Larry Bird e Magic Johnson, con la loro rivalità, hanno segnato un’epoca nella storia della NBA. Emblemi dell’odio sportivo tra Celtics e Lakers in campo, uomini uniti da un legame d’amicizia profondissimo fuori. Tanto da far vivere momenti di autentica disperazione a Larry, quando ricevette una telefonata…

Il rumore delle gomme sull’asfalto cullava il silenzio dei suoi pensieri. Molto più della canzone country che una frequenza radiofonica casuale stava passando in quel momento. Aveva acceso la radio per non restare “solo”, ed era finito per concentrarsi su quella vibrazione, esterna all’abitacolo.
Lo aiutava a concentrarsi, a fare mente locale di ciò che lo avrebbe atteso in settimana.
Era preoccupato e contrariato. E forse quelle miglia in solitudine potevano aiutarlo a sbollire un po’.
Gli davano così da pensare, i suoi Pacers. Il cruccio principale di un General Manager che si rispetti è che la propria franchigia ottenga dei risultati sportivi soddisfacenti, correlati all’impegno e alla dedizione spesi nella sua costruzione. Non era quello il caso. Indiana, nonostante un Roster di buona qualità, stava faticosamente arrancando alla ricerca di uno spot per la post-season.
Era difficile per lui, così abituato alla competizione e alla vittoria, accettare le difficoltà che un numero troppo elevato di sconfitte si portano appresso. Perché se si è iscritti all’anagrafe con il nome di “Larry Joe Bird”, la sconfitta brucia nel cuore come una ferita.
Correva veloce, l’auto su quella strada dell’Indiana. Ma quasi pareva non accorgersene. Meditava. Su quali cose potessero essere sistemate. Aveva fortemente voluto Carlisle alla guida della squadra tre soli anni prima, nel 2003, licenziando un mostro sacro come Isiah Thomas. Un ritorno a casa per Rick, visto che in passato aveva già lavorato ai Pacers come assistente. Ed ora si ritrovava a meditarne il licenziamento. Lo addolorava, perché era come dover sfiduciare quello che per lui non era solo una scommessa, ma un uomo per il quale nutriva autentica stima. Su cui aveva investito il proprio cuore e dal quale aveva ricevuto indietro soddisfazioni. Che però non erano state ancora – e forse non lo sarebbero state mai – accompagnate dall’aggettivo “Grandi”.
Aveva sfiorato il sogno, nel 2004, al primo anno alla guida manageriale nell’Indiana. Si erano dovuti arrendere alle Conference Finals contro i Pistons futuri campioni NBA. Da lì una parabola discendente. L’anno successivo i Pacers furono eliminati in semifinale ancora dai Pistons, per uscire poi al primo turno la stagione seguente ancora, stavolta per mano dei Nets di Jason Kidd.
Correva veloce, l’auto su quella strada dell’Indiana. Quando l’isterica suoneria del telefonino appoggiato nel vano porta oggetti ruppe il cupo quadro d’angoscia.
Come risvegliato di soprassalto dal torpore, Larry staccò una mano dal volante, tentando di afferrare il maledetto aggeggio e di rispondere in tempo alla telefonata, senza perdere d’occhio la strada. Guardò di sfuggita il numero sul piccolo schermo. Il fatto che non fosse salvato lo fece sbuffare: sarebbe stato senz’altro qualche noia incombente. Magari un giornalista in cerca di qualche scoop. Era giusto da un po’ che non lo chiamavano per chiedergli come stesse Magic. Una carriera intera ad interrogarlo, a rivolgergli sempre la stessa domanda. Ad un certo punto si chiese persino se non fosse il caso di assumere un addetto stampa che facesse le veci di entrambi. Non era bastato essersi ritirati, tutti e due, dopo anni di poesia donati al Gioco. La loro rivalità sembrava non potesse tramontare mai.
Proseguendo con i passi della propria vita, la cosa aveva iniziato a stufarlo. Almeno avessero cambiato soggetto, nel corso degli anni; gli avessero mai chiesto di qualche suo ex compagno. Di cosa pensasse della breve parentesi di McHale sulla panchina degli Wolves, o se recentemente fosse andato a mangiare un boccone con quel diavolo di Bob Parish.
