Prima di Petrovic e prima di Nowitzki, riviviamo la storia di alcuni giocatori europei che hanno avuto successo nella NBA vincendo lo scetticismo dei loro tempi.
Dopo Drazen Petrovic, i giocatori europei sono stati visti non più come delle entità appartenenti a un altro mondo, ma come preziose risorse per poter rimpinguare i roster NBA.
Sotto alcuni aspetti, un giocatore del vecchio continente, veniva inquadrato come un rookie maggiormente preparato al gioco NBA rispetto ai “novellini” provenienti dal college basket.
Questo perché il modello di basket europeo prevede che un giovane talento abbia la possibilità di allenarsi e giocare con atleti professionisti di maggiore esperienza.
Il processo di apprendimento rende il giocatore consapevole di cosa sia il basket senior già dalla giovane età.
Nel modello statunitense invece, il basket NCAA è totalmente distaccato da quello NBA, portando i giocatori a confrontarsi solo coi propri coetanei.
L’altro lato della medaglia vede tuttavia delle qualità fisiche, un approccio atletico al gioco molto più marcato nel basket a stelle e strisce che spesso rappresenta un punto di impatto per gli europei approdati nella Lega negli anni ’90.
Nessuno nella NBA pensa che un giocatore del vecchio continente possa prendere in mano una franchigia e guidarla addirittura al Titolo.
È tuttavia quello che succede con Dirk Nowitzki, arrivato a Dallas nel 1998, che scala nel tempo i gradini della Lega fino a diventarne MVP (2007) e guidare i Mavs al titolo (2011).
Della sua storia abbiamo parlato qui.
Dopo di lui, il basket USA capisce che ormai l’Oceano Atlantico non è più così vasto e che l’Europa è una fucina di talenti da cui attingere, esattamente come gli Stati Uniti.
Prima che il tedesco di Wurzburg raggiungesse l’apice della carriera, ci sono stati comunque altri europei che sono riusciti a dominare nella Lega.
Vi raccontiamo la loro storia.
Arvydas Sabonis
FOTO: nba.com
Chiariamo subito le cose. Il talento sconfinato di Arvydas viene notato dalla NBA fin dalla giovane età.
Non occorre nessun “effetto Petrovic” per sdoganarlo in USA, basti pensare che LSU fa una pressante campagna (con esito negativo) col governo sovietico nel tentativo di portarlo in Louisiana per l’ultimo anno di college.
Il fatto tuttavia che i Blazers anni dopo abbiano avuto la convinzione di firmare un rookie di 31 anni, molto acciaccato, è sicuramente figlio della visione dell’Europa cestistica post Drazen.
Sabonis nasce a Kaunas, il 19/12/1964 e inizia a giocare a basket all’età di 13 anni; dopo solo 24 mesi fa già parte della nazionale giovanile dell’URSS.
La sua carriera da professionista inizia tra le file dello Zalgiris che, a soli 21 anni, trascina al titolo della Lega Sovietica nel 1985, replicando il successo nelle due stagioni successive.
Un suo viaggio in USA nel 1982 con la Nazionale sovietica per un tour contro squadre di college, lo aveva reso famoso oltre oceano.
Viene quindi chiamato dagli Atlanta Hawks al Draft del 1985, ma la call viene dichiarata illegale dalla Lega perché all’epoca Sabonis non ha compiuto ancora 21 anni.
Hanno maggior successo i Portland Trail Blazers, che l’anno successivo se ne assicurano i diritti.
Arvidas intanto continua a giocare senza sosta in patria, dividendosi tra Zalgiris e Nazionale.
Non trova mai il tempo di recuperare tra una competizione e l’altra e nella primavera del 1986 il suo fisico presenta il conto: lacerazione del tendine d’Achille.
Anche se viene operato due volte e seguito da Portland nella riabilitazione, non si consuma ancora il matrimonio tra il “Principe del Baltico” e i Blazers.
L’Unione Sovietica vuole mantenere il suo stato di non professionista per schierarlo in campo alle Olimpiadi di Seul del 1988.
Inutile dire che questo accelerare i tempi di recupero dall’infortunio gli condizionerà la carriera.
Partecipa su un piede solo ai Giochi e semplicemente domina.
In semifinale annichilisce gli USA, spadroneggiando contro David Robinson e di fatto chiudendo per sempre l’esperienza dei collegiali come rappresentanti della nazionale a stelle e strisce.
La URSS vince l’oro ma Sabonis non è ancora disposto a varcare l’oceano.
Non si sente pronto fisicamente e teme di dover stare molto a guardare dalla panchina.
