Un viaggio in quella notte del 26 giugno ’96, in cui una clamorosa nidiata di giovani talenti sbarca in NBA, cambiandola per sempre.

Due ore prima che la cerimonia del Draft abbia inizio, David Stern entra in uno stanzone della Continental Airlines Arena di East Rutherford, nella quale sono raggruppati tutti i principali prospetti che quasi certamente verranno selezionati al primo giro.

Alcuni giocatori già si conoscono, altri si incontrano per la prima volta dopo aver letto reciprocamente i propri nomi sulle riviste di settore.Nel momento in cui il compianto commissioner stringe la mano a ognuno di loro, il sogno diventa realtà: in quel preciso istante, tutto assume contorni tangibili e anche il più scettico e superstizioso degli atleti deve arrendersi all’evidenza. Stanno per sbarcare nella NBA, e la loro vita non sarà più la stessa.

Quello che nessuno poteva prevedere, invece, è che di lì a qualche anno la Lega non sarà più la stessa: la classe del 1996 sarà uno spartiacque generazionale, portatore di cambiamenti culturali, tecnici e atletici come forse nessun NBA Draft aveva mai fatto e ha fatto da allora.


Il sottoscritto, totalmente di parte, si sbilancia: greatest class ever. E cercherò di convincervi.

Qualcuno dirà “Eh ma nel 2003 LeBron, Wade e Carmelo…”; qualcun’altro si appellerà al clamoroso Draft 1984, con Hakeem, Jordan, Barkley e Stockton. Tutti con ottime e comprensibili argomentazioni.

L’impatto di MJ sulla Lega ha avuto il peso specifico di un’esplosione nucleare, quello di LeBron è sotto giusto di una manciata di megatoni. Su questo non ci piove.

È difficile però comprendere, per chi non lo ha vissuto, il punto di svolta culturale che ha rappresentato per la NBA l’approdo di gente come Allen Iverson, Stephon Marbury, Kobe Bryant e Ray Allen, arrivati tutti insieme tra i professionisti la sera del 26 giugno 1996. E insieme a loro, un’altra decina di talenti che si sono costruiti carriere più o meno straordinarie, più o meno vincenti, in quello che è stato il Draft più profondo di sempre – questo sì, meno opinabile.

Che ci fosse tanto talento era chiaro a tutti, ma in quei giorni di 25 anni fa un unico nome tiene banco, e con la solita necessità di sintesi del giornalismo sportivo si tende a riassumere l’evento come “Il Draft di Allen Iverson”.

Dopo due sole stagioni in quel di Georgetown, la chiacchieratissima point guard della Virginia è pronta al grande salto e ci sono pochi dubbi sul fatto che AI verrà scelto per primo, soprattutto alla luce della Lottery di qualche settimana prima.

I Philadelphia 76ers vengono da una deprimente stagione da 18 vittorie. Nell’estate del 1992 Charles Barkley era stato mandato a Phoenix, in una trade che per la franchigia della Pennsylvania aveva il sapore del rebuilding, ma il “Processo” era partito a rilento.

Proprio alla fine della stagione 1995/96, i Sixers cambiano proprietà e arena, e il nuovo presidente Pat Croce vuole iniziare la sua gestione con un nome altisonante, un franchise player in grado di restituire entusiasmo a una piazza che lo ha perso del tutto.

Nell’istante in cui Phila ottiene la prima chiamata, l’euforia di Croce esplode. In confronto, le crisi simil-convulsive di Steve Ballmer ricordano l’autocontrollo di un monaco tibetano.

“Quella pallina significava che Iverson sarebbe arrivato a Philadelphia, in cuor mio non avevo dubbi: da quando avevo preso l’incarico sognavo di poter avere la prima scelta per portarlo ai Sixers. Oltre alle evidenti doti tecniche, aveva quella mentalità da giocatore di football: resiliente, si rialza sempre, non indietreggia mai di fronte alle avversità. Philadelphia aveva bisogno di lui. Io avevo bisogno di lui…” (Pat Croce)

E infatti non c’è alcuna sorpresa: David Stern fa il suo nome e The Answer si alza per andare, come da copione, verso il palco. Salvo andare nella direzione opposta.