No. Le domande che gli erano poste con una frequenza ai limiti dell’esaurimento erano sempre le medesime: “Hey Larry! Come sta Magic? L’hai visto ultimamente?”; “Larry, che fa di bello Magic?”.
Lo stesso valeva per Johnson.
Ma Magic era diverso: prendeva il tutto con il suo solito, infinito sorriso a 32 denti carico di filosofia. Con i giornalisti ci giocava. Li illudeva con la stessa abilità con cui nascondeva il pallone ai tempi dello Showtime. Sguardo di qua, palla di là. Due punti schiacciati nel canestro di Kareem, un +1 alla voce assist per lui. Grazie e arrivederci.
“Penso che Larry se la stia passando bene, a dir la verità. Ma per essere sicuri, perché non lo chiamate?”
Grazie di tutto Magic. La prossima volta, se tu potessi tirare dritto e non rispondere… sarebbe meglio.
Per un attimo il dito sfiorò il tastino rosso, per rifiutare la chiamata. Un attacco di onestà automobilistica lo spinse persino a pensare di desistere, perché s’era dimenticato di collegare il telefono al vivavoce di bordo. Se, tuttavia, dietro quel numero sconosciuto ci fosse stata una qualsiasi chiamata in grado di concedergli un po’ di tregua dai suoi pensieri?
L’ondata di buona fede lo spinse a premere il tasto di ricezione, quando ormai sembrava che il telefono dovesse quietarsi.
“Pronto?”
“Sì, buonasera Mr Bird. Sono Taldeitali, del QuotidianoX. News e cronaca da Indianapolis.”
La bocca si storse, pensando all’occasione persa di rifiutare la chiamata. Tant’era: cacciatosi ormai in quel guaio, voleva almeno sapere dove costui intendesse andare a parare.
“Buonasera… Buonasera.” Il nome suo e del giornale avevano già abbandonato la sua memoria.
“La disturbavo per chiederle se per caso avesse saputo.”
“Saputo cosa, esattamente?”
“Come, Mr Bird? Non ha sentito le News?”
“Ma di che stai parlando?”
“Senta, non vorrei essere… Insomma, non è ancora stato confermato ma… Pare che Magic Johnson sia morto.”
Correva veloce l’auto, su quella strada dell’Indiana. E il cuore di Larry Bird, per un istante, sbandò paurosamente.
“Mr Bird? Mr Bird? E’ ancora in linea?”
Quasi lo sentì, il suo cuore. Salirgli in gola ed annodargliela, senza riuscire più a proferir parola.
Magic era morto. Cercava di ripeterselo, di convincere mente ed animo con le stesse parole di uno sconosciuto da chissà dove.
Magic. Era. Morto.

Erano stati un’unica essenza sin dai tempi del college. Ma la loro rivalità nacque più o meno ufficialmente al World Invitational Tournament, competizione internazionale nella quale i migliori giocatori collegiali si misuravano contro le nazionali di Unione Sovietica, Cuba e Jugoslavia. Era il 1978.
Larry aveva catturato un rimbalzo, aprendo il contropiede a tutta velocità. Magic nella corsia laterale, era corso al suo fianco, le mani aperte chiamandogli il passaggio. Larry si era girato dalla parte opposta, di fatto ignorando il compagno.
“Maledetto. Non me la passerà mai.”
Un missile terra-aria. Magic, senza sapere bene come, si era ritrovato in mano un no-look dietro schiena lasciato partire da Bird con precisione fulminante. Incrociando sul primo passo, si era bevuto il suo difensore, per restituire il passaggio al compagno direttamente dal palleggio. Ma il flipper non era ancora terminato, perché Larry gli aveva restituito la sfera di tocco con sensibilità sovrannaturale, concedendogli due punti facili appoggiati al vetro.
