Isiah Thomas vide il 18enne tenere testa alla stella dei Chicago Bulls. E da quel giorno, tutto ebbe inizio per Kevin Garnett.
Questo contenuto è tratto da un articolo di David Ritz per Andscape, tradotto in italiano da Emilio Trombini per Around the Game.
Sabato 15 maggio 2021, Kevin Garnett è entrato a far parte della Naismith Memorail Basketball Hall of Fame.
- Nella sua autobiografia, “KG: A to Z: An Uncensored Encyclopedia of Life, Basketball, and Everything in Beetween”, Kevin ripercorre quel momento, nel 1995, in cui si convinse di poter essere il primo giocatore dopo 20 anni ad andare direttamente dall’High School all’NBA.
Di seguito, l’estratto riportato da Andscape.
Quando ho visto i miei risultati ai test SAT e ACT per entrare al College, ero distrutto. Ce l’avevo messa tutta, ma non era comunque bastato per passare. Michigan non mi avrebbe preso. E nemmeno North Carolina.
Mi sono quindi affidato al mio coach dell’High School, William “Wolf” Nelson, per cambiare la mia attitudine. Wolf è sempre stato Mr. Positive. “Continua a studiare,” mi diceva. “L’anno prossimo ci riproverai e ce la farai.”
Ho sempre seguito i consigli di Mr. Wolf, ma non ero così sicuro che avrei passato il test. Ciò nonostante, ho ripreso in mano i libri. Ma ogni tanto si rifaceva sotto un po’ di pessimismo.
Il giorno stesso in cui uscirono i risultati, un mio amico mi fece un invito che solitamente non avrei rifiutato.
“Andiamo a far due tiri,” mi disse.
“Non oggi, bro”.
“K, ti conosco. Non devi pensarci più all’esame, oggi. Ti conosco bene. Dopo i primi tiri a canestro ti sentirai già meglio.”
A questo non sapevo come ribattere. Per cui sono uscito dal mio guscio e siamo andati a cercare una partitella. “La vera figata,” mi disse, “è andare agli allenamenti dei Bulls, e magari sperare di poter osservare MJ.”
Michael Jordan aveva lasciato il basket per andare a giocare a Baseball. Aveva lasciato per 21 mesi e tornò nel 1995 a giocare per i Bulls, un mese prima del McDonald’s All-American Game.
“Sai dove si allenano?” gli chiesi. Il mio amico mi sorrise. Sapeva sempre come e dove trovare chiunque. “Sì. Andiamo all’Hilton dove hanno una palestra molto figa.”
Riuscimmo ad entrare da una porta laterale, Mike Jordan era proprio lì. C’era anche Scottie Pippen. Li guardammo giocare un paio di amichevoli. Io li osservavo attentamente, li studiavo: ero concentrato più che mai.
Dopo un’ora, un uomo della sicurezza cominciò a gridarmi contro. Sbracciava verso di me.
“Hey tu!”, gridò.
“Io?”
“Sì, tu! Vieni qui.”
“Lanciami le scarpe”, dissi al mio amico. Mi allacciai le stringhe e corsi in campo.
Pippen mi disse: “sei troppo giovane per stare qui. Sei solo un ragazzino dell’High School”.
“Giochiamo”, disse Jordan. Dopodiché puntò il dito verso di me e disse, “tu marchi Pippen.”
Lì per lì pensai “sto giocando contro il mio idolo, contro uno giocatore NBA che arriva da una delle sue stagioni migliori.”
Subito Pippen chiamò la palla e fece un’esitazione, prima di sparare da tre. Ed io a pensare “ma è matto, come poteva segnare un tiro del genere?”
Quindi subentrarono i miei istinti naturali e cominciai a segnare, schiacciare e tirare. Poi ci fu uno scambio di parole tra me e Pippen, e la cosa mi infiammò ancora di più. “Me la sto giocando con uno dei più forti”, pensai. E con l’avanzare della partita, trovai sempre più fiducia.
Non avevo intenzione di indietreggiare neanche di un passo. Nessuno si prende gioco di me. Ero competitivo quanto loro.
Contro Pippen stavo dando tutto, marcandolo stretto. Gli stavo veramente addosso. Giocavo come se ogni momento della mia vita mi avesse condotto fin lì per un motivo. Scottie sarà anche Scottie, ma in quel momento era solo un giocatore che dovevo battere.
Riguardando indietro a quel giorno, mi chiedo ancora come sia successo. Per caso, l’uomo della security pensava di conquistarsi il favore di MJ e Pippen dando loro in pasto giovane carne fresca? Oppure la guardia per gentilezza mi stava regalando la chance di vivere un sogno? In entrambi i casi, ho solo una cosa da dire a quell’uomo. Grazie, davvero.
ISIAH
“Dopo, sentii la voce del Signore dirmi: ‘Chi devo mandare? E chi andrà per noi?’ Ed io risposi ‘Sono qui, manda me!’”
Questa è una citazione del libro di Isaia, il profeta, nella Bibbia.
