Uno dei più grandi “what if” della storia dell’NBA. Talento indiscutibile, ma una carriera segnata da troppe cadute e da un record di cui non andare esattamente fieri: 832 arresti…
Se chiedete a diversi compagni di squadra di Kobe Bryant ai tempi della Lakers Dynasty, quando ancora indossava la 8 e si divideva i riflettori con Shaq, quale sia stato uno dei momenti più memorabili di quel periodo, in molti vi risponderanno: “quella volta che distrusse Isaiah Jr. Rider”.
Isaiah l’estate precedente era un free agent in cerca di una squadra. L’approdo a Miami era vicino, quando però arrivò la chiamata di Shaq e Phil Jackson per convincere il nativo di Oakland ad unirsi a loro. La voglia di vincere un anello era forte e Jr non ci pensò due volte: accettò l’offerta. Pessima scelta. Le cose non andarono come previsto.
“Firmare coi Lakers determinò la fine della mia carriera. Arrivavo da 7 stagioni da titolare, per poi uscire dalla panchina con poco tempo a diposizione. Avrei dovuto firmare per gli Heat”.
La frustrazione era enorme, così come la voglia di dimostrare il proprio valore. Rider era tutt’altro che disposto a lasciare che le cose rimanessero tali. Con tutta l’impertinenza e sfacciataggine che lo contraddistinguevano – perché dopo tutto “era un ragazzo di Oakland e i ragazzi di Oakland sono di un’altra pasta”, parole di un tipino tutt’altro che soft come Horace Grant, presente quel giorno – decise di torchiare la stella della squadra. Pessima scelta.
“Non farti ingannare, sono anch’io una star. Dovresti ricordarti i canestri che ti ho segnato in faccia in passato” – trentello in maglia Blazers, tre anni prima, nel rookie year del giovane Black Mamba.
Un trash talking continuo che Kobe decise di terminare a modo suo: uno contro uno, si arriva ai dieci. Phil Jackson, che amava questo genere di cose, non lasciò neanche finire l’allenamento. “Tutti fuori dal campo”.
Un massacro. Così l’hanno descritto i presenti.
“Era la prima volta che vedevo Isaiah uscire dal campo con la coda tra le gambe”. Sì, pessima scelta.
Un aneddoto, questo, che descrive bene la personalità del ragazzo dalla Bay Area e che può ben valere come summa della sua carriera: tanto talento, un’enorme fiducia nei propri mezzi, sfociata nella sfacciataggine di cui sopra, e una lunga serie di cattive, pessime decisioni, dentro e fuori dal campo.
La stagione nella Città degli Angeli si concluse con il titolo per i giallo-viola, con un anello al dito per Jr. Tuttavia, dopo 67 partite di Regular Season come miglior marcatore uscendo dalla panchina, Rider dovette assistere a tutta la cavalcata nei Playoffs da bordo campo.
Alla base di tutto c’erano dissidi con coach Jackson. Inutile dire che la sua esperienza con i lacustri si concluse dopo appena un anno. Una carriera NBA ormai sul viale del tramonto. Dopo appena 10 partite della stagione successiva in maglia Nuggets, arrivò il ritiro.
9 anni caratterizzati da problemi con allenatori e compagni – da lui smentiti; e 9 anni caratterizzati, usando un eufemismo, da problemi con la giustizia.
Eppure era sbarcato nel basket professionistico con tutti i crismi del campione.
Quinta scelta assoluta dei Minnesota Timberwolves al Draft del 1993 – quello, per intenderci, con Chris Webber alla 1 e con, tra gli altri, Penny Hardaway, Vin Baker e Sam Cassell. Il suo incredibile atletismo, la sua grande forza fisica – che, nonostante l’altezza, gli permetteva di fare a spallate sotto canestro con giocatori ben più grossi – e i punti che aveva indubbiamente nelle mani facevano di lui un prospetto molto appetibile per qualsiasi franchigia NBA.