Dalla Rupp Arena di Lexington, Kentucky, si era levato un boato di autentica ammirazione. La stella di Michigan State non aveva potuto fare a meno di levare in alto la mano aperta, prontamente schiaffeggiata dal rivale di Indiana State. High-five e classico sorriso smagliante. Larry, dal canto suo, si era avviato in difesa con la stessa faccia di chi si fosse appena preso the e biscotti all’ora di merenda. E pensare che erano stati presentati come seconde linee. Due semplici comparse.
“Io… Io… Non credo di aver capito.”
“Mr Bird. Sono costernato. Credevo lo sapesse, non avrei voluto di certo essere io a comunicarle questa notizia.”
“Senta…”
Cercò di raccogliere i pochi pensieri che gli venivano in mente. Nel frattempo, aveva fermato l’auto al ciglio della strada. Accompagnata dall’acuto gemito dei freni. Si ritrovò così seduto, una mano ad impugnare il volante, l’altra a stringere con disperazione il telefonino. In una conversazione che aveva quasi del tragicomico. Pareva uno scherzo. O perlomeno sperava con tutto se stesso che lo fosse.
“Senta… io devo… devo fare un paio di telefonate.”
“Ma certo. Mi…”
Non gli lasciò tempo di rispondere. In quel momento voleva solo silenzio.
Era il 1991 quando Magic aveva convocato una conferenza stampa nella quale dichiarava di doversi ritirare dalla Lega e dal Gioco per aver contratto il virus dell’HIV. Come per tutto l’ambiente, anche per lui quelle parole furono un pugno diretto nello stomaco.
Una sigla che sapeva di morte imminente, di terrore.
Eppure Magic non si era abbattuto. Aveva lottato, investendo nella ricerca e nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica su di un male dilagante e per certi aspetti ancora ignoto. Così facendo aveva aiutato se stesso a restare in vita, stabilizzando la propria salute e rasserenando i suoi stessi cari.

Larry sin da subito non gli aveva fatto mancare il suo supporto, per quanto temesse che prima o poi il male lo avrebbe portato via.
Ora tutto gli parve così nebuloso. Così insensato. Inerme e senza parole si ritrovò a pensare all’ironia che stava dietro a tutto questo. Mai avrebbe pensato di soffrire per colui che più di tutti lo aveva tormentato nel corso della sua carriera.
La finale NCAA del 1979 fu la prima vera ferita profonda. Larry era stato eletto MVP della stagione, e i ragazzi di Indiana State erano dei seri candidati alla vittoria del titolo. Aveva passato una stagione intera ad osservarlo, a guardare minuti e minuti di highlights per studiare a fondo ogni suo movimento; quali fossero i suoi punti di forza, quali le sue debolezze. Rispettava il suo modo di essere estremo in campo: sempre alla ricerca di una giocata speciale, o del contatto verbale con il proprio avversario per dominarlo mentalmente.
Lui era diverso, crudo. Introverso. Un autentico animale da trash talking, ma a denti stretti. La teatralità preferiva lasciarla a Magic.
I suoi occhi azzurri non poterono, non vollero incrociare quelli di nessuno. Amici o nemici. Michigan State era campione NCAA. Indiana State gli sconfitti. Magic gongolava con la retina al collo. Lui nascondeva il volto sotto l’asciugamano. Seduto, solo, negli spogliatoi. Come se non riuscisse a trovare la forza di scrollarsi di dosso quell’attimo.
Lo stesso senso di pesantezza, come se fosse tornato a quella sera. A quell’asciugamano in testa.
Dovette scuotersi. Per riprendersi dalla terribile fitta alla bocca dello stomaco vissuta così alla sprovvista.
Jill. Era Jill, la sua agente, colei che avrebbe potuto dargli una risposta.
I secondi che separarono gli squilli da un “Pronto?” lontano gli parvero eterni.
“Ciao Jill…”
“Ciao Larry. Sei arrivato?”
“No. Sono a circa quaranta minuti. Ma non ti chiamo per questo. Ho bisogno assoluto che tu mi faccia un favore.”
