicchi viene con naturalezza. Si vede che è un altro tipo di giocatore, bisogna però tenerlo su una strada virtuosa. I voti sono quel che sono, di visite nell’ufficio del preside ne fa molte e ad un certo punto della sua carriera alla Lincoln High diventa ineleggibile per gli sport. Medie e condotta hanno ovviamente influito, e il ragazzo lungo e con la faccia perennemente tra il quieto e l’irrequieto decide di andarsene dal Texas per i lecci della Virginia. Oak Hill Academy, scuola che sarà di tradizione per molte stelle della NBA.
L’impatto con l’ambiente non è dei migliori, soffre l’adattamento ad un posto che non sia Port Arthur. La sua vita fino ad allora era stata dettata da quelle regole, secondo le convenzioni di quella comunità. Sul basket è sempre il solito giocatore. Tieni giù le braccia e l’ultima cosa che sentirai sarà lo “swish” della rete che si muove. In difesa si applica a targhe alterne, a seconda di quale sia il suo livello di concentrazione quel giorno. Le scale ci sono tutte: si va da difesa celestiale a difesa disinteressata che si tramuta nell’esser messo in panchina dopo metà del primo quarto.
Al McDonald’s All-American game, la partita che di fatto celebra i migliori giocatori delle high school a livello nazionale, Jack si ritrova in un East Roster che fa paura e che oltre a lui conta giocatori come Richard Hamilton, Jermaine O’Neal, Tim Thomas e un giovane con l’afro ben spazzolata che di cognome fa Bryant. Kobe Bryant. Nell’Ovest Roster una figura chiave nella storia di Jack, Mike Bibby.
Non parte in quintetto, ma è spontaneo. Non si snatura, che nella sostanza significa che tira tutto ciò che gli passa tra le mani, con una classe e una naturalezza unica per un 2.03. 21 punti a referto quella sera, la seconda gioia dopo essersi già promesso per gli Arizona Wildcats, una delle “powerhouses” della NCAA.
Purtroppo per il nostro eroe, per poter entrare ad Arizona bisogna ottenere certi punteggi nei test che qualificano gli studenti americani nelle graduatorie dei college. I suoi punteggi sono inferiori a ciò che viene richiesto e viene dichiarato ineleggibile dal punto di vista accademico. Un vero peccato per i tifosi Wildcats che si sono persi il trio composto da Jackson, Jason Terry e Mike Bibby.
Jack è avvilito. Arizona aveva tutto ciò di cui aveva bisogno. Una figura paterna come Lute Olson ad allenare, un compagno come Bibby con cui era già in ottimi rapporti, una scuola di tradizione che sarebbe voluta dire tanto per un nativo di Port Arthur. Ripiega su Butler Community College, un piccolo college situato ad El Dorado, nel Kansas.
Una buona stagione lo porta a dichiararsi al Draft NBA, anche se l’attenzione per un giocatore uscito dal Butler Community College è poca.
Prima del Draft però riesce a farsi notare grazie al sostegno e all’aiuto della famiglia Bibby, che lo ospita e lo porta all’arena dei Suns per delle partitelle tra i migliori giocatori collegiali – tra cui anche Mike Bibby – e qualche giocatore disponibile al secondo giro del Draft. Jack umilia a ripetizione Cedric Ceballos e lo sfida, senza intimorirsi davanti ad un veterano NBA.
Viene chiamato con la numero 42 da Phoenix, che però ci ripensa durante il training camp, tagliando il texano.
Da qui parte un viaggio nel sottobosco del basket professionistico mondiale. Dopo una breve sosta in CBA, fa le valigie per andare a giocare in Australia con i Sidney Kings, prima di mettere la camicia a maniche corte e i pantaloni alla zuava per trasferirsi prima in Latino America, in Venezuela, e poi nei Caraibi, nella Repubblica Dominicana.
Un esilio autoimposto, che però a Stack, l’altro soprannome con il quale viene chiamato, piace tanto perché può buttare fuori tutte le emozioni. Sfidare, parlare (non sempre a proposito e in maniera pacata), sentirsi ardere dal fuoco della competizione.