Molti, tra cui Marbury seduto al tavolo affianco al suo, gli gridano “Allen, wrong way”, ma Iverson sa esattamente dove sta andando. Fuori dalla green room sono rimasti due dei suoi migliori amici d’infanzia, che non hanno ricevuto un pass per sedersi al tavolo con lui. Prima di stringere la mano a Stern, Iverson va ad abbracciarli, a certificare di non aver dimenticato da dove viene e le persone che gli hanno voluto bene nel percorso così travagliato che l’ha portato al professionismo.

The Answer ha avuto per tutta la carriera la fama di giocatore contro lo status quo: si può dire che quella reputazione sia nata proprio quella sera.

Dopo la prima chiamata, inizia il Draft dei comuni mortali, se così si può dire.

La seconda e la terza scelta sono ad appannaggio delle due giovani franchigie canadesi, rispettivamente dei Raptors prima e dei Grizzlies poi.

L’executive vice president di Toronto è la leggenda Isiah Thomas, che ha un’idea precisa: affiancare all’esplosivo rookie dell’anno 1996 Damon Stoudemire il miglior lungo disponibile. E ce n’è solo uno segnato sul suo taccuino: Marcus Camby, scherzo della natura da UMass, scuola che ha trascinato alle Final Four NCAA stoppando tutto, prendendo tutti i rimbalzi che c’erano da prendere e mostrando una mobilità da guardia che nei lunghi non si vedeva dai tempi di Olajuwon.

Dimenticatevi il senno di poi: quella di Thomas è una seconda chiamata che avrebbero fatto in molti.

Vancouver invece opta per Shareef Abdur-Rahim, elegantissima ala da University of California Berkeley, giocatore dell’anno della Pac-10, che nel momento in cui viene selezionato diventa il freshman scelto più in alto nella storia della NBA.

Qui ci si può buttare maggiormente sul senno di poi: a disposizione sicuramente c’erano giocatori più intriganti, anche se il ginocchio destro di Abdur-Rahim, che comincerà a decomporsi dopo qualche stagione tra i pro, resta un gigante what if sulla sua carriera.

Con la quarta e la quinta scelta si arriva al primo giallo di serata.

“Era il turno di Milwauke, mi avevano fatto capire in tutti i modi che erano interessati a me, volevano trasformarmi nel loro franchise player. Insomma un sacco di lusinghe per le quali ero sicuro che mi avrebbero scelto. Ma quando Stern salì sul podio, vidi le telecamere di TNT andare verso il tavolo di Marbury…” (Ray Allen)

Quando Marbury viene scelto, il suo tavolo esplode in un boato che fa tremare l’intero palazzo. Da lì cominciano le lacrime, per Stephon e per tutta la sua famiglia: lacrime di gioia e di liberazione per una vita di sofferenze e di delusioni, come quelle dei tre fratelli maggiori di casa Marbury che avevano già tentato, senza successo, la strada verso il Draft.

“That’s what Draft night is all about” – riassume perfettamente Ernie Johnson, voce ufficiale della serata.

A questo punto la quinta chiamata è dei Minnesota Timberwolves e Ray Allen è certo che il GM Kevin McHale non lo sceglierà, avendo già una guardia in ascesa come Isaiah Rider nel suo roster e non essendosi mai allenato con loro.

Piccolo excursus.

Dalla terza chiamata in poi Jerry West, dalla sala di comando al Forum di Los Angeles, è attaccato al telefono con tutti gli emissari delle squadre NBA nella speranza di organizzare una trade: Vlade Divac in cambio di una alta scelta al primo giro.

L’obiettivo? Un certo liceale da Lower Merion High School di nome Kobe Bryant, di cui si dice un gran bene.

“Il suo agente Art Tellem voleva che gli dessi un parere, così organizzai per Kobe un allenamento privato con me e Michael Cooper. Non mi servì più di un quarto d’ora… Oltre al fatto che non c’erano molte aree del gioco in cui aveva bisogno di migliorarsi, la cosa sorprendente erano i suoi istinti: faceva della cose che non avevo mai visto fare neanche a dei veterani o campioni affermati. Mi resi conto che era speciale e che dovevamo fare di tutto per prenderlo.” (Jerry West)

McHale è uno di quelli che riceve tale telefonata, rispedendola al mittente. Kobe gli interessa moltissimo, ma allo stesso tempo i T-Wolves hanno scelto al Draft del 1995 Kevin Garnett, il primo liceale a saltare il college dopo decenni.