Lo conosceva troppo bene: quel tono di voce quasi annaspante l’aveva preoccupata immediatamente.
“Mi sto preoccupando… che ti serve?”
“Mi ha appena chiamato un giornalista di Indianapolis. Mi ha appena chiesto se sapessi…”
Un’ennesima pausa, stavolta per trovare le forze di dirlo ad alta voce.
“… se sapessi una notizia tragica, ecco. Pare che Magic sia morto.”
Fu investito da un assordante silenzio.
“Jill? JILL? Ci sei?”
“Sì… sì, Larry… sono in linea.”
“Ok. Dunque, io non sapevo nulla di questa faccenda, ovviamente. Potrai capire quanto ne sia stato colto alla sprovvista. Quello che mi serve, e mi serve adesso, è che tu chiami immediatamente Lon per sapere se è vero. Subito Jill.”
“Ho già fatto il numero. Vuoi… restare in linea? Ma ti sei almeno fermato?”
“Sì. Sono qui fermo a lato della strada. Richiamami quando hai notizie da Lon.”
Lon Rosen. Rappresentava i diritti di Johnson dal 1985. Come primo assistito in carriera si trovò per le mani un diamante purissimo. Che si trasformò in un socio e sincero amico successivamente.
Ovunque, a qualsiasi ora e per qualunque cosa, Lon sapeva esattamente dove stesse Magic e di che si stesse occupando. Il che era vitale: Magic al telefono non rispondeva mai.
Si trovò, sguardo perso fuori dal finestrino, a picchiettarsi sul mento con il telefonino: non c’era altro da fare che aspettare che la chiamata di Jill illuminasse lo schermo. E il suo cuore, con una buona notizia.
Si chiese se davvero non si fosse reso conto che Magic potesse stare male. Non lo sentiva da un mese, ma nell’ultima conversazione gli era parso vitale come al solito. Questa cosa lo rinvigorì emotivamente: in un mese, se la sua salute fosse decaduta, lo avrebbe quantomeno saputo.
Nel corso di quella chiacchierata, dal nulla era riemerso un episodio, che amavano definire tra loro come “lo Show”.
In uno degli innumerevoli Celtics-Lakers, Magic sedeva in borghese in panchina. Una fastidiosa tendinite al ginocchio lo aveva suo malgrado messo fuori dai giochi per quella sera, con suo notevole disappunto. Si era visto venirgli incontro Larry, una maschera di strafottenza in volto.
“Fratello… Non hai idea di quanto mi dispiaccia per il fatto che non sarai dei nostri quest’oggi. Ma sai che dico? Visto che sei qui bello spaparanzato, penso proprio che metterò in piedi un bello Show. Solo per te. Mettiti comodo e guarda.”
Avevano riso di gusto. Anche se a Magic pareva che quella storia non fosse ancora andata giù.
“Ogni canestro che segnavi poi ti giravi a guardarmi. Un paio di volte lo hai fatto quando la palla non era ancora entrata. Ed io lì, a non poter ribattere. Era Celtics-Lakers! Io in borghese, tu a farci a pezzi… e a sfottermi. Ti rendi conto di quanto tu sia stato stronzo?”

Sobbalzò quando il telefono iniziò a suonare. Era Jill. Per un attimo si sentì completamente smarrito. Di lì a 10 secondi avrebbe potuto versare lacrime di disperazione. Come di gioia.
“Pronto…”
“Diamo il benvenuto al giocatore dei Los Angeles Lakers che, per lungo tempo assieme a Larry, ha definito un nuovo livello d’eccellenza competitiva nella NBA. Earvin Magic Johnson!”
L’ultima ballata della Leggenda. L’intero Boston Garden, splendido nel suo parquet incrociato, a rendere omaggio al numero 33. Larry è al centro del campo, una colonna di luce lo illumina nel buio.
La sua schiena lo aveva implorato di dire basta, a quell’amato Gioco cui aveva dato tutto se stesso. Passava più tempo sdraiato a pancia in giù che non seduto, quando era a riposo in panchina. Era arrivato il momento di smettere. Ma per farlo, era necessario rendere omaggio alla sua grandezza.
