Dalla Croazia alla Serbia e dalla Grecia agli Stati Uniti: una carriera volta a ricomporre il puzzle della propria vita.

Un campione ha sempre un lato nascosto, una parte da mostrare solo nei momenti importanti, in quelli di estrema difficoltà, nelle fasi decisive di una partita. Ma ci sono anche aspetti della propria persona che non si vorrebbero far emergere mai.
Tra quelli di Predrag Stojakovic c’è Petros Kinis.
PEJA STOJAKOVIC, “FIGLIO ILLEGITTIMO” DI UN GIOCATORE GRECO
È il 1993. Un giovane cestista greco sta andando con la squadra al palazzetto più grande di Salonicco, l’Alexandreio Melathron dedicato ad Alessandro Magno. Qui ci gioca l’Aris BC, ma anche il Paok. E con la maglia bianca e nera della seconda squadra c’è un ragazzo di 16 anni che segna triple a ripetizione. Nessuno l’ha mai visto prima. Come si chiama? È Petros Kinis: la nuova stella del Paok che viene dalla Serbia. Ogni volta che la sua squadra finisce l’allenamento rimane un’ora in più per tirare.
Quel giovane, in realtà, è Peja Stojakovic. Ha un nome greco perché a quel tempo c’è un numero massimo di giocatori esteri che una squadra ellenica può avere nel roster. E il Paok ha già raggiunto il limite, ma vuole avere il prodigio che viene dalla Serbia. Così Stavros Kinis, un atleta del Paok, spinto dalla società afferma di avere un figlio illegittimo: Peja.
Il giovane riesce in questo modo a prendere il passaporto greco come Petros Kinis e a giocare per il Paok. Ma il motivo per cui Stojakovic si trova in Grecia è un altro.
LA STELLA ROSSA
Predrag Stojaković nasce a Pozega, Croazia, nel 1977. È costretto però a spostarsi con la famiglia a Belgrado a causa delle guerre jugoslave: il padre ha combattuto nell’esercito e il supermarket dei genitori è stato raso al suolo dalle bombe. Nella capitale serba gioca la mattina a pallavolo e pallamano, perché nei licei sono gli sport da fare obbligatoriamente, e il pomeriggio si allena con la Stella Rossa, che tuttora è la sua squadra del cuore. Si mette in mostra e, a soli 16 anni, firma il primo contratto da professionista con il Paok.

Non è l’unico a trovare rifugio in Grecia. Tanti altri seguiranno il suo esempio prendendo il passaporto greco: come Milan Tomic, Dusan Vuksevic, Dragan Tarlac (che giocherà per i Bulls nel 2000) e Franko Nakic. Tutti giocheranno per l’Olympiacos, la squadra contro cui Peja nella stagione 1997/98 mostra uno dei suo lati nascosti.
GLI ANNI ALL’OLYMPIACOS
L’Olympiacos della metà degli anni Novanta ha messo in piedi una dinastia. Dalla stagione 1992/93 fino al 1996/97 ha vinto cinque titoli in cinque anni, registrando il record di 111 vittorie e sole 19 sconfitte. Che sommate alle due finali consecutive in Eurolega nel ’94 e ’95 portano la FIBA a nominare la squadra greca come il miglior team degli anni Novanta.
Nella stagione 1997/98 la semifinale è al meglio delle 5 e la serie con il Paok di Stojakovic è sul 2-2. Gara 5 è in casa dell’Olympiacos. La partita è tiratissima, si segna pochissimo. A un possesso dalla fine, il risultato è ancora in bilico: 55 pari. Ma c’è un ventenne pronto a svelare la sua identità.
Stojakovic porta la palla avanti e segna il tiro che dà davvero inizio alla sua carriera, marcando la fine del regno dell’Olympiacos. Mostra il suo lato vincente, quello che lo porterà a essere conosciuto Oltreoceano.
L’NBA
L’NBA sa già che Stojakovic è un campione. E infatti nel Draft 1996 i Sacramento Kings lo chiamano dopo Kobe Bryant. Geoff Petrie, GM di Sacramento, ne rimane colpito quando lo vede segnare a ripetizione in allenamento, e lo sceglie alla 14.
Quando Peja comunica ai genitori la notizia, i suoi non hanno la minima idea di quanto è appena accaduto: “Quattordicesima scelta? E cosa significa?» Lui invece lo sa.
È cresciuto guardando i Bad Boys di Detroit, i Celtics di Bird e i Bulls di MJ. Ha un’ossessione per l’NBA, tanto che sua madre lo deve cacciare in stanza perché le partite iniziano alle 2 di notte e lui vuole rimanere a vederle in sala. Il suo sogno? Hasempre risposto: partecipare all’All-Star Game.