Sfruttando l’inizio dello smantellamento della Cortina di Ferro, nel 1989 lascia il suo paese e vola in Spagna, firmando col Valladolid dove rimane per tre stagioni.
Nell’estate del 1992 partecipa alla prima storica Olimpiade della Lituania, da poco dichiaratosi indipendente, dove vince il bronzo proprio contro quello che rimane della ormai defunta Unione Sovietica.
Firma quindi col Real Madrid e coi blancos mette in bacheca due Liga ACB e un’Eurolega (1995).
Ha ormai 31 anni e un fisico martoriato, ma resta sempre un 2.21 mt con mani sartoriali, con raggio infinito di tiro e una capacità di passare la palla straordinaria.
Vari europei sono ormai andati nella NBA e Portland vuole ancora assicurarsi i suoi servigi, è arrivato il momento.
I Blazers lo sottopongono ad attenti controlli clinici e le parole del medico sono “Basandosi sui raggi X, Arvydas potrebbe ottenere il permesso di parcheggio per disabili”.
Nonostante questo la franchigia dell’Oregon decide di metterlo sotto contratto, innamorata delle sue qualità tecniche.
È un successo immediato.
La prima stagione la vive partendo dalla panchina ma nei Playoffs conquista lo starting five regalando 23.6 punti e 10.2 rimbalzi.
Da quel momento non abbandona mai lo spot di centro titolare e regala sempre una doppia cifra di media in punti.
Portland riesce a costruire ottime squadre e arriva a un passo dalla Finale, sconfitta dai Lakers nella storica Gara 7 delle Western Conference Finals del 2000.
Arvidas in attacco è fermo, ma ha stazza, capisce il Gioco come pochi e con la palla sa sempre cosa fare, non è un caso che sia riuscito a produrre anche una stagione in doppia doppia da 16.0 punti e 10.0 rimbalzi.
Nell’estate del 2001 decide di appendere le scarpe al chiodo, salvo ripensarci la stagione dopo e tornare a Portland.
Gioca poco e il fisico ormai non regge più.
Saluta la NBA e torna a casa, firmando per lo Zalgiris per la stagione 2003-04.
Con un colpo di coda, conduce la squadra alle Top 16 di Eurolega e viene nominato MVP.
Dilaniato mentalmente e fisicamente stavolta dice addio sul serio al parquet.
Rimane ovviamente nel mondo del basket, diventando presidente della Federazione Lituana.
Sul campo ha spiegato pallacanestro ovunque abbia giocato, resta solo l’atroce dubbio di cosa avrebbe potuto fare nella Lega con un fisico integro e qualche anno in meno.
Predrag Stojakovic
FOTO: nba.com
Nasce il 09/06/1977 a Pozega, nell’entroterra croato, da una progenie di etnia serba.
Allo scoppiare della guerra, la famiglia Stojakovic si trasferisce a Belgrado e qui, il giovane Predrag, inizia a giocare nelle giovanili della Stella Rossa.
Nonostante la giovane età, il suo talento riesce subito a emergere.
Già a 15 anni esordisce con la prima squadra, giocando nel campionato di Serbia e Montenegro.
Il procrastinare del conflitto bellico porta la famiglia a lasciare il paese nel 1993 ed a trasferirsi in Grecia, a Salonicco.
La nazione ellenica fungerà da vero salvavita per Stojakovic.
Intanto perché, come detto, gli permette di allontanarsi dalle battaglie in atto nella ormai ex Jugoslavia.
In secondo luogo perché è qui che la carriera cestistica del giovane prende il volo.
Dopo un provino fatto col PAOK, i dirigenti capiscono di avere davanti un talento irrinunciabile.
Peja ottiene la cittadinanza greca, prendendo il nome di Predrag Kinis.
Diventa da subito un giocatore decisivo per la squadra, portandola alla vittoria della Coppa di Grecia nel 1995.
In campo internazionale, il PAOK arriva fino alla finale della Saporta Cup, persa purtroppo contro Vitoria. Nonostante la sconfitta, il 18enne di Pozega segna ben 20 punti e chiarisce all’Europa e al mondo cestistico che una stella è nata.
Sono numerosi gli scout NBA interessati a questo ragazzo di 2.06 mt dotato di straordinaria intelligenza per il gioco e di un micidiale tiro dalla lunga distanza, con un rilascio morbido ma rapido.
Durante uno dei Draft più ricchi di talento di sempre, quello del 1996, il Commissioner David Stern pronuncia anche il suo nome.
A effettuare la chiamata sono i Sacramento Kings, il cui GM Geoff Petrie, vede nel giovane serbo un talento cristallino che vale sicuramente la 14° scelta assoluta.