La cosa che mi lascia più meravigliato è che quello stesso giorno in cui giocai contro Jordan e Pippen, incontrai un altro Isaiah, che profetizzò sulla mia vita. Un Isiah scritto in modo leggermente diverso.
Durante una pausa della partitella, infatti, ecco che spuntò pure Isiah “Zeke” Thomas, che aveva assistito a tutta la sfida. Come se non fosse stato già assurdo giocare contro due dei miei eroi, ecco anche Zeke. Ero veramente incredulo.
Dovete comprendere questo: per me, Isiah era il vero presidente di Chicago. Era un politico della strada. Amato da tutti. Zeke conosceva la sua città, e la sua storia.
Non è mai fuggito da niente o scomparso nel nulla. Il ragazzo è cresciuto dall’asfalto. Veniva dal West Side di Manhattan, ma non c’era posto in tutta Chicago in cui non potesse giocare a basket. Conosceva i bassifondi. Era rispettato da tutti. Sopravvivere a Chicago non è come sopravvivere in qualsiasi altro posto. E quando ce la fai e riesci ad eccellere nel modo in cui l’ha fatto Zeke, non vai in giro per raccontarlo. Tieni quella consapevolezza per te. O, se la condividi, lo fai solo con i fratelli che vengono come te da Chicago.
Zeke è venuto prima di me e ovviamente conosceva storie che non avevo mai sentito. Storie di sobborghi di Chicago. Di come alcuni fratelli ce l’abbiano fatta ed altri no. Zeke aveva sempre qualche chicca, potevamo chiacchierare per ore.
Un altro fatto particolare: quando lo vidi quel giorno in palestra nel 1995, si era appena ritirato. Un anno prima si era rotto il tendine d’Achille, e quella fu la fine della sua carriera da giocatore. Aveva 34 anni. Io ne avevo 18.
Non gli ho mai chiesto perché fosse lì quel giorno. Né lui mi chiese lo stesso. Eravamo lì e basta. Una di quelle coincidenze cosmiche.
Si avvicinò a me e mi disse qualcosa. Non c’era un accenno di entusiasmo nella sua voce. Era solo una constatazione. “Kevin”, mi disse, “hai appena affrontato Scottie Pippen. Scottie è il miglior giocatore della Lega. Ragazzo, potresti veramente giocare in NBA in questo momento.”
Quando quelle parole uscirono dalla sua bocca, il mondo smise di girare. Il tempo di scorrere. Ma forse avevo capito male. “Cos’hai detto?”, chiesi.
“Ragazzo”, ripetè, questa volta con gli occhi più grandi e coinvolti: “potresti giocare nella Lega anche ora.”
Forse, se fosse stato qualcun altro a dire quelle parole, non avrebbero avuto quel significato per me. Ma venendo pronunciate da Zeke, quelle parole presero la forma non solo di una profezia, ma anche di una benedizione.
“Beh, cosa ne pensi?”, mi chiese. “Sei pronto ad entrare nella Lega?”
Tutto nella mia testa, nel mio corpo e nel mio cuore diceva “Sì”. E dopo quei sì entusiasti… arrivarono i no.
No, non dovevo più fregarmene degli ACT e dei SAT. Quella roba mi stava facendo impazzire. Inoltre, non andare al College non avrebbe fermato la mia educazione. Sono una persona curiosa, sarò sempre pronto ad imparare, ad istruirmi. Il College non è l’unico posto dove si imparano le cose. Per una persona con la mentalità aperta, la conoscenza può arrivare da dovunque.
No. Non dovevo più seguire un modello di vent’anni fa.
No. Non ero più obbligato a conformarmi a un modo di pensare ormai vecchio, e che trovavo non avesse senso.
No. Non dovevo più aspettare. Potevo correre ora da Wolf e dirgli di annullare tutto riguardo il College. Wolf era inizialmente un po’ scettico. “Sei sicuro?” – mi chiese. “E North Carolina? E Michigan? Che fine ha fatto il tuo sogno di giocare al College?”
Wolf aveva ragione. Quello era il mio sogno fin da quando facevo le partitelle nel vialetto di Billy a Mauldin, SC, quando fingevo di essere C-Webb e lui Laettner. “I sogni cambiano”, dissi a Wolf. “Questo nuovo obbiettivo può diventare il mio nuovo sogno, adesso.”
Wolf era un chiacchierone, ma era anche riflessivo. Notavo come prestava attenzione ad ogni cosa che gli stavo dicendo. Quasi mi sembrava di sentire quello che pensava. E poi fece un sorriso, e quel sorriso diceva tutto. “Bene”, disse, “forse non hai tutti i torti.”
Sorrisi anch’io. Wolf si sta abituando in fretta.
ISOLAMENTO
Mentre cercavo di decidere se saltare il College e candidarmi all’NBA Draft, sentì un forte senso di isolamento.
Il basket è pieno di termini che descrivono bene la condizione umana: “rimbalzo”, “assist”, “guardia”, “possesso”, “transizione”, “trappola”. Questi termini sono parte di ciò che rende il gioco una grande metafora della vita.