Quando nel 1993, a 15 anni, vede il tedesco Detlef Schrempf diventare il primo europeo a giocare la partita delle stelle, un giorno vuole esserci anche lui tra i migliori della Lega. Ma per arrivare in America deve aspettare due anni dopo il Draft. Il Paok non gli permette di uscire dal contratto: il proprietario non vuole soldi, ma solo che continui a giocare in Grecia.
È il 1998, quindi, il primo anno di NBA per Stojakovic, quello dove ha più difficoltà. Emerge il lato tenebroso di Peja. I tanti cambiamenti e le difficoltà lo trascinano in una profonda depressione. Dai 23.9 punti a partita che segnava per il Paok nel campionato greco, nella stagione da rookie il giovane dalla Serbia si trova con una media di 8.4 punti a partita e con una percentuale al tiro del 37.8%.
Non riesce a dimostrare il suo valore, vuole tornare a casa. Ma il compagno Vlade Divac lo prende sotto la sua ala protettiva. «Il tuo tempo sta per arrivare», gli dice. Così Peja decide di provare a proseguire fino al termine del suo contratto di tre anni. E si mette a lavorare senza sosta, tirando dopo l’allenamento 100 triple alla volta.
Chi ha potuto vederlo dice che di solito ne segnava 70, ma una volta anche 87. Per lui non c’è nulla di strano, ci è abituato. Quando aveva 14 anni il coach insisteva per fargli tirare dalle 500 alle 800 triple al giorno. E così, nel 2001 arriva la consacrazione: 20 punti di media, 5.8 rimbalzi e percentuale al tiro da tre vicina al 40%. Coronando il suo sogno da bambino, arriva il suo primo All-Star Game.
La sua stella brilla anche in Nazionale. La Jugoslavia degli Europei del 2001 è imbattibile. Vince tutte le gare (tranne una: la finale contro Turchia che finisce 78-69) con uno scarto in doppia cifra. A motivare i giocatori è la sconfitta nei quarti di finale alle Olimpiadi del 2000. E Stojakovic è il leader della Jugoslavia degli Europei: nella competizione registra 23 punti di media segnando 18/35 da tre in 6 gare. Cifre che lo portano a essere nominato MVP. Ma il lato oscuro sta per tornare.

L’ERRORE DI GARA 7
Stagione 2001/02, Western Conference Finals, Gara 7. I Lakers di Kobe e Shaq difendono il Titolo, mentre i Kings di Webber e Stojakovic provano a farli cadere.
I Kings sono sotto di 1 e con 13 secondi sul cronometro Turkoglu passa la palla a Peja tutto solo dietro l’arco. Ma il suo tiro non finisce dentro al canestro. All’overtime ha però l’occasione per riscattarsi: Bibby gli passa la palla e lui, di nuovo, non segna. Non tocca neanche il ferro.
La caviglia destra gli fa ancora male. Se l’era slogata in Gara 3 delle Semifinali contro Dallas e l’infortunio l’aveva costretto alla panchina nelle prime tre partite contro i Lakers. L’episodio, però, lo segna, ma gli darà anche le energie per portarlo a mostrare il suo lato più luminoso. Ancora una volta, sarà la Nazionale ad accenderlo.
I MONDIALI DEL 2002
Ai Mondiali del 2002 Peja fa la storia. Porta la Jugoslavia a sconfiggere nei quarti di finale gli Stati Uniti, che peraltro giocano in casa, per 81-78. “Abbiamo fatto la storia”, dice a fine partita Ben Wallace, “ma non quella che avremmo voluto”.
Stojakovic ne segna 20 e nel torneo ha la media più alta della squadra con 18.8 punti a partita. Lo aiutano Dejan Bodiroga, la leggenda con in tasca lo yo-yo, e l’amico fraterno Vlade Divac. Insieme a lui, nella finale vinta contro l’Argentina, mettono in piedi un piccolo show. In un’azione Peja fa un taglio backdoor, il compagno gli passa la palla battuta a terra, e lui schiaccia a canestro, guardando con occhi da assassino gli avversari.
Le Olimpiadi di Atene del 2004, invece, non lo vedranno come protagonista. “Ho giocato per la nazionale per 6 anni. E ogni estate c’è una competizione: il Mondiale, l’Europeo, le Olimpiadi. Sono stanco. Guarderò le partite dalla spiaggia di Salonicco”. Ma ci sono anche altri motivi: come obbligo per ogni cittadino greco, deve servire per l’esercito tre mesi, e la sua ragazza aspetta un bambino. Abbandonata la Nazionale, si riscatta però con Sacramento.
