Prima di Petrovic e prima di Nowitzki, riviviamo la storia di alcuni giocatori europei che hanno avuto successo nella NBA vincendo lo scetticismo dei loro tempi.

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“The 2019 KIA NBA Most Valuable Player goes to… Giannis Antetokoumpo”.

Con queste parole il Commissioner Adam Silver ha proclamato l’ala dei Milwaukee Bucks come miglior giocatore della stagione 2018-19.


Il nativo di Atene ha bissato il titolo di MVP anche nell’annata successiva, proclamandosi come uno dei giocatori maggiormente dominanti della NBA attuale.

Di fatto è il secondo europeo della storia a ricevere tale onorificenza, ma non desta ormai alcuna attenzione che il trofeo di MVP vada in mano a un non statunitense. Ormai gli internationals players, in particolare gli europei, costituiscono un’importante fetta del parco giocatori messo in campo dalle varie franchigie.

È impressionante vedere come la NBA abbia seguito pedissequamente la via per diventare sempre più una Lega internazionale e in questo senso l’Europa ha giocato un ruolo fondamentale, spedendo i propri migliori talenti dall’altra parte dell’oceano.

Un percorso però complesso, che si è delineato negli anni, che ha dovuto innanzitutto abbattere la barriera dei pregiudizi fisico/tecnici nei confronti degli atleti del vecchio continente.

Negli anni ’80 non esistevano YouTube, social networks o altre forme di comunicazione immediata, perciò trovare ragazzi futuribili fuori dai confini USA era dura per gli scout NBA.

Inoltre gli americani, da inventori del gioco, si consideravano nettamente superiori rispetto a qualunque altra nazione del pianeta.

Salvo qualche rara comparsata, gli european players non erano ritenuti idonei ai parquet della Lega.

Tutto fino all’arrivo di un giocatore, che ha di fatto segnato l’anno zero per gli europei nella NBA e che ha inculcato nel basket USA che il vecchio continente potesse sfornare anche atleti in grado di ricoprire un ruolo da protagonista tra i pro americani: Drazen Petrovic.

La storia del nativo di Sebenico è nota. Dopo molta panchina a Portland finalmente trova il proprio spazio ai Nets, fino a diventare la guardia titolare di New Jersey viaggiando per due stagioni consecutive oltre i 20 punti di media. Fino alla tragica morte trovata, il 7 giugno 1993, a Denkendorf su una statale tedesca.

Il suo mito ha contribuito in maniera decisiva a radere al suolo l’atavico scetticismo nei confronti dei giocatori europei ed è innegabile che dopo l’avvento di Petrovic, molti abbiano trovato numerose porte aperte per poter provare a vivere il sogno d’oltreoceano.

Nonostante questo, prima del n. 3 dei Nets, ci sono comunque stati rari casi di giocatori che siano riusciti ad abbattere la barriera NBA e a trovare il proprio ruolo all’interno della Lega.

Vogliamo raccontarvi le loro storie.

Sarunas Marciulonis

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FOTO: nba.com

Nasce a Kaunas il 13/06/1964 e, anche se agli atti la nazione natia è l’Unione Sovietica, è sicuramente un figlio della Lituania. Da quelle parti, quando ti passa tra le mani una palla, finisci per tirarla in un canestro e infatti il piccolo Sarunas inizia a giocare… a tennis.

Poco avvezzo alla dottrina del gioco, rifiuta categoricamente di applicarsi nel rovescio, diventando ambidestro e passandosi la racchetta da una mano all’altra per rispondere sempre col diritto.

Intorno ai dieci anni i genitori prendono una posizione netta: ”troppo poco contatto fisico per te” e la palla a spicchi diventa la scelta naturale.

Dopo le prime esperienze sui playground, si trasferisce a Vilnius per studiare giornalismo e viene reclutato dalla BC Statyba, oggi conosciuta come Lietuvos Rytas.

Play-guardia mancina di 1.96 mt, si fa notare anche nelle nazionali giovanili dell’Unione Sovietica, senza però venir mai preso in considerazione per la Nazionale maggiore.

