Questo contenuto è tratto da un articolo di Jerry Bembry per Andscape, tradotto in italiano da Alessandro Di Marzo per Around the Game.


Quando Scott Burrell firmò per i Chicago Bulls, poco prima dell’inizio della stagione 1997/98, aveva 26 anni e alle spalle una carriera trascorsa accanto a profili di alto livello come Larry Johnson, Kenny Anderson e Glen Rice, suoi compagni ai tempi degli Charlotte Hornets. Ma, una volta giunto in Illinois, capì da subito che l’aria sarebbe stata ben diversa, a partire dagli… addetti alla sicurezza:


“A Charlotte il roster aveva assunto una guardia per il roster. A Chicago, invece, ogni giocatore aveva una propria guardia del corpo personale. Lo status delle stelle era così influente che ci faceva assomigliare a una rock band durante i viaggi. Per me, che ero ancora giovane, fu un’esperienza molto sorprendente.”

Forse il termine più corretto è “Michael Jordan Experience”: il 23 è stato infatti il protagonista del dominio Bulls, una squadra trasformatasi nella maggiore attrazione sportiva al mondo nel corso degli anni ’90. Vivere questi anni da vicino, per giocatori meno conosciuti – e fortunati – come Burrell, fu davvero elettrizzante.

Brad Sellers aveva 24 anni quando fu scelto con la nona chiamata del Draft 1986 da Warrensville Heights, Ohio. Jordan, al tempo, aveva già vinto il premio di Rookie of the Year del 1985 e le sue Air Jordan avevano venduto per oltre $100 milioni in un solo anno.

“Io venivo da una una piccola città dell’Ohio, Micheal aveva passato gran parte della sua vita in North Carolina e Scottie Pippen era originario di un paesino dell’Arkansas. Uomini di campagna in una grande città, insomma. Non conoscevamo nulla di questo ambiente.”

Mentre i Bulls costruivano una dinastia vincente assieme a colui che stava rapidamente diventando l’icona più conosciuta del Gioco, i membri della squadra si guadagnavano una reputazione da VIP anche fuori dal campo, dai night club ai ristoranti più famosi d’America. “Eravamo un branco di ventenni a Chicago”, ha spiegato Burrell, oggi sindaco di Warrensville Heights. “Come poteva non essere il periodo migliore della nostra vita?”

Ai compagni di Jordan, per la maggior parte, piaceva godere di un certo status in città. Ma, come dimostrato anche da vari episodi di “The Last Dance”, per MJ la situazione peggiorava a pari passo con la crescita della sua popolarità.

“In uno dei primi episodi lo si vede fare il bucato: azione simbolo di una vita regolare e lontana dalle attenzioni metropolitane. Ma la sua fama crebbe così tanto che, a un certo punto, non poteva nemmeno permettersi di farsi una passeggiata in tranquillità. Ricordo che un giorno gli chiesero: ‘Michael come ti piace mangiare?’. E lui chiamò Jewel-Osco [una catena di supermercati] circa 15 minuti prima che chiudessero, per far sapere loro che sarebbe arrivato lì qualche minuto più tardi. Ovviamente, il negozio restò aperto per più tempo del previsto e Jordan pagò gli straordinari ai dipendenti impegnati. Non guadagnava ancora $30 milioni, sono sicuro che la sua paga fosse inferiore al singolo milione, ma al tempo erano tantissimi soldi, che gli permettevano di far del bene alle persone.”

I suoi compagni, come già detto, godevano di trattamenti speciali in città. Per esempio le scorte di polizia, per garantire spostamenti puntuali e sicuri, radunavano le auto dei compagni di MJ e andavano verso casa sua, vicino all’autostrada, attendendo che arrivasse. Una volta riunitosi a loro (la polizia conosceva le sue auto), la squadra partiva. E Sellers, con la sua Chevy Blazer, guidava seguendo la Corvette di Jordan.

In un giorno di neve, però, le cose sembravano non andare per il meglio per Burrell. Era in ritardo per arrivare all’aeroporto in tempo, prima che la squadra partisse.

“Stavo sudando freddo, quindi ho chiamato Luc Longley, ed entrambi eravamo intrappolati nel traffico. Poco dopo, però, abbiamo visto passare una scorta della polizia e… c’era Jordan dietro di loro! A quel punto ci siamo messi ad inseguirli e siamo arrivati in tempo.”