Stojakovic, nella stagione 2003/04, mette insieme numeri impressionanti. I Kings non hanno Webber (5 mesi fuori), Divac è sul viale del tramonto e Bobby Jax continua a infortunarsi. Lui alle percentuali registra 51.1 / 43.3 / 92.7 e Sacramento inizia 48-16. Peja conclude la stagione come miglior scorer della lega dopo T-mac, con più di 24 punti di media a partita, e diventa il primo europeo a finire nella Top-4 per l’MVP.
Stavolta sembra non mancare nulla. Ma non è così. I Kings escono dai Playoffs a Gara 7 delle WCF buttati fuori dai Minnesota Timberwolves di Kevin Garnett e Sam Cassell. Peja ne segna 8 in quella gara e a fine partita Webber dice che alcuni compagni non sono stati duri al punto giusto. Stojakovic risponde: “Non giochiamo bene. Non c’è la giusta chimica”.
È la fine di un ciclo. Qualcosa si è rotto nello spogliatoio dopo che Divac è stato mandato ai Lakers. Lui non l’ha accettato. Chiede di andare via, ma verrà accontentato solo due anni più tardi, quando a fine contratto atterrerà a Indianapolis.
Con Indiana gioca 4 mesi nel 2006. Segna in media 19.5 punti a partita in 40 gare e aiuta i Pacers a raggiungere i Playoffs. Ma non scende in campo per 4 delle 6 partite del primo turno contro i Nets. Il ginocchio lo blocca. E l’incubo degli infortuni torna a fargli compagnia. Il suo agente dice: “Vuole finire la carriera con Indiana”. Ma Peja guarda nello spogliatoio e non è convinto.
Esce dunque dal contratto con i Pacers nel luglio del 2006 e firma con gli Hornets. Una squadra che l’anno prima aveva mancato di poco i Playoffs, con un record di 38-44. Peja si trova bene con Chris Paul, nominato Rookie dell’Anno nel 2005, e David West, lo scoring leader del team, cui la franchigia aggiunge Tyson Chandler. Ma a convincere il serbo c’è anche, ovviamente, un contratto da 64 milioni di dollari per 5 anni.
Nel novembre del 2006, Peja diventa il primo giocatore nella storia dell’NBA a segnare i primi 20 punti della sua squadra in una partita. Un’impresa che non è riuscita neanche a Chamberlain, Russell, Magic o Bird. Nella vittoria per 94-85 contro gli Charlotte Bobcats finisce con 42 punti e un primo quarto da 22 punti e 4 triple segnate. Ma non sono gli unici primati del campione serbo.
Il tre volte All-Star (2002-2003-2004), di record, ne ha collezionati diversi. Oltre a lui, solo cinque giocatori nella storia dell’NBA hanno vinto più di una volta (Stojakovic nel 2002 e nel 2004) il Three Point Contest: Larry Bird, Jeff Hornacek, Craig Hodges e Mark Price. Eppure il suo tiro non è ammirato. C’è chi lo definisce “dell’ubriaco” perché alza il gomito e sembra ogni volta che stia per cadere all’indietro. Anche lui è consapevole di avere un tiro che può sembrare “strano”, ma sa anche “che il tiro parte dalla tua testa e da quanta fiducia hai.”
La soddisfazione più grande se la riserverà a fine carriera, dopo la parentesi a Toronto, dove gioca solo 2 partite. L’ombra degli infortuni torna su di lui. Una costante lungo tutta la sua carriera. Nel 2007 manca 69 partite per problemi alla schiena; nel 2009 è costretto a guardarne 15 dalla tribuna per gli stessi problemi; nel 2010 è fuori per 18 match a causa di dolori addominali; e poi ne mancherà 33 per problemi al ginocchio sinistro la stagione successiva.
Acciaccato, ma pur sempre un cecchino dalla distanza, lo prendono i Dallas Mavericks. Dove insieme a Dirk Nowitzki, Jason Kidd e Shawn Marion corona il sogno di una vita.
Nella sua ultima partita da giocatore, anno 2011, Peja Stojakovic vince l’anello. E così diventa uno dei tre giocatori ad aver vinto un titolo NBA, un mondiale e un Europeo, dopo Pau Gasol e Toni Kukoc. Ricomponendo i pezzi: il lato croato con quello serbo, e la parte greca con quella americana.

Una vita per trovare la pace, nella guerra che lo aveva portato a “combattere” in giro per il mondo.
Che lungo viaggio, Peja. E che lieto fine.