Tre storie di fratelli, le cui carriere sono venute a incrociarsi sui campi della NBA. Stan e Jeff Van Gundy, ritrovatisi nella bolla; i tre Holiday, scesi in campo contemporaneamente; Pau e Marc Gasol, scambiati l’uno con l’altro.

I FRATELLI VAN GUNDY

Dal momento in cui le loro carriere nel mondo del basket professionistico sono cominciate, le vite dei fratelli Van Gundy sono proseguite su binari paralleli, vicini, ma che raramente si sono incrociati.

Nonostante Jeff sia di quattro anni più giovane, è lui a cominciare per primo la lunga gavetta come assistente allenatore ai Knicks, di cui diventa head coach nella stagione 1996/97. L’anno prima, Stan entra nel coaching staff dei Miami Heat, restando come assistant fino al 2003, quando viene promosso a capo allenatore per due stagioni.

Quelle due stagioni sono le uniche che vedranno i fratelli sfidarsi l’uno contro l’altro, con Jeff che nel frattempo è diventato head coach degli Houston Rockets: i Van Gundy diventano non solo gli unici fratelli ad aver allenato una squadra NBA, ma anche ad averlo fatto contemporaneamente.

In modo del tutto inaspettato, nel 2007 la carriera da allenatore di Jeff sostanzialmente si chiude. Lasciato andare dalla franchigia texana, accetta un lavoro come opinionista e telecronista per ESPN: nessuno ha dubbi sul fatto che si tratti solo di una soluzione temporanea, prima che un’altra squadra NBA si faccia avanti per avere i suoi servigi. Anche perché il suo curriculum parla chiaro: le improbabili Finals del 1999 raggiunte con i Knicks – partendo dall’ottavo seed nella Eastern Conference – sono l’ultima parvenza di gloria per la franchigia della Grande Mela, da allora in costante tentativo di recupero da stress post traumatico. Nonostante qualche rumors, anche recente, nessuna vera offerta si è mai concretizzata.

Nel 2005, dopo una stagione chiusa col secondo miglior record della NBA, Stan si dimette dall’incarico con gli Heat: alcune voci – mai confermate né smentite – parlano di una tensione diventata intollerabile tra lui e Pat Riley, altre di rapporti difficili con Shaq. The Diesel, nella sua biografia, è stato abbastanza chiaro.

“Pat e Stan litigavano in continuazione. Riley veniva agli allenamenti e diceva a Stan come fare determinate cose: Stan lo ignorava completamente e faceva a modo suo. Direi che era un ottimo modo per farsi cacciare”.

Riley sale sul pino, ereditando una squadra pronta a competere, chiudendo non a caso la stagione con il titolo NBA.

Stan è ferito e, come suo fratello, inizia una collaborazione televisiva in attesa di un’altra chiamata, che stenta ad arrivare: fino al 2008 quando i Magic gli danno una chance, venendo ripagati con delle insperate Finals l’anno successivo. Vi suona familiare?

La vita dei professionisti NBA – che siano giocatori, staff tecnico o giornalisti – è una vita costantemente on the road. Inoltre, la residenza di Jeff è in Texas, quella di Stan in Florida: di qui, le occasioni per vedersi sono ridotte al lumicino dall’inizio della loro carriera. Pur sentendosi telefonicamente più volte a settimana, non è facile coltivare un rapporto, che negli anni ha rischiato di incrinarsi.

Dopo l’esperienza ai Pistons, chiusa nel 2018, Stan torna nuovamente nella veste di analista per TNT, facendo sempre “concorrenza” a Jeff, diventato una figura imprescindibile a ESPN. Entrambi sono commentatori brillanti, mai banali, sempre pronti a dire quello che pensano: quando a luglio viene istituita la folle Bubble di Orlando, è ovvio che entrambi i network chiedano loro di stabilirsi a Disney World per seguire il prosieguo della stagione. Ed è così che i fratelli Van Gundy si ritrovano a trascorrere moltissimo tempo assieme, come non avveniva dalla loro adolescenza, quando Stan per primo lasciò casa per andare all’università.

Nelle prime ore del mattino, i due possono essere avvistati mentre procedono con lunghe passeggiate tra le facilities del quartier generale temporaneo della NBA: camminate infinite durante le quali i due parlano di tutto, con l’umorismo che li contraddistingue da sempre.

“Non smettiamo mai di raccontarci storie, discutere, anche litigare: lo facciamo camminando perché siamo entrambi grassi e abbiamo bisogno di fare moto. Parliamo di tutto, senza risolvere mai nulla, dalla politica alle chiamate arbitrali.”.

Jeff Van Gundy

Nel luogo più “isolato” della terra, i due si sono ritrovati più vicini che mai.

Le loro strade torneranno a dividersi e a incrociarsi, tra cabine di commento e il parquet.

“Vorrà dire che torneremo a sentirci per telefono, almeno per un po’”.