Ad ogni modo, forse molti di voi ricordano Burrell come “Dennis Rodman Jr”, come lo ha chiamato Jordan nel quarto episodio di TLD:

“Contrariamente a ciò che Mike affermava, non ero solito uscire e fare feste. Prima che la puntata andasse in onda ho avvisato i miei genitori per prepararli, e sono scoppiati a ridere quando l’hanno vista.”

Non solo mamma e papà: anche la moglie Jeané Coakley, iconica giornalista di New York, si è espressa simpaticamente a riguardo.

“La gente mi chiede spesso cosa ne pensa Jeané, ma non facciamo che riderci su. Se avesse problemi riguardo a ciò che facevo a 22 anni, probabilmente non saremmo una buona coppia.”

Burrell trascorse un solo anno nell’Illinois, ma quello fu senz’altro il più incredibile della sua carriera.

“Quella è stata di gran lunga la squadra più talentosa e concentrata per la quale io abbia mai giocato, guidata da un uomo che non si è mai preso un giorno libero, perché era semplicemente fatto così. Averlo visto da vicino è stato impressionante.”

“Mike was always testing you”

Una parte della Jordan Experience consisteva nell’essere continuamente messi alla prova da His Airness.

Dennis Hopson, oggi allenatore della Lourdes University a Sylvania, in Ohio, giocò nei Bulls durante il 1990/91, anno del primo anello. E ha parlato proprio di questo:

“A volte incontri giocatori che non prendono niente sul serio, ma Michael si assicurava che ognuno fosse concentratissimo. Il suo obiettivo era il titolo, e faceva di tutto per avere i compagni giusti attorno a sé per riuscire nell’impresa.”

La motivazione di MJ, secondo Sellers, si notava anche durante i voli, dove era alla continua ricerca di notizie che lo riguardassero:

“Michael leggeva ogni giornale e rivista che gli capitava tra le mani solamente per controllare eventuali parole e pensieri espressi su di lui. Era insaziabile, e cercava costantemente fonti di motivazione. Se trovava qualcosa, poi, lo utilizzava contro gli altri.”

Sì, anche contro i compagni. Come ben ricorderete, nel 1995, durante un allenamento, Jordan si innervosì fino a tirare un pugno a Steve Kerr.

Hopson nel suo anno ai Bulls non assistette mai a qualcosa del genere, ma può tranquillamente confermare che MJ testava continuamente la personalità di chiunque:

“Michael si accertava sempre della durezza e delle reazioni dei compagni una volta messi alla prova. E quando si decideva, non ci si poteva tirare indietro nel sfidarlo. Se lo si faceva, si perdeva in partenza.”

Burrell lo scoprì già al primo allenamento, nel 1997.

“Il primo giorno arrivò da me e mi disse: ‘Ehi, Scott Burrell’. Sentire pronunciato il mio nome completo dimostrò che non conosceva assolutamente niente di me. Mi disse che probabilmente ero contento di essere uno di loro, così non avrei dovuto più affrontarlo 4 o 5 volte l’anno. Ma non era una buona notizia, perché da quel momento avrei dovuto avere a che fare con lui ogni giorno.”

Difficile parlare con Jordan? Sì, tanto che non accadde mai quando Burrell giocava per gli Hornets:

“No, no, no, non gli avevo mai parlato prima di quella volta, ero più furbo di così. A volte si automotivava solamente con uno sguardo, figuriamoci con uno scambio di battute”.

Questa prassi, tuttavia, non veniva accettata da tutti.

Durante una gara di Preseason del 1997 a Chapell Hill, sede della “sua” University of North Carolina, un giocatore dei Philadelphia 76ers iniziò a fare trash talking con Michael, che stava recuperando da un’operazione all’alluce.

“Stava faticando in quella partita, e quel ragazzo glielo fece notare. Subito dopo, MJ andò verso di lui e disse – Stai indossando le mie scarpe, ancora parli?”

Lo stesso Burrell, ad ogni modo, dimostrò il suo coraggio sfidando Jordan dopo un allenamento, e fu uno dei pochi a provarci. Perse 7-6 dopo una partita avvincente, e quando chiese la rivincita fu il 23 a rifiutare.

Perché? Rispose lui stesso:

“Vuoi farlo perché, se vincessi, diresti a famiglia, parenti e amici che mi hai battuto. E io cosa potrei dire? Che ho battuto Scott Burrell!”