Ed ora eccolo là. Un sorriso stampato in volto, contraccambiato da Magic mentre si fa strada tra una folla impazzita. A sottolineare un’incredulità di fondo: dopo essersi scontrati in battaglie epiche senza mai risparmiarsi, ora il suo più acerrimo nemico era lì, davanti a lui. Ad accomiatarsi.

Una musica solenne incornicia il loro abbraccio, il bianco della divisa Celtics che incontra il giallo della tuta del 32.
Lo canzona, Larry. Gli tocca la pancia, come a dire: “Sei vecchio, caro mio. Guarda me: sono in forma smagliante. Me ne sto andando soltanto per smetterla di darti grattacapi.”
Ad un tratto, colpo di scena. Magic, con la faccia beffarda di chi sa che sta per combinarne una bella grossa, si sbottona appena appena il soprammaglia. Pur cercando di contenersi, non riesce a soffocare una risata genuina. Una delle sue. Immediatamente Bird, divertito, completa l’opera, e sotto la camicia griffata Lakers trova una maglia bianca. Dei Boston Celtics.
Magic Johnson. Emblema dei Los Angeles Lakers dello Showtime, da sempre odiatissimi antagonisti Celtics. Più acerrimo rivale dei Bird e dell’intera tifoseria di Boston. Con una maglia dei bianco-verdi indosso. Uno splendido paradosso.
Si stava seguendo il classico canovaccio dei ritiri. Per quanto la presenza di Magic rappresentasse una straordinaria eccezione.
Tante occhiate, gesti di intesa, buffetti e pacche sulle spalle.
Si erano addentrati nella valle dei ricordi.
Dai tempi in NCAA ai titoli NBA vinti l’uno ai danni dell’altro. Dalla vittoria di Larry e dei C’s nell’84, con alcuni errori decisivi di Magic a gravare nella serie sui suoi Lakers; a quella dell’87, vinta da Los Angeles con il famoso “gancio cielo” di Johnson all’ultimo secondo in Gara 4: 107-106.
“Ti aspetti di perdere per un gancio cielo. Quello che non ti aspetti è che sia Magic a segnarlo. È un grande, grandissimo giocatore di pallacanestro. Il migliore che io abbia mai visto”. Sorride Magic, ripensando a quella conferenza stampa di Bird.
Nei primi tempi non si erano mai parlati, nemmeno per dirsi “Ciao”. Tutto era cambiato in occasione di uno spot per Converse. “Choose your weapon”. Si erano seduti ed avevano avuto la possibilità di avere una conversazione per la prima volta, scoprendo di essere molto simili. Al termine della loro chiacchierata avevano posto le basi per un’amicizia. Che sarebbe durata per sempre.
“Devo dirti grazie, Larry. Per avermi aiutato in tutto questo tempo a migliorare il mio gioco. Per avermi portato ad essere un giocatore di un livello tale che… non so se da solo sarei riuscito a raggiungere.
E sapete: sono stato ad Orlando recentemente, le persone impazziscono per Shaquille O’Neal. Lo stesso vale a Chicago per Michael Jordan, senza dubbio. Ma voi, signore e signori, non so se vi rendiate conto della fortuna che avete… voi avete Larry Bird.
E tu Larry… una volta mi hai detto che ci sarà un altro Larry Bird, un giorno. Hai detto una bugia, perchè non ci sarà mai, e poi mai, e poi mai un altro Larry Bird”.
Il sipario si cala. Sui loro occhi umidi a bagnare un lungo abbraccio.
“Pronto?”
“Sì. Sono Larry Bird.”
“Ah, Mr Bird. Cos…”
“No, taci per favore. Ti ho richiamato solo per dirti una cosa: non fare mai più una cosa del genere.”
“Ma Mr Bird, io n…”
Mise giù senza attendere una risposta. Pensando a quanto, di colpo, il suo cuore fosse divenuto leggero. E alle risate che si sarebbe fatto Magic, quando gli avrebbe raccontato di tutta questa faccenda.