Tuttavia già a livello giovanile lasciò intravedere qualche ombra sul suo cammino. Ai tempi dell’high school era uno dei prospetti più quotati della Nazione ma, nonostante ciò, prima di poter entrare in un college di Division I a causa degli scarsi risultati scolastici, dovette frequentare due junior college – istituti che preparano gli studenti al mondo del lavoro o all’accesso a università più prestigiose.
Nel secondo anno a UNLV toccò in ogni caso i 29.1 punti di media a partita e si guadagnò il titolo di Big West Player of the Year, ma dovette saltare il National Invitation Tournament di fine anno perché sospeso per aver passato un esame con l’evidente “aiutino” di un tutor – parte dello scritto da consegnare aveva una calligrafia diversa.
I primi anni in NBA continuarono più o meno su questa falsa riga.
Alla fine della prima stagione viene inserito nell’All-Rookie First Team e nello stesso anno vince lo Slam Dunk Contest – come da lui predetto nel giorno del draft, “The Dunk Contest is mine” – con la sua iconica “East Bay Funk Dunk”.
Nelle sue prime tre stagioni in maglia Wolves ha fatto registrare numeri importanti, toccando i 19 punti di media e confermandosi un solido scorer. Un mix esplosivo di schiacciate, stoppate e giocate che elettrizzavano il pubblico del Target Center: Isaiah in quel momento si trovava al centro della scena. Tutti pensavano ad un All-Star in erba, con un futuro luminoso. Alla fine di quell’anno registrava anche un pezzo rap “Funk in the Trunk”, uscito nell’album B-Ball’s Best Kept Secret, una compilation che vedeva altri giocatori coinvolti, a partire da Shaq e Jason Kidd.
Il suo talento però venne presto oscurato da continue controversie.
Prima i problemi disciplinari all’interno dello spogliatoio con frequenti ritardi, un paio di voli persi, screzi con allenatori e compagni. Poi l’inizio di una sequela infinita di guai con la legge. 832 arresti!
I capi d’accusa sono innumerevoli: possesso di Marijuana, possesso di cocaina, violenza, aggressione, elusione di custodia, gioco d’azzardo, truffa, possesso d’arma da fuoco, furto d’auto, rapimento, stupro, e così via… Una spirale negativa che l’aveva ormai inghiottito e da cui non riusciva ad uscire.
Sul campo rimaneva, nonostante tutto, un ottimo giocatore. L’apice lo toccò durante il secondo anno a Minnesota – 20.4 punti a sera – ma anche nelle successive stagioni tra Timberwolves, Trail Blazers (pardon, JailBlazers – in quegli anni stavano evidentemente sviluppando una masochistica predilezione per le “teste calde”) – e Hawks, il suo rendimento rimase costante.
Raggiunse il livello minimo di popolarità quando fece espressamente capire a Dikembe Mutombo, suo compagno ai tempi di Atlanta, che ad Oakland, dove si sarebbe tenuto l’All-Star Game in quell’anno, avrebbe trovato “i suoi ragazzi pronti a farlo fuori”.
Dopo aver lasciato il basket e non aver più calcato un parquet, nemmeno di qualche campionato minore, dopo aver toccato definitivamente il fondo nel 2007, distrutto dalle condizioni di salute della madre, caduta in un coma irreversibile, dopo aver scontato sei mesi di prigione per aver cercato di rapire la sua ex fidanzata, ha iniziato una lenta risalita verso una vita normale.
Una vita normale. Una sorta di cammino redentivo, potremmo chiamarlo, nel quale ha deciso di dedicarsi completamente alla famiglia e alla sua no-profit, la Skyriderfoundation, che si propone di dare borse di studio ai ragazzi più bisognosi, ma senza dimenticarsi della palla a spicchi: oggi allena ragazzini dai 6 ai 12 anni nella sua Skyrider Basketball.
“Non mi pento di nulla. Certo, non si può vivere in quel modo, ma sono umano, ho commesso degli errori. Sento comunque di aver fatto molto, di aver reso mia madre fiera (riposa in pace mamma!). Devi rimanere sempre positivo: sono grato ogni giorno di potermi svegliare accanto alla mia famiglia e di vedere i miei figli crescere”.