In termini cestistici, “isolamento” succede quando hai la palla in mano e il resto della squadra si toglie di mezzo per permetterti di attaccare il tuo uomo uno contro uno. È visto in termini eroici. Ricorda un po’ l’immaginario del cowboy americano. È come se fosse un duello con le pistole: due uomini che si affrontano in una strada polverosa, con gli arbusti che rotolano, e solo uno dei due che ne esce vivo.
Non mi è mai piaciuta molto quest’idea di isolamento. La vedevo più come un gesto egoista, che eroico. Io preferivo fare affidamento sui miei compagni di squadra. E così pure nella mia vita quotidiana: non mi piace stare isolato. Mi piace circondarmi di gente. Mi piace affidarmi a loro per un consiglio. Ma di chi potevo fidarmi, per quella che stava per diventare la più grossa decisione della mia vita?
Prima di parlare con qualcuno, ho fatto delle ricerche serie. Alla fine degli anni ’60, Spencer Haywood ha combattuto contro il divieto di entrare in NBA prima di entrare al College. Si arrivò fino in Corte Suprema, dove vinse Haywood.
Poi, nel 1974, Moses Malone saltò direttamente dal liceo alla American Basketball Association. Un anno dopo, nel 1975, Darryl “Chocolate Thunder” Dawkins e Bill Willoughby seguirono l’esempio, passando dal liceo diretti in NBA. E poi basta per due decenni. Nessuno ci riprovò più.
Ho fatto le mie ricerche. Ho letto tutto su Spencer, Darryl e Bill. Sono andato in biblioteca, ho lavorato alla macchina dei microfilm e ho studiato le vecchie storie dalle riviste. Ho letto lunghe interviste su di loro. Volevo cercare di capire davvero come questa loro decisione abbia inciso sulle loro carriere.
La cosa che però di più mi ha convinto, è stato incontrare di persona Bill Willoughby.
Prima di rintracciare il suo numero di telefono, ho rivisto la sua storia. Willoughby non ha mai fatto registrare statistiche come Dawkins, e non aveva il talento (e la parlantina) di Chocolate Thunder. Ma Bill Willoughby non era una riserva, nonostante quanto dicessero alcune persone. La gente lo prendeva come esempio del perché non si dovrebbe tentare l’NBA arrivando diretti dall’High School. Dicevano che se fosse andato al College – e se avesse avuto più grinta – avrebbe avuto più successo.
Ma questa gente aveva una certa inclinazione razzista, per pensare che una persona di colore non potesse farlo. E se fosse stato un ragazzo bianco a saltare il College? E se fosse stato Larry Bird? Se avesse scavalcato Indiana State e si fosse fatto pagare? Non credo avrebbero detto la stessa cosa. Anzi, lo avrebbero lodato per aver preso una decisione controcorrente.
Vero, Bill Willoughby non ha mai avuto una media di più di 7 punti a partita, ma ha giocato 8 stagioni – e non rimani tutti quegli anni nella Lega, se non sei a un certo livello. I nerd del basket come me sanno che è uno dei pochi giocatori ad aver stoppato un gancio-cielo di Kareem. Bill era 203 cm, Kareem 218 cm.
Così, mi decisi a chiamare Bill Willoughby. Aveva 38 anni e viveva a Teaneck, New Jersey. All’epoca pensavo che a 38 anni si fosse già vecchi. Ora mi rendo conto di quando sia ancora giovane.
Bill mi parlava come fossi suo figlio. Non avrebbe potuto essere più paziente e premuroso. Mi guardava le spalle. Non ha tentato di dissuadermi, ma voleva che sapessi che non sarebbe stato facile.
“Quando entri nella Lega,” disse, “tutto cambia. Quando la gente ti guarda negli occhi, vede il simbolo del dollaro. Nessuno va in giro a chiedere come ti senti o come stai andando. Si tratta solo di quanti punti riesci a segnare. E se riesci a far vendere più biglietti per la partita.”
“Per chi ha solo 18 anni, non è facile, Kevin. E’ dura. Ci si sente soli. Non hai una moglie. Non avrai la tua famiglia. Non avrai grande minutaggio. Devi essere molto forte”.
“Io sono forte”, gli ho detto. “Allora fallo”, rispose lui.
Mi fece notare anche che, oltre alle sfide emotive, c’erano quelle atletiche. Io non ero così forte o così veloce; avevo l’altezza di un centro, ma avrei giocato nella posizione di Scottie Pippen, da ala. Scottie è attaccante tenace, avrei dovuto diventarlo anch’io. Tirar fuori la mia anima da guardia, affrontare il canestro. Mi sarei trovato contro giocatori molto intelligenti, bravi a giocare con e senza palla, in uscita dai blocchi. Avrei dovuto affrontare tutto questo.
Il mio anno trascorso a Chicago mi aveva insegnato ad essere duro. Mi aveva fatto incontrare letteralmente centinaia di giocatori diversi, in strada. Ringrazio ancora per il mio anno a Chicago. Ma l’NBA era tutto un altro mondo.
Entrare in quel mondo e, come molti dicevano, entrarci “prematuramente” poteva essere il più grande rischio della mia vita.