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È l’estate del 1941, siamo a Roxbury, quartiere afroamericano di Boston, Massachusetts. Il piccolo Malcolm Little entra in un negozio di commestibili con un elenco che l’amico Shorty gli aveva scritto per bene a caratteri cubitali, in stampatello. Malcolm compra un barattolo di liscivia, due uova e due patate bianche di grandezza media. Poi chiede al droghiere del negozio vicino a casa di dargli un grande barattolo di vaselina, un pezzo di sapone, un pettine fitto fitto e uno con i denti molto radi. Aggiunge un tubo di gomma con una testa di metallo per doccia, un grembiule e un paio di guanti, sempre in gomma. Il droghiere si insospettisce: “Per caso vuoi farti la prima stiratura?” . Malcom gonfia il petto, inspessisce la voce e grida orgoglioso: “Proprio così, signore!”.

Torna di corsa da Shorty e dà il via al processo che lo avrebbe portato ad avere dei capelli perfettamente lisci, come quelli dei bianchi che lo schifavano con tutti quei ricci in testa. Shorty sbuccia le patate, poi comincia a mescolare con un cucchiaio di legno mentre aggiunge lentamente mezzo barattolo di liscivia. Ne esce un miscuglio denso, bollente e gelatinoso al quale vengono pure aggiunte due uova. Shorty avverte il piccolo Malcolm: “quando te lo appoggerò sui capelli dovrai stare molto fermo, sentirai bruciare parecchio ma più riuscirai a sopportarlo più lisci diventeranno i tuoi capelli!”.

La melassa inizia a colare sulla cute del piccolo Little, mentre Shorty inizia a tirarla con il pettine su tutta la superficie disponibile. Malcolm grida di dolore, stringe i denti e si aggrappa con tale violenza ai due lati del tavolo della cucina da dare l’impressione di volerli far coincidere. Quando Shorty gli passa il pettine tra i capelli è come se gli strappasse la pelle pezzo per pezzo. Suda, trema ed inizia a lacrimare: “basta Shorty ti prego, penso che per questa volta siano abbastanza lisci così”.

Malcom in quel momento non lo sapeva, anzi, l’avrebbe realizzato lucidamente solo qualche anno dopo, ma quello fu il primo grande passo verso l’auto-degradazione: sopportò tutto quel dolore per fare come facevano tutti all’epoca, far diventare lisci quei capelli crespi e ricci così selvaggi e naturali da essere considerati sbagliati. Entrò così, senza pensarci e ritenendolo la cosa più giusta da fare, a far parte della moltitudine di uomini e donne afroamericane spinte con ogni mezzo a credere che i neri fossero esseri inferiori, fino al punto da distorcere i loro corpi nel tentativo di sembrare graziosi secondo i criteri di giudizio dei bianchi.

Sì, Malcom Little in quel momento era appena sedicenne e non si era ancora reso conto della violenza psicologica che il suo popolo si auto-infliggeva con quel gesto. E no, in quel momento Malcolm Little non era ancora diventato Malcolm X.

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Dovete sapere che ancora negli anni ’60, per un afroamericano era normalissimo stirarsi i capelli o coprirli con parrucche più simili possibili ai capelli dei bianchi: era un modo per sentirsi maggiormente accettati, per nascondere se stessi agli altri, per essere meno neri. E se camminate ancora oggi per le strade Harlem, di El Barrio, sopra la 126esima, noterete quanti negozi di parrucche ancora ci siano.

Pensate che i capelli lisci negli Stati Uniti vengono chiamati “the good hair”, letteralmente i capelli giusti, quelli lisci, morbidi, setosi – da donna bianca, in altre parole. Per molto tempo nelle comunità afroamericane questo è stato uno standard di bellezza che si cercava di raggiungere con pesanti permanenti chimiche e/o con parrucche cucite sui capelli intrecciati. Solo a fine anni ’60, infatti, grazie al movimento Black Feminism le ragazze e poi anche i ragazzi afroamericani iniziarono a ribellarsi a questi canoni estetici e a diffondere finalmente il “natural hair movement”: via libera alle capigliature afro, ai cornrows (le treccine), ai dreadlocks e tutto ciò che oggi rende così iconica e necessaria la manifestazione dell’io, la libertà di essere se stessi, che gli afroamericani esprimono con orgoglio anche attraverso la propria capigliatura.