“Non volevo prendermi la responsabilità di scegliere due liceali in back-to-back, se le cose non fossero andate bene mi avrebbero mangiato vivo, in più volevo un giocatore NBA-ready, possibilmente una point guard.”

David Stern pronuncia il nome di Ray Allen, che rimane basito, così come tutti gli addetti ai lavori. Una scelta sorprendente e incomprensibile: agli analisti più attenti però sembra l’anticamera per una possibile trade. Qualcosa bolle in pentola, nessuno sa ancora bene cosa.

La sesta e la settima chiamata filano lisce: Boston ha già giurato il suo amore ad Antoine Walker, campione NCAA con la Kentucky di Rick Pitino qualche mese prima, mentre i Clippers scelgono il centro Lorenzen Wright da Memphis – tristemente ucciso nel 2010 per mano della ex moglie che voleva incassare un’assicurazione sulla sua vita da un milione di dollari.

Per la prima volta nella storia, le prime sette chiamate sono tutti underclassmen: i molti senior presenti nella green room cominciano a storcere il naso. Si può dire che da allora questo trend non si sia più invertito, con una netta preferenza per giocatori giovani, one-and-done, nella idea dei GM più futuribili rispetto ai senior, per i quali si prevedono meno margini di miglioramento.

Tra loro John Wallace, finalista NCAA con Syracuse, eletto miglior giocatore della nazione, il più rispettato dai suoi colleghi: molti lo davano addirittura tra le prime cinque chiamate ma, come spesso capita, alcune voci sul suo conto ne fanno crollare le quotazioni.

“I Clippers si erano dimostrati molto interessati a me, ma il workout con loro fu un disastro. Penso volessero mettermi alla prova mentalmente, ma finimmo per litigare tutto il tempo io e il coaching staff, e questo probabilmente non mi fece una grande pubblicità.” (John Wallace)

Dopo la chiamata dei Clippers, viene annunciata da David Stern una clamorosa trade. Ci siamo, la pentola ha smesso di bollire.

Ray Allen viene spedito a Milwaukee in cambio di Stephon Marbury e una futura prima scelta: i due giocatori tornano sul palco per una nuova, irrituale foto, quella in cui si scambiano il cappellino.

I tifosi dei Bucks sono molto contrariati, la trade non li convince.

Appena Stephon riceve il cappellino grida “Yeah baby, KG!” ed era proprio questo l’obiettivo di McHale, formare una coppia di elettrizzanti giovani per costruire a Minneapolis una squadra sia vincente che appetibile a livello d’immagine. Purtroppo per i Timberwolves, un sogno mai del tutto compiuto. Mentre Ray Allen diventerà una vera e propria leggenda in Wisconsin e nel proseguo della sua carriera.

All’ottava scelta un altro momento chiave: in cabina di chiamata ci sono i New Jersey Nets del nuovo coach John Calipari, innamorato pazzo di Kobe, tanto da convocarlo a tre workout per convincere la dirigenza a puntare su di lui. La proprietà però è spaventata all’idea di sprecare una chiamata così alta per un 18enne di buone speranze, ma che avrebbe bisogno di tempo per adattarsi al professionismo.

Questa reticenza dei Nets irrita l’orgoglioso Kobe, che informa la franchigia di dover guardare altrove, minacciando di andare a giocare in Italia nel caso l’avessero scelto. A New Jersey arriva Kerry Kittles, il primo senior di questo Draft, scelta che Calipari davanti ai microfoni giustificherà parlando di lui come di “un profilo NBA-ready”, più del figlio di Jelly Bean.

Credo che i tifosi dei Nets non gliel’abbiano ancora perdonata.

9°, 10°, 11° e 12° chiamata.

Jerry West suda freddo, freddissimo, ma ben quattro squadre – di cui non faremo nome, per non metterle in ulteriore imbarazzo – decidono di investire su quattro lunghi dal dubbio impatto nella NBA: Samaki Walker, Erick Dampier, Todd Fuller e Vitaly Potapenko.