Vicissitudini legate al contratto firmato in età adolescenziale col PAOK gli impediscono di lasciare la Grecia.
Rimane altre due stagioni a Salonicco ed è immarcabile, soprattutto in quella 1997-98.
Segna 23.9 punti a sera e viene insignito del titolo di MVP del campionato. Porta anche la squadra alle TOP 16 di Eurolega.
In Gara 5 della semifinale della Greek League, segna un’incredibile tripla allo scadere che elimina l’Olympiacos e porta Peja e compagni alla finale contro il Panathinaikos, che tuttavia vince il titolo.
È finalmente giunto il momento di volare a Sacramento.
La squadra è in totale costruzione e l’inizio non è facile per Peja, non trovando molti minuti in campo. La sua fortuna è quella di avere in squadra il connazionale Vlade Divac, che lo prende sotto la propria ala protettiva e gli insegna ad avere pazienza.
I Kings si muovono sapientemente sul mercato, incasellando nel proprio scacchiere, pedine come Chris Webber, Jason Williams e il già citato duo serbo.
La squadra migliora velocemente, conquista i prima Playoffs nella stagione 1999-2000.
Il terzo anno in NBA di Stojakovic è l’anno dell’esplosione, che coincide anche con quella di Sacramento.
Il n. 16 diventa titolare inamovibile e ringrazia producendo oltre venti punti a sera (20.4).
Il suo tiro da 3 è temibile e incredibilmente rapido nell’essere eseguito, costruito sugli spazi sapientemente creati dal post da Webber e Divac.
Arrivano giocatori chiave come Doug Christie, Hedo Turkoglu e Bobby Jackson. Peja raggiunge l’apice nell’annata 2001-02, venendo convocato per l’All-Star Game di Washington e vincendo anche la gara del tiro da 3.
I Kings sono la squadra più divertente della Lega, vincono ed è un piacere vederli giocare.
La Finale della Western Conference li vede impegnati contro i rivali dei Lakers.
È una sfida entusiasmante, che Predrag deve tuttavia affrontare con una pesante distorsione alla caviglia.
Salta le prime 4 partite della serie, ritorna sul parquet in Gara 5 ma è ovviamente fuori condizione.
La sfida arriva alle decisiva Gara 7, dove a pochi secondi dalla fine Peja ha questo tiro per vincere.
Lakers vincitori al supplementare e diretti verso il Titolo, mentre i Kings si leccano le ferite.
Cosa sarebbe potuto essere questa serie con uno Stojakovic in salute non è dato saperlo, di sicuro la squadra non riesce più a ripete la straordinaria performance di quella stagione e il roster viene smantellato lentamente.
Tocca anche a Predrag che finisce a Indiana nella stagione 2005-06.
Nell’annata successiva lo chiama coach Byron Scott agli Hornets (versione New Orleans), dove costituisce un ottimo rinforzo per un team con Chris Paul e David West.
Ma il n. 16 sa che manca ancora qualcosa, quel Titolo NBA sfuggito nell’infausta Gara 7 del 2002.
Il 20 gennaio 2011, dopo una breve parentesi a Toronto, finisce a Dallas e contribuisce dalla panchina al Titolo dei Mavs.
Una grande soddisfazione per l’uomo da Pozega, che si ritira subito dopo. Un successo a corollare un palmares di tutto rispetto, al quale vanno aggiunti i successi con la nazionale (Europeo 2001, Mondiale 2002).
Hidayet Turkoglu
FOTO: sbnation.com
Nasce a Istanbul il 19 marzo del 1979 e inizia ad appassionarsi alla palla a spicchi all’età di 10 anni.
Viene reclutato dall’Efes Pilsen, dove gioca tutta la trafile delle giovanili.
A 17 anni fa il salto in prima squadra, ovviamente all’inizio con minutaggio molto risicato.
Le sue qualità fisiche (2.08 mt ma con ottima mobilità) e tecniche lo portano a guadagnare sempre maggior spazio e responsabilità in campo.
A 19 anni è già sesto uomo e, uscendo dalla panchina, contribuisce con 8.3 punti e 4.1 rimbalzi.
La svolta per la carriera arriva nella stagione successiva, 1999-2000.
Diventa titolare giocando 33.8 minuti e scrivendo a referto 13.7 punti e 5.4 rimbalzi.
Inoltre trascina l’Efes alle Final Four di Eurolega.
Questo ultimo successo internazionale fa scrivere il suo nome anche su vari taccuini di scout NBA così, sfruttando il buon momento e la sua costante crescita, Hedo decide di dichiararsi eleggibile per il Draft 2000.