Durante questi anni Donnie, figlio del coach degli Warriors Don Nelson, si trova in Europa per giocare con Athletes in Action, sorta di squadra amatoriale cristiana che gira il mondo.

Giocano anche contro la nazionale giovanile sovietica e Donnie ha un primo contatto col talento di Sarunas.

Dopo il match le due squadre vanno a cena insieme e tra i due nasce un legame, nonostante nessuno dei due parli un solo fonema della lingua dell’altro.

Sarunas vive in piena Cortina di Ferro, non ha praticamente idea del mondo al di fuori dei propri confini.

Nel 1987 riesce finalmente a entrare a far parte della Nazionale maggiore e con una grande performace contribuisce a portare la URSS al titolo europeo.

La stessa nazionale, pochi mesi dopo, vola negli USA per giocare una serie di partite di esibizione e, proprio a San Francisco, Marciulonis incontra nuovamente il giovane Nelson.

È lì che i due iniziano a parlare seriamente dell’approdo del giocatore nella NBA.

I Warriors lo scelgono al 6° round del Draft NBA del 1987.

La Lega tuttavia invalida la scelta, perché all’epoca il nativo di Kaunas ha 23 anni e per il regolamento della Lega, dopo i 22 anni un europeo è considerato free agent.

Golden State si fa subito sotto per firmarlo, ma il governo sovietico spinge affinché il giocatore firmi con gli Hawks, visti i buoni rapporti con l’owner di Atlanta, Ted Turner.

Marciulonis tuttavia rimane fedele all’amicizia maturata con Donnie e sigla un triennale da quasi 4 milioni di Dollari (si dice che tre quarti dello stipendio finiscano all’Unione Sovietica per “liberarlo”).

Nel frattempo lui e Sabonis guidano la nazionale URSS alla medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seul del 1988, sconfiggendo Team USA in semifinale e ponendo di fatto le fondamenta per la nascita del “Dream Team”, che esordirà quattro anni dopo.

La vita in USA per Sarunas e la moglie è stravolgente, vista la tanta libertà concessa rispetto alla Cortina di Ferro.

In campo il giocatore non parla una sola parola di inglese, ma riesce a farsi capire col linguaggio del gioco.

È duro, fisico e sa giocare terribilmente bene a pallacanestro.

Coach Nelson lo tratta e lo aggredisce come un rookie, ma il neo Warriors continua per la sua strada e si ritaglia il proprio ruolo all’interno della squadra.

Il suo minutaggio cresce negli anni e i suoi punti sfiorano i 19 a sera nella terza stagione nella Lega: diventa un giocatore affermato e temuto.

Con la caduta dell’Unione Sovietica e la proclamazione dell’indipendenza della Lituania, Marciulonis decide di portare la propria nazione alle future Olimpiadi di Barcelona.

Si dedica anima e corpo organizzando tutto, dalla convocazione dei giocatori alle divise, a trovare i soldi per organizzare la spedizione.

Non solo la nazionale va ai Giochi, ma conquista anche il bronzo, battendo proprio la ex URSS nella sfida per la medaglia.

Terza piazza replicata quattro anni dopo ad Atlanta.

In NBA la carriera del giocatore subisce un brutto colpo, con un infortunio nella stagione 1992-93, ma resta nella Lega per altri 3 anni, vestendo anche le casacche di Sonics, Kings e Nuggets.

Si ritira all’età di 33 anni, dopo una straordinaria carriera e aver dimostrato che gli europei possono giocare nella NBA.

Nel 2014 entra nella Hall of Fame della NBA, a presentarlo il suo ex compagno ai Warriors, Chris Mullin che di lui ha detto “prima che arrivasse nella Lega gli scout lo classificavano come il classico tiratore europeo, poi è venuto da noi e si è dimostrato duro, fisico più di qualunque altra guardia nella NBA”.

Detlef Schrempf

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FOTO: sportingnews.com

Prima dell’avvento di Petrovic era pressoché arduo per un europeo vestire una canotta NBA.

La chiave per aprire la porta del mondo a stelle e strisce la trova Detlef Schrempf, che decide di costruirsi come giocatore di basket direttamente negli Stati Uniti.