Viene richiamato in patria dai New Jersey Nets, pre-Finals contro i Lakers, quelli di Marbury, Kittles e Van Horn. Stringe ottimi rapporti con Starbury con cui fuori dal campo, diciamo, si trova sulla stessa lunghezza d’onda. Spreca l’ennesima occasione. Coach Byron Scott lo caccia dopo 77 partite e 8 punti di media, complici anche le abitudini, non proprio virtuose, fuori dal campo.
Non si perde d’animo. Come sempre.
SPURS CULTURE
Fortunatamente per lui, arriva la chiamata dei San Antonio Spurs.
Tutto quello a cui aveva dovuto rinunciare quando venne scartato ad Arizona. Un coach come Pop, che gli fa da figura paterna, lo pungola ma non ha paura ad inserirlo, un compagno di squadra come Tim Duncan, che lo adora, perché riesce a portare tutto ciò che porta lui, ma con un approccio opposto. La competitività, la voce, lo sguardo che prende fuoco. Doti che faranno dire a Duncan che Jack è uno dei migliori compagni di squadra possibili.
Nella stagione 2003 arriverà anche il Titolo, dopo una stagione dove gioca 30 minuti a partita ed è
fondamentale nell’attacco di Popovich con 12 punti di media e che lo apprezza anche per l’applicazione difensiva che ne riesce a ricavare. Pop, che sarà l’unico allenatore capace di disciplinarlo.
Dopo un’ottimo apporto anche nella corsa al Titolo, nell’estate declina l’offerta di rinnovo da 10 milioni in 3 anni, credendosi Icaro e volendo sondare un mercato che per lui non c’è. Finisce così per firmarne uno con Atlanta, 2.8 milioni in 2 anni.
La decisione di lasciare San Antonio sarà sempre un pentimento per Jack, che avrebbe potuto nutrirsi di più alla fonte di Popovich. Un allenatore che lo aveva fatto affermare nella NBA, con una squadra vincente e dal gioco che calzava alla perfezione le sue caratteristiche.
Sempre pronto sugli scarichi di Duncan, Parker e Ginobili, oltre a saper andare “solo” alla perfezione.
Pop ne avrebbe saputo smussare i lati spigolosi sul parquet, attenuando quelli caratteriali.
“THE MALICE”, WE BELIEVE, CHARLOTTE
In Georgia si trova bene, ma quando nel 2004 i Pacers si fanno avanti con 38 milioni di motivi per trasferirsi tra i campi dell’Indiana, non ci pensa due volte. I Pacers sperano di aver trovato quel realizzatore in grado di dare a Reggie Miller un’ultima chance al titolo.
Dopo un inizio di stagione esaltante, il 19 novembre 2004 ecco la partita più attesa: lo scontro con i Pistons, favoriti per la vittoria della Conference. Il ricordo è nitido, quando Ron Artest sdraiato sul tavolo dei commentatori viene colpito da una bibita e scatta verso le tribune, Jackson reagisce istintivamente e lo segue.
Sbagliando certo, mostrando in diretta TV uno spettacolo raccapricciante. Ma come si era promesso non avrebbe più lasciato nessuno a cui teneva, in questo caso Artest suo compagno di squadra, andare a combattere da solo. Un ragionamento animalesco ma che se hai perso un fratello, e non eri lì per lui, ha una sua logica.
30 partite di sospensione e l’entusiasmo per il suo arrivo e per la squadra si raffredda, non solo in Indiana, in tutta la NBA. Nonostante le cose sul campo girino.
Gioco offensivo accademico. 16.4 punti di media, mono-dimensionale a tratti, ma dannatamente utile a portare la squadra ai Playoffs 2006, pur uscendo al primo turno contro i Nets.
Fuori dal campo è una tragedia. Spara in aria un colpo in un club di Indianapolis vedendo un suo compagno di squadra discutere con dei ragazzi e scaturendo una rissa con i buttafuori. I Pacers esasperati lo scambiano a gennaio 2007.
Si va nella baia, dove ad attenderlo c’è Don Nelson, il Barone, Jason Richardson e quello che diventerà l’amico di una vita: Matt Barnes.