I Kings decidono di spendere la propria chiamata n. 16 per il loro giovane turco, in una squadra arrembante verso l’apice NBA e con un chiaro taglio internazionale con la presenza di Valde Divac e Peja Stojakovic.
Turkoglu non rimane ulteriori stagioni in Turchia e vola subito nella capitale californiana, dovendo tuttavia pagare di tasca propria il buy-out di uscita dall’Efes Pilsen.
Qui trova una squadra ormai matura e pronta ad esplodere.
Il gioco corale e brillante lo aiutano ad integrarsi fin dall’inizio.
Parte ovviamente dalla panchina iniziando da subito a fornire un importante contributo.
Terminata la prima stagione NBA torna a casa per partecipare con la propria nazionale ai Campionati Europei 2001, organizzati proprio dalla Turchia.
In una Abdi Ipekci Arena gremita in ogni ordine di posti, Turkoglu e compagni perdono la finale contro la Jugoslavia.
Tornato in USA, dalla seconda stagione nella Lega diventa fondamentale per Sacramento come back up degli esterni e raggiunge al doppia cifra di media.
I Kings raggiungono la Finale della Western Conference contro gli acerrimi rivali Lakers.
Stojakovic è infortunato e salta le prime quattro gare della serie. Tocca a Hidayet Turkoglu sostituirlo in quintetto, come già fatto anche nella serie precedente contro Dallas (nella decisiva Gara 5 20 punti e 13 rimbalzi).
Dopo una Gara 1 tragica, il nativo di Istanbul si riscatta nelle altre partite, fornendo sempre un importante contributo, ma Los Angeles riesce a conquistare le Finals vincendo una fratricida Gara 7 alla Arco Arena.
Rimane un altro anno in California poi viene scambiato e spedito a San Antonio.
Alla corte di coach Popovich, in un contesto ancora più cosmopolita del precedente, Hedo è prima un eccellente elemento dalla panchina, ma a metà stagione sostituisce Ginobili nello starting five.
Le sue prestazioni concrete lo portano a vestire la maglia degli Orlando Magic a partire dalla stagione 2004-05.
È in Florida che la sua carriera NBA vive una svolta positiva.
Inizialmente ancora dalla panchina, sfiorando il titolo di Sesto Uomo dell’Anno. Dalla seconda stagione in maglia Magic diventa titolare inamovibile e caricato di maggiori responsabilità offensive.
La Regular Season 2007-08 vede una crescita anche del team, con coach Stan Van Gundy al timone e l’arrivo di Rashard Lewis.
Turkoglu gioca splendidamente, punisce i raddoppi in post su Dwight Howard, segna in 1vs1, si rivela un glaciale clutch player.
Tocca l’apice in carriera con 19.5 punti a sera, 5.7 rimbalzi e 5.0 assist e il meritato titolo di Most Improved Player.
Se la cavalcata 2008 si conclude al secondo turno contro i Pistons, i Playoffs 2009 regalano a Orlando la prima Finale dal 1995.
Hidayet è il leader dei suoi, ma niente può contro lo strapotere dei Lakers di Kobe Bryant, che portano a casa il Larry O’Brien Trophy.
Hedo è in scadenza di contratto e al top della carriera, decide quindi di monetizzare e firma un contratto di oltre 9 milioni di Dollari all’anno con Toronto.
Il matrimonio canadese si rivela un disastro totale, col giocatore turco che non si integra con la nuova franchigia e si macchia di condotte poco professionali (sospeso per essersi dato malato e poi scoperto in un nighclub).
Scontento chiede di essere ceduto e prova a ritrovare entusiasmo partecipando con la Nazionale ai Campionati Mondiali 2010 sempre in Turchia (arriva un argento dietro a Team USA).
A 31 anni di fatto inizia il suo declino, non riuscendo più a raggiungere il livello sciorinato a Orlando.
Inizia un tour di franchigie NBA che comprendono Phoenix, di nuovo Orlando e i Clippers.
A Los Angeles vanno in scena le ultime due stagioni di carriera, con apparizioni di circa 10 minuti a sera.
A 36 anni appende le scarpe al chiodo, ma rimane nel mondo della pallacanestro diventando presidente della Federazione turca.
Boris Diaw
FOTO: airalamo.com
Scopriamo subito le carte. Stiamo per raccontare la storia di un giocatore che non impressiona certo per le cifre maturate in carriera.
Di Boris Babacar Diaw-Riffiod colpisce altro, la sua straordinaria conoscenza del Gioco, l’acume tattico, abilità nel giocare in più ruoli.