Figlio della Germania Ovest, nasce a Leverkusen il 21/01/1963 e gioca nella squadra giovanile del Bayer Leverkusen.

Si trasferisce in USA nel 1980, dove gioca il solo anno da senior per la Centralia High School, nello stato di Washington.

Non si muove dal nord ovest per frequentare il college, dove gioca per la University of Washington.

Rimane con gli Huskies per quattro stagioni, dove vince la PAC-10 nel 1984 e 1985 e raggiunge le Sweet 16 del torneo NCAA nel 1984.

Nella stagione da senior mette insieme 15.8 punti e 8.0 rimbalzi.

È un giocatore intrigante, perché ha i centimetri (208) per agire da ala grande e la rapidità e il talento per essere schierato da small forward.

Le origini teutoniche non sono più un tabù perché ormai è stato cestisticamente sdoganato in USA.

Al Draft del 1985 i Dallas Mavericks lo chiamano con la ottava scelta assoluta.

L’esordio nella Lega non è di quelli sperati.

Riesce a racimolare manciate di minuti sul parquet, ma di fatto è piuttosto indietro nelle rotazioni perché coach Dick Motta preferisce affidarsi ai veterani piuttosto che al rookie tedesco.

Davanti a Detlef ci sono nomi altisonanti come Derek Harper, Rolando Blackman, Mark Aguirre, Roy Tarpley, Sam Perkins.

Le cose non cambiano molto fino alla stagione 1988-89, quando viene ceduto agli Indiana Pacers.

Ad Indianapolis la vita sportiva del nativo di Leverkusen cambia radicalmente.

Entra a far parte costantemente della rotazione, parte comunque dalla panchina, ma le sue prestazioni diventano fondamentali per la squadra.

I Pacers sono in mano a Reggie Miller, che condivide le responsabilità offensive con “The Rifleman”, Chuck Person.

Come sesto uomo Detlef fornisce i suoi punti e i suoi rimbalzi, oltre che la sua preziosa conoscenza del gioco ed è quasi sempre in campo sul finale di partita, dato che gioca ben oltre 30 minuti a sera.

Migliora così tanto da sfiorare la doppia doppia di media e la NBA non può non accorgersi delle qualità di questo giocatore.

Vince quindi il trofeo di Sixth Man of the Year per due stagioni consecutive (1991 e 1992).

Proprio nel 1992 partecipa con la sua Germania alle Olimpiadi per la seconda volta (dopo quelle di Los Angeles 1984), classificandosi in settima posizione.

Nella sua carriera con la maglia della propria nazione, anche due partecipazioni ai Campionati Europei.

Nell’estate del 1993, pochi mesi dopo la partecipazione al suo primo All-Star Game, prepara di nuovo le valigie. Questa volta si torna a casa, perché il suo volo atterra a Seattle.

I Sonics sono una squadra di talento, la stagione precedente si sono arresi ai Suns solo in Gara 7 nella Finale della Western Conference.

Con Schrempf nel motore, come ala piccola titolare, adesso la squadra domina a ovest.

Con lui, Gary Payton e Shawn Kemp i Sonics sono un rullo compressore che conquista la prima posizione nel tabellone dei Playoffs 1994.

Gli avversari del primo turno, i Nuggets, sono protagonisti di un incredibile upset e Seattle viene eliminata per 3-2.

È solo questione di tempo, perché dopo due stagioni i Sonics raggiungono le Finals.

Detlef viene dalla miglior stagione in carriera, dove ha sfiorato i 20 punti a sera.

Purtroppo per i ragazzi di coach Karl, gli avversari di turno, i Bulls, vincono serie e anello e Seattle non avrà altre chances in futuro.

Per Schrempf altre tre stagioni in maglia verde fino a un farewell tour di due stagioni vissuto a Portland.

Nel 2001, dopo ben 16 stagioni NBA, il nativo di Leverkusen dice addio al basket giocato.

La sua vita, il suo percorso cestistico, quello che lo ha portato nella Lega, è concentrato tutto negli USA ed è qui che Detlef è rimasto anche dopo aver appeso le scarpe al chiodo.