I FRATELLI HOLIDAY

Nel primo pomeriggio del 28 dicembre 2019, il pullman degli Indiana Pacers arriva allo Smoothie King Center di New Orleans, dove la sera stessa gli uomini di Nate McMillan disputeranno il match contro i padroni di casa dei Pelicans. I tre fratelli Holiday si ritrovano sul parquet, pronti per lo shootaround: tra un tiro e qualche pigro esercizio di stretching, si avvicinano, si cercano, si parlano. Il denominatore comune è l’enorme sorriso stampato sul loro volto.

Ancora prima della palla a due, hanno già scritto mezza pagina di storia della NBA. Mezza, perché la storia della lega è piena di fratelli arrivati a giocare sul palcoscenico più prestigioso che il basket professionistico possa offrire.

Si pensi solo recentemente ai fratelli Curry, Plumlee, Morris, Antetokounmpo, o andando indietro nel tempo ai fratelli Barry, Wilkins, King, fino all’incredibile storia della famiglia Jones, che portò ben 4 fratelli a disputare almeno una gara tra i pro tra gli anni ’70 e ’80.

Non una prima volta, dunque, ma nel caso degli Holiday si fa un passo in più: Jrue, Justin e Aaron stanno per trasformare quella mezza pagina in un capitolo intero. Di lì a poche ore, saranno i primi 3 fratelli a partecipare alla stessa partita NBA, con la possibilità di vedere tutti e tre sul parquet contemporaneamente.

Il percorso che li ha portati a quel momento è stato molto diverso per ciascuno.

Il primo a farcela è stato Jrue, classe 1990, strabiliante prospetto liceale, che dopo un solo anno a UCLA si dichiara eleggibile al Draft, venendo selezionato dai Philadelphia 76ers con la 17esima chiamata. La sua crescita, tra gli anni in Pennsylvania e il seguente passaggio ai Pelicans, è prorompente e ormai da 10 anni è una delle point guard più affidabili della Lega, un two-way player come pochi, con anche una presenza all’All Star Game nel 2013.

Per Justin, più vecchio di un anno, il cammino è stato decisamente più tortuoso. In quattro anni a University of Washington mostra tutto il suo talento difensivo, un po’ meno dall’altra parte del campo, cosicché nel 2011 nessuna franchigia NBA decide di usare una chiamata al Draft per lui. La sua carriera professionistica inizia in Belgio, ma già nel 2013, sgomitando tra NBDL e Summer League, comincia a fare qualche comparsata al piano di sopra: prima ai Sixers – dove incontra Jrue – poi a Golden State, dopo un altro anno di purgatorio in Ungheria. Dal 2015 è stabilmente in NBA – anche grazie alle buone prestazioni offerte come rincalzo nella stagione del titolo dei Warriors – e la sua carriera da gregario è destinata a proseguire.

Infine Aaron, il più giovane, classe ’96, anch’egli finito a UCLA per il suo sviluppo collegiale. Come per gli altri fratelli, gli occhi sono puntati sulla sua tenacia difensiva, ma al suo terzo ed ultimo anno registra anche 20 punti ad uscita e al Draft 2018 per Holiday si parla di una sicura scelta al primo giro, forse anche tra le prime 15/20. Alla fine il suo nome slitta alla 23, ma poco importa: Indiana gli dà una chance e dopo la sua stagione da rookie mostra anche interessanti margini di miglioramento. In estate, poi, Justin firma un contratto annuale coi Pacers, riunendosi al fratellino in quel di Indianapolis.

Flash forward al 28 dicembre 2019: dopo appena 7 minuti di gioco, Justin subentra ad Aaron, partito titolare, e con Jrue stabilmente in quintetto nei Pelicans i fratelli Holiday sono già scesi tutti e tre in campo, entrando nel libro dei record. Ma a metà del terzo quarto, i tre si ritrovano in campo contemporaneamente, dando vita ad un altro precedente inedito nella storia della lega.

Che i Pelicans abbiano vinto, con Jrue autore di 20 punti e 7 assist e Aaron miglior marcatore dell’incontro con 25, davvero poco importa a papà Shawn, emozionatissimo sugli spalti con mamma Toya:

“Sono felicissimo e orgoglioso dei miei ragazzi. È una sensazione indescrivibile, avere tre figli che si sono fatti un culo così per avere successo e hanno raggiunto questo traguardo nonostante tutte le avversità…È fantastico, la mia famiglia è davvero fortunata!”

I FRATELLI GASOL

Marc Gasol è tra le corsie del Mercadona di Avinguda de França, nel centro di Girona, intento a scegliere accuratamente tra frutta, verdura e scatole di cereali, quando la sua spesa viene disturbata dallo squillo del cellulare. È il suo amico Juan Carlos Navarro, che gli dà una notizia clamorosa.

– “Marc, mi ha chiamato Pau! L’hanno ceduto ai Lakers!”
– “Wow, è fantastico!”