Scorrete le discografie di Beyoncè, Solange, Gill Scott Heron, o ancora dei Parliament/Funkadelic, o di Rapsody, Alicia Keys, Kendrick Lamar; leggete le tra le righe del dress-code NBA quando Allen Iverson e Latrell Sprewell portavano la strada in campo con i loro cornrows, le treccine in testa; osservate con attenzione l’acconciatura nei discorsi della black panther Angela Davis o nei monologhi di Pam Grier nei film blaxploitation. Quei capelli non sono mai stati solo una questione di stile, ma di libertà, espressione e politica.

E’ per questo che i “barbershop”, quelli che noi chiamiamo barbieri o parrucchieri, sono così importanti nella cultura afroamericana: l’ora trascorsa lì dentro ad esprimere la propria personalità attraverso quei capelli così modellabili ed intrecciabili, è ogni volta una piccola rivoluzione di stile ed espressività; mentre le “barbershop conversations” vagano dalle storie di quartiere a quelle sportive, da chi abbia fatto per la prima volta il moonwalk in TV a chi abbia segnato più punti in carriera tra Magic e Bird, a chi abbia davvero rivoluzionato il gioco del basket così come noi lo conosciamo oggi. Oppure, chi, tra i due uomini volanti più iconici di tutti i tempi, abbia per davvero cambiato non solo il gioco, ma anche lo stile.

Tra chi idolatra il jump-man dalla testa rasata, Michael Jordan, e chi il dottore dal bulbo afro più famoso di tutti i tempi: Doctor J, Julius Erving.

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Julius Winfield Erving II, che anni dopo il mondo conoscerà solo ed unicamente come Doctor J, dal nomignolo datogli da un suo compagno di squadra alla High School che veniva invece chiamato “The Professor”, nasce nel 1950 a New York. Il mondo ancora non lo sa, ma da quel 22 febbraio qualcosa si mette in moto, il gioco della pallacanestro e il mondo dello sport in generale stanno per cambiare per sempre. E’ arrivato uno che vola, schiaccia saltando dalla linea dei liberi, sfoggia il suo capello afro in segno di libertà, tiene la palla come un’arancia grazie a delle falangi evidentemente sproporzionate. E ha un sorriso contagioso.

E’ arrivata la rivoluzione, e questa volta, contrariamente a quello che cantava qualche anno prima il poeta di Harlem Gill Scott Heron in “revolution will not be televised”, sono tutti sintonizzati davanti ai primi tv color. E i colori che vedono sono quelli della ABA, la lega professionistica antagonista alla NBA, che negli anni ’70 grazie al suo pallone color bianco/rosso/blu, all’afro e ai voli di Doctor J, alla gara delle schiacciate e a tante altre cose che oggi sono parte del mondo NBA, fece divertire ed appassionare alla pallacanestro intere generazioni di sportivi in tutto il mondo.

Ma prima di diventare il dottore, Julius Erving era soprattutto un ragazzo che amava giocare nei campetti della sua città, New York City, dove ancora oggi le barbershop conversations lo ricordano volare sopra ad ogni avversario al Rucker Park di Harlem, dove tornerà anni più tardi da affermato professionista, facendo paralizzare l’intero quartiere pur di vederlo giocare: chi si assiepava sulle reti di recinzione cercando di salire sempre più in altro, chi si arrampicava sugli alberi del parchetto attorno al campo… il ritorno di Doctor J al Park era quello del messia, e le immagini che si trovano oggi su YouTube ci ricordano il perché.

E sembra che proprio al Rucker Julius ricevette, un po’ come tutti, il suo primo soprannome “The Claw” (oggi il nickname di Kawhi Leonard), l’artiglio, per come inchiodava schiacciate con quelle lunghissime braccia che protendeva sopra ogni avversario, diventando virtualmente instoppabile.

Il suo era uno stile unico e inimitabile: in campo aperto faceva ciondolare quelle braccia lunghissime dispiegandole come ali quando saltava. Restava in aria un’eternità, quasi fluttuando, galleggiando, con quell’afro teso verso il cielo e la palla in un punto imprecisato dell’atmosfera, che riappariva puntualmente sul fondo della retina quando inchiodava le schiacciate per cui ancora oggi è ricordato a tutte le latitudini. E tutto questo ben prima di arrivare in NBA, fin dai tempi dei campetti, fin dagli anni del College a University of Massachusetts dove in due anni terrà una media di 26 punti e 20 rimbalzi a partita.