L’alchimia che si crea tra quella squadra e la Baia è unico. La squadra, che fino a Febbraio faticava ad essere all’ottavo posto, fa uno sforzo decisivo, trovando un quintetto piccolo che diventa un “run and gun” puro. Jack sale d’intensità, anche in difesa, come poche altre volte gli era successo.
La qualificazione alla postseason arriva e ad attenderli ci sono la miglior squadra della Lega. I Mavs di Avery Johnson e del futuro MVP Dirk Nowitzki. Una squadra con un 67-15 di record, quella che molti vedono come la favorita.
Vengono torturati dalle bocche di fuoco gialloblù. Davis, Jackson e Richardson che spadroneggiano con il Barone che ne segna 25 a partita in quella serie e Captain Jack che con 23 punti e il 48% da 3 bucano in continuazione la difesa dei Mavs.
Quella favola è tra le più belle della NBA e quella squadra tra le più iconiche. Una squadra che ha polarizzato l’attenzione sportiva di un’intera nazione basata sull’esaltazione degli “underdog”, coloro che non dovrebbero farcela e che, invece, ce la fanno.
La corsa finisce al turno successivo contro Utah, non togliendo nulla alla grandezza di quell’impresa.
La stagione successiva ad Oakland è senza dubbio la sua stagione migliore. Segna 21 punti a partita, miglior realizzatore tra le ali dopo Lebron, ma l’impresa riuscita nella stagione precedente fallisce e la stagione successiva con disappunto di tutto lo spogliatoio è al centro di uno scambio con Charlotte.
Charlotte è una franchigia che mette alla prova i giocatori, perché fondamentalmente nella storia dei Bobcats il sapore del successo lo conoscono in pochi. Jack arriva in Nord Carolina e trova una squadra con del talento, ma con pochissimo successo. Ci sono Tyson Chandler, Boris Diaw e soprattutto Gerald Wallace, che si guadagnerà la convocazione all’All-Star Game in quella stagione.
Jackson come sempre segna. Marca indelebilmente le partite. Una macchina che funziona alla perfezione a Charlotte, dove mette a referto anche una prova da 43 punti contro Houston. È disfunzionale perché quella personalità porta con sé pregi e difetti, porta a confronti accesi, a veri e propri scontri. E si finisce per chiedersi che giocatore sarebbe stato, con un altro carattere.
Lui risponde che non sarebbe stato un giocatore, perché senza la vicissitudini della vita e come queste lo hanno influenzato, sarebbe rimasto a Santo Domingo, ad abbronzarsi e spiegare pallacanestro ad un popolo di giocatori di baseball.
THE REDEMPTION:
Il giro di squadre di quest’Odissea termina con Milwaukee e infine San Antonio. Di nuovo all’ovile nel quale si era iniziato a parlare di lui. Lascia l’ultima impronta con una prestazione balistica magistrale contro i Thunder alle Western Conference Finals 2012. 6/7 da 3 l’At&T Center che un’ultima volta esplode per le prodezze di Stack.
L’anno dopo verrà tagliato da Popovich, che ha bisogno di altro e porta in Texas Tracy McGrady.
Non se la prende il numero 3 e, mestamente, si fa da parte appendendo le scarpe al chiodo, lasciandosi alle spalle una carriera divisiva. Un “Bad Boy”, uno che ha tentato di distruggere l’immagine della NBA per alcuni. Per altri un professionista, non sempre esemplare, ma che portava contributi ed attributi importanti ad ogni squadra in cui ha giocato. Squadre che a volte nemmeno si sarebbero aspettate di trovarsi lì. Tutto perché Jack portava quel pizzico in più per far sperare gli “small market” della NBA.
Fuori dal campo non avrà il curriculum del cittadino modello, questo è certo, ma da capobranco dominato dagli istinti del Palace, ha dimostrato di saper essere leader e faro di una comunità, quella privata dalla morte, tragica, di George Floyd a Minneapolis a maggio 2020.
La voce che non faceva mai mancare dentro al campo, utilizzata per stare al fianco di chi ne aveva bisogno, mettendo a disposizione la sua esposizione e i suoi mezzi perché finalmente avvenga un cambiamento.