Nasce il 16-04-1982 a Cormeilles-en-Parisis, comune situato nel nord della Francia, dal padre Issa, ex campione senegalese di salto in alto e dalla madre Elisabeth, giocatrice di basket.
Inutile dire che i geni dei genitori abbiano avuto una grande influenza su Boris.
Fin da piccolo il basket è la sua maggiore passione e muove i prima passi sul parquet nel US Talence prima e nel JSA Bordeaux prima di venire reclutato nel 1998 dal leggendario INSEP, il centro statale francese di eccellenza nelle attività sportive dal quale sono usciti numerosi campioni, non solo della palla a spicchi.
Nell’istituto Boris conosce i futuri compagni di nazionale Tony Parker e Ronny Turiaf.
Cresce come giocatore, tanto da attrarre l’attenzione di numerosi club della Pro A ma la sua scelta ricade sul Pau-Orthez.
Si mette subito in mostra venendo nominato Rookie dell’anno in Pro A ed esibisce la sua qualità principale: è un perfetto esempio di all-around player. Nessuna specializzazione, sa fare bene tutto elevando il proprio livello alla bisogna.
Grazie a lui e ai fratelli Pietrus, il Pau vince il titolo francese.
Nelle successive due annate, il soprannominato Babac continua il proprio processo di maturazione, esordendo in Eurolega e vincendo anche la Coppa di Francia nel 2002 e 2003.
Termina la propria esperienza nel campionato transalpino con la vittoria del titolo 2003.
Per Boris si sono accese le sirene della NBA e viene selezionato con la chiamata n. 21 al Draft 2003.
A spendere il suo nome sono gli Atlanta Hawks.
In Georgia mette in mostra la propria duttilità, ma non lascia particolarmente il segno, condizionato dalla mediocrità della squadra e da un’impostazione di gioco poco conciliante con la sua.
Le cose cambiano drasticamente quando viene ceduto a Phoenix nell’estate del 2005.
I Suns del periodo sono la fantastica macchina da corsa della “seven seconds or less” costruita da Mike D’Antoni.
Con Steve Nash in regia a spingere un contropiede costante, i Suns schierano continuamente giocatori universali in grado di giocare più ruoli.
Non è un caso che Boris si trovi a meraviglia nel sistema dell’Arizona.
Viene schierato da 4 e all’occorrenza anche da centro.
Nei Playoffs 2006 i Suns raggiungono le Western Conference Finals contro i Dallas Mavericks.
In Gara 1 con Phoenix sotto di 1 a 4.8 secondi dalla fine, Boris riceve la rimessa e segna il tiro vincente, toccando quota 34 punti nella sfida.
Dallas conquista in ogni caso l’accesso alle Finals, ma l’ex Pau ormai è considerato un giocatore importante a livello NBA, tanto da meritarsi il titolo di Most Improved Player 2006.
A metà della quarta stagione in Arizona viene ceduto a Charlotte, dove rimane per tre stagioni e mezzo, tutte chiuse in doppia cifra.
A marzo 2013, dopo essere stato tagliato ai Bobcats, firma con i San Antonio Spurs, nell’ennesima esperienza multiculturale della sua carriera.
Il gioco dei texani è perfetto per lui, che dalla panchina è un elemento prezioso se non fondamentale.
Gli Spurs raggiungono le Finals 2013 ma perdono in sette gare contro Miami.
Durante l’estate Boris ottiene un prezioso successo con la nazionale transalpina, vincendo il campionato europeo.
Lui e il compagno Tony Parker escono ricaricati dall’esperienza e questo entusiasmo contribuisce a far vincere agli Spurs il Titolo NBA 2014.
Gioca con San Antonio altre due stagioni e una farewell season con gli Utah Jazz nel 2016-17.
Decide quindi di tornare a casa, firmando per un anno con i Metropolitans 92.
Scompare poi dai radar finché non annuncia il proprio ritiro nel settembre 2018 tramite un post su Twitter: un video in barca insieme a Parker e Turiaf.
Un saluto alla sua maniera, coi compagni di una vita.
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Nel giugno 2011 Dirk Nowitzki trascina i suoi Mavs al Titolo.
Dopo il suo successo del tedesco ormai ogni tabù viene sfatato e per gli europei il percorso può dirsi completo. Chiunque si trovi a varcare l’oceano sa che nessun obiettivo può essergli precluso.
Questo sìgrazie alle grandi barriere abbattute da Drazen Petrovic e da Dirk Nowitzki, ma anche e soprattutto alle incredibile carriere vissute da chi vi abbiamo raccontato in questi due appuntamenti.