Dopo due anni di College, nel 1971 Julius firma per i Virginia Squires in ABA, lega professionistica che in quegli anni è nettamente più cool rispetto a una NBA orfana di Bill Russell e della dinastia dei Celtics, e molto più “ingessata” rispetto alla frizzante e creativa ABA ,che propone un basket più spettacolare, più vicino a quello di strada, dominato da guardie e playmaker e con poca presenza di schemi ad ingabbiare il gioco. E poi ci sono le cheerleaders, il pallone a spicchi colorato, il tiro da tre, stipendi tendenzialmente più alti della media NBA. Insomma, è il contesto ideale per scatenare la fantasia di Julius.

Erving parte subito in quarta, con una stagione clamorosa da 27 di media, che però non gli vale il premio di Rookie of the Year, che va invece a un’altra futura star NBA: Artis Gilmore. Intanto, però, Doctor J entra nelle case degli americani, la capigliatura afro – che lascia crescere nell’estate del ’69 – diventa iconica. La comunità afro-americana, ma anche quella bianca a dirla tutta, impazzisce per le sue schiacciate elevate a vera forma d’arte nel ’76, quando durante l’All-Star Game la lega decide di proporre per la prima volta questo format spettacolare. Julius decide di stravincere. Salta per primo in mondovisione dalla linea del tiro libero, chiudendo ogni discussione su chi dovesse vincere quella sera tra lui, George Gervin, Artis Gilmore e David Thompson, il Gotha della schiacciata negli anni ’70.

In ABA Doctor J ci starà per 5 anni, 2 in Virginia, gli altri 2 nel New Jersey, con i Nets che saranno poi assorbiti dalla NBA nella stagione 196/77 assieme a Indiana Pacers, Denver Nuggets e San Antonio Spurs. Saranno 5 anni totalmente folli, irripetibili e purtroppo per noi anche irreperibili, dato che praticamente nulla di ciò che Julius e compagni fecero su un campo da basket venne tramandato ai posteri su nastro. Un vero peccato, perché è proprio in quegli anni e in quelle partite pazzesche che nacque la leggenda.

Si dice addirittura che il termine “posterizzare”, ovvero schiacciare con forza in faccia all’avversario, sia nato proprio dalle sue giocate, che avvenivano ad un altro livello, ad un’altra altezza – dove gli avversari riuscivano appena ad arrivare, per poi ricadere quasi subito, mentre il Doctor, beh, lui lì ci restava per diversi secondi, che parevano non finire mai. Non a caso, anni dopo Michael Jordan, uno che veniva chiamato “his airness”, disse che senza Doctor J, nonostante il suo idolo fosse sempre stato l’avversario David Thompson, non ci sarebbe stato nessun MJ. E nella gara delle schiacciate del ’85, omaggerà proprio Julius con un altro volo dalla linea dei liberi durante un’altra leggendaria gara delle schiacciate.

Dopo anni di tentativi, corteggiamenti e profonda invidia nei confronti della popolarissima – per quanto a tratti kitsch – ABA, nel 1976 l’NBA riesce a fondersi con la lega parallela e riesce finalmente a mettere le mani su Julius Erving, il vero oggetto del contendere: l’uomo più spettacolare della storia del basket è finalmente un giocatore della National Basket Association.

Il come ci arriva, però, ha del rocambolesco. I New Jersey Nets, che entrano anch’essi in NBA e ne detengono il contratto, sono costretti a pagare una tassa di 4 milioni di dollari ai New York Knicks per una specie di tassa che sa di Risiko: un’invasione di territorio a tutti gli effetti, che va pagata. L’arrivo del play Tiny Archibald grava sulle finanze dei Nets e l’aumento di salario promesso ad Erving alla fine non arriva. Julius non ci sta: sa di valere molto di più e partecipa ai training camp di altre squadre. Lo vogliono i Bucks, i Lakers e i Sixers.

I Nets sono in stato confusionale e lo offrono addirittura ai Knicks in cambio del pagamento della tassa territoriale. Sì, 4,8 milioni per Julius Erving: sarebbe un affare, ma i Knicks sono pur sempre i Knicks, e rifiutano. I Philadelphia 76ers allora mettono sul piatto 3 milioni per coprire una buona parte delle spese territoriali, più altri 6 milioni nelle tasche di Julius. Ci siamo: Doctor J diventa un Sixers per il resto dei suoi giorni, e la NBA cambia la sua geografia per sempre.