Tony Kukoc

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FOTO: cbslocal.com

È vero. Kukoc ha giocato in NBA a partire dalla stagione 1993-94, quindi la prima senza Petrovic.

Si potrebbe quindi pensare che Toni sia volato negli Stati Uniti grazie alle barriere abbattute da Drazen, ma la storia del mancino di Spalato ci dice altro.

Nato il 18/09/1968, trova nel calcio il primo amore, ma una corporatura piuttosto esile e un altezza già di 1.90 mt a soli 13 anni lo fanno virare verso altri lidi.

A 15 anni viene notato da Igor Karkovic, scout della Jugoplastika Spalato, e da quel momento Toni non si è più fermato, esordendo in prima squadra già a 16 anni.

Bormio, 1 agosto 1987. È qui che Kukoc si rivela definitivamente al basket planetario.

Siamo al Campionato del Mondo Under 19 e sul campo si affrontano USA e Jugoslavia: un concentrato di talenti e futuri campioni, tra cui Larry Johnson, Gary Payton, Sasha Djordjevic, Vlade Divac, Dino Radja e… Toni.

Alla fine per lui 37 punti, show di pallacanestro e americani annichiliti.

La Yugoslavia vince il titolo imbattuta e Kukoc continua a dominare.

Vince con la Jugoplastika quattro campionati nazionali e tre Coppe dei Campioni (l’allora Euroleague) consecutive.

È dopo questa grande sfilza di successi che la NBA decide di farsi avanti. Jerry Krause, General Manager dei Chicago Bulls, è stregato da questo 2.08 mancino che sa tirare ma anche dar via la palla divinamente.

Sogna di vederlo in campo con Jordan e Pippen e lo sceglie con la chiamata n. 29 del Draft 1990.

I Bulls lo vorrebbero già oltre oceano ma Toni decide di restare ancora tre anni in Europa, di cui due a Treviso, dove vince due Coppe Italia.

Nel frattempo la guerra in Yugoslavia porta alla proclamazione di indipendenza della Croazia e la nuova nazionale con Kukoc, Petrovic, Radja, Vrankovic, Komazec partecipa alle Olimpiadi di Barcelona 1992.

In quell’occasione Toni si scontra con il furente agonismo difensivo di Jordan e Pippen, Nella sfida contro il Dream Team la Croazia subisce una pesante sconfitta e il n. 7 viene punito dai futuri compagni che vogliono stemperare le lodi altisonanti sul futuro Bulls.

Nonostante il trattamento di benvenuto Kukoc vola a Chicago per l’inizio della stagione 1993-94.

Orfana di His Airness, appena ritirato, la squadra dell’Illinois cerca un nuovo equilibrio e il rookie croato è bravo a sfruttare l’occasione.

Durante le prime due stagioni migliora in maniera vertiginosa, mettendo su anche qualche chilo di muscoli.

Si rivela protagonista di un paio di buzzer beater, compreso quello del famoso rifiuto di Scottie Pippen in Gara 3 contro i Knicks dei Playoffs del 1994.

Torna Jordan, arriva Rodman e i Bulls diventano semplicemente una delle migliori squadre di sempre.

Il n. 7 è sesto uomo di lusso di un gruppo che macina vittorie su vittorie. Vince il titolo di Sixth Man of the Year nel 1996.

Uscendo dalla panchina porta punti, assist, Q.I. cestistico, sguazza nella Triple Post Offense di coach Jackson come se non avesse fatto altro nella sua vita.

Arrivano tre Titoli NBA, tanto per aggiungere altri trofei nella già vasta bacheca di casa Kukoc.

Krause decide che è arrivata l’ora di rifondare il roster e nel 1999 smantella la squadra imbattibile.

Toni rimane a Chicago un’altra stagione, ma a metà dell’annata 1999-2000 vola a Philadelphia, dove tuttavia rimane alla corte di Allen Iverson per poco più di una stagione.

Dopo due anni ad Atlanta, nel 2002 si accasa a Milwaukee, dove resta per quattro stagioni in lento declino, fino ad appendere le scarpe al chiodo nel 2006, a 37 anni.