È il primo febbraio 2008 e mentre Pau sta distruggendo tutti i record di franchigia possibili ai Grizzlies, Marc sta per diventare il giocatore dell’anno della ACB con l’Akasvayu Girona, al quale si è unito l’anno precedente, dopo la trafila delle giovanili col Barça e gli anni di liceo in quel di Memphis.

La notizia dell’approdo del fratello ai Lakers ha un motivo extra di gioia: Marc è stato scelto al Draft 2007 proprio dai giallo-viola, e vista la straordinaria stagione che sta disputando in Spagna chissà che i due l’anno seguente non possano diventare compagni di squadra.

– “Marc sei ancora lì? Non ti ho detto ancora tutto…”
– “Cosa?”
– “Ti hanno scambiato con Pau… andrai a Memphis.”

Poche ore prima che questa conversazione abbia luogo, Pau è nell’ufficio del neo GM dei Grizzlies Chris Wallace, che sta per informarlo della suddetta trade. I cui dettagli hanno dell’incredibile.

Memphis cede il recordman per gare giocate, punti segnati, rimbalzi e stoppate nella storia della franchigia in cambio di: Kwame Brown [insert joke here], Javaris Crittenton (e il di lui arsenale bellico), il veterano diversamente utile Aaron McKie e il fratello Marc, zero minuti nella Lega.

“È un giorno storico per i Lakers, perché in cambio di nulla hanno ottenuto un big man che sa fare di tutto”.

Bill Walton

La trade fece molto rumore e fu subito interpretata come l’affare del secolo per i Lakers, anche alla luce delle tre Finals con due anelli vinti che Pau finirà per raggiungere in California. Dalla parte dei Grizzlies non fu capito quale fosse l’idea di Wallace, che dovette sopportare lo scherno degli analisti, lasciando esterrefatto anche il diretto interessato.

“Ho pensato fosse uno scherzo, innanzitutto perché non mi aspettavo di essere ceduto essendo il perno della squadra da molti anni, ed essere scambiato con mio fratello rese tutto ancor più surreale. Poi cominciai a ragionare sul fatto che avrei avuto Phil Jackson come allenatore e Kobe Bryant come compagno, e fu decisamente più facile da accettare…”

Pau Gasol

Dicevamo delle polemiche nate in seguito alla trade: tra le molte voci autorevoli levatesi, una delle più insistenti fu quella di Gregg Popovich, che parlò di “scelta incomprensibile” invocando l’istituzione di una commissione che analizzasse gli scambi, bloccandoli in casi limite come questo.

Chris Wallace fece tutto di testa sua, a quanto pare andando anche contro la volontà del presidente Michael Heisley: da subito difese la sua scelta, cercando di giustificarsi e finendo per convincere anche la proprietà.

“Erano anni in cui i Memphis Tigers della NCAA, guidati da John Calipari, rubavano tutta la scena cestistica dello Stato, viste anche le prestazioni di un certo Derrick Rose in quel periodo. Continuavamo a perdere partite e pubblico: poteva capitare di avere una partita in casa, venerdì sera, contro una contender, e trovare il palazzo completamente vuoto… avevamo bisogno di un cambio radicale.”

Chris Wallace

In tutto questo, la possibilità che Marc accettasse di venire a giocare oltreoceano per i Grizzlies era tutt’altro che scontata. Per sua stessa ammissione, l’NBA non era nei suoi piani in tempi brevi; inoltre Wallace dovette convincere i genitori dei due Gasol a fidarsi di lui, dopo che la trade a ciel sereno ferì molto Pau e la sua famiglia. A quanto pare, Pau fu decisivo.

Il fratellone convinse il signor Heisely, col quale aveva un rapporto speciale, a fidarsi del talento di Marc, affermando che sarebbe potuto diventare anche più forte di lui: il proprietario dei Grizzlies rimase molto colpito e decise di accettare il salto nel vuoto tentato da Wallace. Col senno di poi, si potrebbe dire che questa trade è stata anche la migliore nella storia della franchigia del Tennessee. Perché?

Difficile pensare che i Grizzlies potessero ambire a un titolo NBA con Pau come unico go-to-guy; inoltre, dopo poche stagioni oltreoceano, Marc è riuscito a dimostrare di essere un giocatore ugualmente decisivo, oltre che 5 anni più giovane del fratello. Con lo spazio salariale liberato dall’addio di Pau, Memphis riuscì a puntellare il roster con gli arrivi di Zach Randolph e Tony Allen, oltre ad azzeccare la scelta al Draft di Mike Conley. Ed ecco che grazie alla “folle” trade, il nucleo dei Grizzlies onnipresenti ai Playoffs negli anni a venire prende forma, riuscendo anche a creare un’affezione davvero insperata attorno alla squadra, viste le premesse.

Il talento dei due fratelli catalani, forse i due fratelli più forti ad aver mai giocato nella lega, hanno reso questo storico scambio una win-win situation per entrambe le franchigie.