I Nets, di fatto, perdono Erving per una tassa e per il mancato coraggio di rilanciare. Roy Boe, GM dei New Jersey all’epoca, dirà poco dopo: la fusione tra NBA e ABA ha distrutto questa franchigia. E in effetti fino alle finali disputate contro Spurs e Lakers nel 2003 e 2004, dei Nets si sentirà parlare ben poco ad alti livelli.

Quella di Julius e dei contratti NBA è una storia nella storia. Non tutti sanno infatti che nel ’72 The Doctor fu al centro di una trattativa serratissima tra tre squadre delle due leghe, una cosa senza precedenti, che lo portò di fatto ad avere contratti legalmente validi per Virginia Squires, Atlanta Hawks (con cui disputò una Preseason immaginifica con Pete Maravich) e i Milwaukee Bucks. Questi ultimi lo avevano scelto al Draft ed erano pronti a schierarlo assieme a Kareem Abdul-Jabbar e Oscar Robertson. Riuscite a immaginarlo? E’ semplicemente il più grande “what if” della storia. Un tribunale di New York, però, sciolse ogni impiccio: Julius era di proprietà degli Squires di Virginia.

L’NBA sarebbe arrivata solo qualche anno più tardi, dopo tre titoli di MVP e due anelli di campione ABA con i Nets, che anni dopo ritireranno la sua maglia #32. Nel frattempo, entrando negli anni ’80, i voli di Erving sono ovunque, la sua capigliatura diventa icona di stile, nascono le brillantine “Soul Glo” per capelli per accentuare la rotondità e lucentezza del bulbo afro. Sempre più personaggi pubblici dell’epoca (sportivi, musicisti, artisti) sfoggiano afro con grande orgoglio. La rivoluzione di Doctor J era un fatto di cultura e stile, non solo di pallacanestro.

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Nel frattempo Converse lo vuole come nuovo endorser delle sue sneaker ed il suo volto inizia ad apparire in decine di commercial e in cameo cinematografici: è letteralmente The Man, dall’underground della ABA al mainstream della NBA, è la star più cool d’America.

Julius forte del suo nuovo contratto da 6 milioni di dollari, ai Sixers lascerà il suo storico numero 32 indossando provocatoriamente proprio il numero 6: in NBA inizia così una nuova era. Sono gli anni in cui i 76ers danno vita a due grandissime rivalità, le cui immagini inizieranno ad arrivare anche in Italia (dove, non a caso, c’è una foltissima comunità di tifosi philadelphiani). Da un lato gli acerrimi rivali sono i Boston Celtics di Larry Bird, con cui danno vita a tre memorabili Finali di Conference consecutive dal 1980 al 1982, di cui due decise in Gara 7 a Boston; dall’altro gli odiati Los Angeles Lakers di Kareem e Magic, con cui i Sixers disputeranno ben tre NBA Finals nel giro di quattro stagioni (1980, 1982, 1983).

Sono anni pazzeschi, in cui l’NBA diventa di fatto il fenomeno globale che è oggi, preparando la strada a Michael Jordan, Kobe Bryant, Allen Iverson, LeBron James…

Sono tantissime le istantanee di Julius che lo ritraggono in volo nei Playoffs di quegli anni, intento a volare sopra ogni avversario. La più incredibile per quanto mi riguarda è e rimarrà per sempre la Windmill Dunk in testa a Michael Cooper:

Schiacciata pazzesca, che Julius, lanciato in contropiede dopo una palla rubata, compie effettuando un terzo tempo appena dentro la linea del tiro da tre: palla tenuta in mano come un’arancia, due falcate lunghissime e un volo che termina con una delle più belle in-game dunk mai viste.

Indimenticabile poi anche quello che da molti viene definito come il più bel canestro di tutti i tempi, la Baseline Move contro i Lakers in finale nel 1980.

Julius attacca il canestro da destra, appena dentro l’area stacca e vola verso canestro: davanti a lui in aria trova le lunghe braccia di Landsberger e l’aiuto di Jabbar. Poco male, The Doctor allunga il braccio oltre il tabellone per proteggersi, si estende al massimo, va dall’altra parte del ferro e lascia la palla con i polpastrelli con un finger roll per un canestro mai visto prima e mai più visto dopo.

Sono anni di magie continue, instant classics che entrano nella storia del gioco, movenze che partono dai parquet e finiscono per diventare oggetto di culto. Eppure, all’alba del 1983, Erving un titolo NBA lo deve ancora vincere. Ha la sfortuna di giocare negli anni di Magic e Bird e il sogno dell’anello si infrange continuamente in Finale di Conference o alle Finals.