Soprannominato “l’airone di Spalato”, “il cameriere” o “the croatian sensation” è stato indubbiamente uno dei giocatori europei più forti ad aver vestito una casacca NBA.

Vlade Divac

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FOTO: nba.com

Nasce il 03/02/1968 a Prijepolje, città serba al confine con il Montenegro.

Gioca a basket nella squadra della sua città, passando poi al KK Sloga e infine, a soli 18 anni al Partizan Belgrado.

Qui entra a far parte di una squadra dal talento infinito, insieme a gente come Sasha Djordjevic, Zarko Paspalj, Zeliko Obradovic.

Un team che sembra imbattibile ma che in Jugoslavia e in Europa viene frenato dallo strapotere della Jugopalstika Spalato.

Il talento di Vlade è cristallino e viene notato anche oltre oceano. Stiamo parlando di un 2.16 che si muove con grande agilità, sa segnare anche dalla media e ha eccellenti doti di passatore.

Nonostante lo scetticismo nei confronti degli europei, i Los Angeles Lakers lo chiamano al primo giro del Draft 1989 con la scelta n. 26.

Giocherellone, guascone, nonostante non parli una parola di inglese Divac si lancia nella sua avventura californiana con entusiasmo e viene subito amato da tutti.

A L.A. lo attende un grande mentore: Kareem Abdul Jabbar, appena ritirato, lo prende sotto la propria ala protettiva e il giovane Vlade ripaga imparando in fretta.

Già nella prima stagione gioca 19.6 minuti e si integra perfettamente nel gioco e col leader Magic Johnson.

Durante le sfide con Portland incontra il suo grande amico Petrovic.

Con lui, nell’estate del 1990 porta la Jugoslavia sul trono mondiale, ma durante i festeggiamenti avviene il famoso sgarbo della bandiera che incrina il rapporto con Drazen.

Tornato a Los Angeles dimostra di essere ormai perfetto per il sistema Lakers.

Va sempre in doppia cifra per punti segnati ma le sue abilità nel dar via la palla gli permettono di agire da playmaker aggiunto.

Resta in giallo-viola fino al 1996 poi, il giorno del Draft, Jerry West decide di cederlo a Charlotte in cambio dei diritti di un ragazzino appena scelto direttamente dalla high school: Kobe Bryant.

Vlade non è felice della nuova destinazione.

Gioca due stagioni agli Hornets, ma appena il suo contratto scade decide di cambiare aria.

Torna quindi in California, ma stavolta non a L.A., bensì nella capitale.

Firma infatti per i Sacramento Kings.

Trova una squadra di talento, con Chris Webber come stella o con la folle genialità del rookie Jason Williams. Inoltre Vlade si trova a fare da mentore al connazionale Pedrag Stojakovic, appena entrato nelle Lega.

Su queste basi si può costruire qualcosa di solido.

Negli anni arrivano Doug Christie, Bobby Jackson, Hedo Turkoglu.

In regia Williams viene scambiato per Mike Bibby.

In poco tempo i Kings diventano la squadra più eccitante e divertente di tutta la NBA.

Talento offensivo e grandi capacità di passaggio caratterizzano tutta la squadra.

Sacramento non riesce ad arrivare tuttavia al Titolo, sempre bloccata dai Lakers con cui nasce una cruenta rivalità che caratterizza i primi anni 2000.

Divac a Sacramento offre sempre grande basket e viene anche convocato per far parte della selezione dell’Ovest per l’All Star Game 2001.

Diventato freeagent nell’estate del 2004, torna ai Lakers per un ultimo anno, dove, martoriato dagli infortuni, gioca poco.

Si ritira all’età di 37 anni.

Dopo il ritiro ricopre vari ruoli dirigenziali in varie squadre, senza lasciare il segno.

Più memorabile certamente la carriera da giocatore, il primo non americano a prendere parte a più di mille partite nella NBA, uno dei soli sette giocatori a collezionare più di 13.000 punti, 9.000 rimbalzi, 3.000 assist e 1.500 stoppate.