Alla numero 13, finalmente, tocca agli Hornets che hanno un accordo di massima con i Lakers per scegliere Kobe Bryant, ricevendo in cambio Divac: nei pensieri della dirigenza del North Carolina, la mossa giusta per sostituire Alonzo Mourning che sta per salutare in free agency, direzione Miami.

Dopo un’iniziale reticenza di Vlade, comprensibilmente poco incline a voler lasciare l’assolata California, lo scambio ha luogo e Kobe diventa un giallo-viola. Una settimana dopo, grazie anche allo spazio salariale liberato dall’addio di Divac, Mr. Logo porta in squadra anche Shaquille O’Neal, free agent. Il resto è storia.

Ma questo Draft ha ancora diverse cartucce da sparare.

Alla 14 i Kings scelgono Peja Stojaković, nello stupore generale dei tifosi presenti a East Rutherford. Che, se solo avessero avuto la possibilità di vederlo all’opera con il PAOK, saprebbero di che razza di giocatore stiamo parlando.

Alla 15 i Phoenix Suns scelgono un ragazzetto bianco, canadese da Santa Clara University: Steve Nash. C’è chi non la prende benissimo: “Già la faccenda dei liceali scelti così in alto nella mia testa era incomprensibile, poi quando Nash è stato scelto mi sono sentito tradito, mi sentivo molto più forte e continuavo invece a sprofondare in fondo al Draft.” (Derek Fisher)

E chi l’avrebbe detto che proprio quel ragazzo canadese avrebbe chiuso la carriera con due titoli di MVP.

Il Venerabile Maestro, inoltre, dovrà subire l’onta di vedere un altro liceale scelto prima di lui: Jermaine O’Neal, che alla 17esima chiamata finisce ai Portland Trail Blazers.

“Onestamente, non sapevo neanche dove fosse Portland sulla mappa, non ero il migliore degli studenti. Per me tutto il processo del Draft fu uno shock completo: da freshman al liceo non avevo praticamente mai toccato un pallone da basket, quattro anni dopo mi sono ritrovato in NBA!”

Alla 18 e alla 19 i Knicks hanno due scelte consecutive che, occasione più unica che rara, vengono salutate con grande entusiasmo dagli esigenti tifosi della Grande Mela. Prima è finalmente il momento di John Wallace, ripagato di tutta l’attesa finendo nella squadra per cui ha sempre fatto il tifo; poi è il turno di Dontae’ Jones, leggendario talento da Mississippi State, che ha trascinato da solo alle Final Four qualche mese prima, eliminando la UConn di Ray Allen. In NBA durerà ben poco, diventando un ambasciatore del romanticismo della pallacanestro in giro per il mondo, Napoli compresa.

Il momento di Derek Fisher scivola fino alla 24esim chiamata: Jerry West conclude qui il suo Draft capolavoro, ponendo le fondamenta per la squadra del threepeat, che dopo qualche stagione troveranno gloria eterna sotto la guida di Phil Jackson.

La storica cover di Slam Magazine: a quanto pare, Allen Iverson quella mattina non si svegliò, dopo una notte di festeggiamenti…

Ricapitolando: tre giocatori hanno vinto il titolo di MVP (Kobe, AI, Nash x2). Questi, più altri sette atleti scelti al primo giro, sono diventati All-Star: Abdur-Rahim, Ray Allen, Ilgauskas, Marbury, Jermaine O’Neal, Stojaković e Antoine Walker.

Otto sono stati nominati almeno una volta nell’All-NBA Team, mai così tanti nella storia dei Draft. In totale sono 20 i titoli NBA vinti da giocatori scelti nel Draft 1996 – da non dimenticare i due di Malik Rose con gli Spurs, scelto al secondo giro – dal quale sono usciti già quattro Hall of Famer. Che diventano cinque se contiamo anche Ben Wallace, All-Star, quattro volte Difensore dell’Anno, che quella sera del 26 giugno finì undrafted (dopo un mese e mezzo di allenamenti con la Viola Reggio Calabria, tornò in NBA grazie a un tryout con i Washington Bullets, diventando poi una stella a Detroit).

Greatest class ever.
Spero di avervi convinto.