Nel 1980 sembra essere l’anno buono: Jabbar nelle Finals esce per infortunio, ma un il rookie che qualche anno dopo sarà costretto a ritirarsi perché positivo all’HIV, deciderà di giocare da centro e dominare la serie dando ancora una volta il titolo ai Lakers.

Il 1981 è l’anno in cui Doctor J chiude da MVP della lega, ma si schianta contro i Celtics a pochi passi dalla finale, perdendo Gara 5 e 6 di due punti, e Gara 7 di uno, dopo un vantaggio iniziale di 3-1 nella serie. Si rifarà nell’82, con una vittoria che seppe di rivincita, in una serie mostruosa al Garden (ancora dopo aver sprecato un comodo vantaggio sul 3-1). In Finale, però, trovano ancora i Lakers, e anche questa volta è Magic ad avere la meglio.

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Erving è in difficoltà, arriva sempre ad un passo dal titolo, ma non riesce ad arrivare all’anello. Diventa una specie di ossessione, mentre le gambe iniziano a scricchiolare e naturalmente l’esplosività non può più essere quella degli anni ABA. La dirigenza Sixers decide allora di andare per l’all-in e porta in Pennsylvania uno dei centri più forti della storia NBA: lo strabordante Moses Malone.

Phila domina letteralmente la stagione regolare e alla vigilia dei Playoffs si presenta virtualmente imbattibile, tanto che sarà proprio Malone a pronunciare una frase entrata nella leggenda di questo sport. Quando un giornalista gli chiede come andranno i Playoffs, risponde “fo-fo-fo” che sta per 4-4-4, ovvero il numero di partite che sarebbero bastate per chiudere da imbattuti.

E Moses nei fatti sbaglierà ben di poco la sua previsione. I Sixers chiuderanno con un perentorio 4-5-4, perdendo una sola partita contro i Bucks e battendo – finalmente – i Lakers in finale. Il titolo di campione NBA 1983, finalmente, è di Julius Erving e dei Philadelphia 76ers. Giustizia sportiva è fatta: colui che ha cambiato per sempre il Gioco, dentro e fuori dal campo, è finalmente sul tetto del mondo.

Gli anni seguenti Phila ed Erving giocheranno ancora ad alti livelli, tuttavia inizia a mancare un po’ di fame e l’atletismo inizia a venire sempre meno. Ma chi inizia una rivoluzione, spesso, è capace di iniziarne altre, di essere innovatore in più campi. E allora nel 1986, alla vigilia della sua ultima stagione da professionista, Doctor J annuncia pubblicamente che sarà il suo ultimo ballo. E’ tra i primissimi a farlo e di certo il più amato di sempre dal pubblico.

Quella stagione servirà a rendergli definitivamente omaggio con una serie di sole-out infiniti nel corso di tutte le 60 partite giocate. Ogni campo gli tributerà un saluto speciale e gli omaggi arriveranno da chiunque, persino dai rivali più tosti di sempre. Il saluto del Forum di Inglewood e del Garden, con i tifosi di Lakers e Celtics ad applaudire il Sixer più temuto di sempre, è storia dello sport americano.

Ma la storia di Julius non è stata solo highlights e successi. Come spesso succede dietro a quei grandi sorrisi, si nascondono anche profonde ferite, come quella della perdita del fratello all’età di 19 anni. E ancora, la scomparsa per annegamento del figlio Cory nel 2000, anche lui all’età di 19 anni, un giorno che Julius ricorda come il peggiore della sua vita.

Ma l’energia che Doctor J ha sempre messo in ogni cosa che faceva, la gioia che ha saputo dare a così tanta gente nel periodo in cui giocava, il senso di cambiamento che ha rappresentato per le persone della sua comunità, l’impatto che è riuscito ad avere sulle vite di così tante persone, compresi i campioni di oggi, lo hanno sostenuto anche nei momenti più bui. Ciò che dai, ti ritorna indietro sempre. E’ una questione di energia, di felicità e sì, anche di libertà.

Julius Erving era libero di essere ciò che voleva essere. E nel farlo, senza saperlo magari, ha liberato anche tantissime altre persone.

Basta parrucche, pettini dai denti sottili. Basta finzioni. Se è vero che la nostra luce libera gli altri, quella di Julius ha spezzato migliaia di catene.