Tim Donaghy, ex arbitro ufficiale dell’NBA, ha vissuto una delle vicende più losche e controverse mai consumatesi nella storia della Lega. Riuscendo – nonostante sospetti, indizi alla luce del sole e indagini – ad uscirne per certi versi “pulito”.
«Tutto ciò che ho visto in questa storia sembra un film».
Non ci troviamo a Hollywood, è vero, ma abbiamo una trama degna di un premio Oscar, fatta di intrecci e situazioni improbabili; location perfette (dal Delaware a Philadelphia, passando per le isole Curaçao), FBI, un grande cast composto di arbitri; e poi bookmakers, delinquenti e altro… molto altro.
CIAK, SI GIRA!
Tim Donaghy nasce Havertown nel 1967 e passa tutta la sua infanzia nella Delaware County. Frequenta il liceo parrocchiale della contea, ed è lì che conosce per la prima volta i protagonisti fondamentali di uno dei casi più controversi della NBA. «Sono nato per fare l’arbitro». Eppure in questa frase si nasconde un duplice significato. Perché, seppur dotato di discreto talento, sono state delle altrettanto discrete conoscenze a portarlo, appena ventisettenne, a vestire il grigio delle casacche NBA; dopo cinque anni passati a fischiare nei campi liceali della Pennsylvania e sette in CBA. Fatte le doverose premesse, questa storia affonda le sue radici nel 1998, quando Donaghy, ormai già da quattro anni nella Lega, entra a far parte di un esclusivo club di West Chester. Qui stringe amicizia con alcuni dei golfisti iscritti e ha la possibilità di rivedere dopo anni i vecchi amici del liceo. “Scoprendoli” tutti uniti da un unico grande comun denominatore: l’irresistibile passione per le scommesse sportive. Non una grande novità per i nativi della Delaware County – o Delco, come viene chiamata la contea in Pennsylvania – abituati a masticare quote e puntate. A quel tempo l’amico più stretto di Tim è tale Jack Concannon, di professione venditore di assicurazioni. Come in molti all’interno del Club, anche Jack aveva un proprio allibratore di riferimento: Peter Ruggeri. Ma è il 2002 a rappresentare un punto di non ritorno: Donaghy decide infatti di iniziare a scommettere con Jack sulle partite NBA sotto la supervisione di Ruggeri, infrangendo rumorosamente – oltre a qualunque etica professionale – il regolamento della Lega, che vieta, come logico, ai propri arbitri di puntare su qualunque evento sportivo in essere; fatta eccezione – curiosamente – per le corse dei cavalli. Trascorso liscio il primo anno, nel 2003 i due alzano vertiginosamente la posta in palio. «Ero come un fumatore di marijuana che stava passando alla cocaina», scrive Tim nella sua autobiografia “Personal Foul”. A marzo di quell’anno, infatti, Tim e Concannon puntano per la prima volta dei soldi su una partita arbitrata dallo stesso Donaghy. Se le scommesse precedenti erano state solo “un piccolo grande strappo alle regole”, non ci vuole molto a capire come questa sia una gigantesca violazione. Ebbene, passeranno più di quattro anni prima che il tutto venga scoperto. Parte piano, è vero. Nella stagione del 2003 piazza solo un paio di scommesse su se stesso, ma l’anno successivo le cose gli scivolano di mano: supera le 30-40 giocate su eventi da lui diretti. I contanti accumulati con le scommesse drogate cominciano a diventare troppi, tanto da non sapere più dove nasconderli alle quattro figlie e alla moglie Kim. O meglio: ex moglie. Perché nel 2007, all’uscita al pubblico dominio dello scandalo, la moglie chiederà il divorzio, abbattendo con la stesura del libro “La moglie dell’arbitro” il muro d’omertà conservato intatto per più di 4 anni.
«Mentre stavo pulendo la divisa ufficiale da arbitro NBA ho trovato nella tasca un rotolo di bigliettoni da 100 dollari grande più o meno quanto la circonferenza di un’arancia».
La logica avrebbe dovuta portarla a chiedere al marito la provenienza di tutto quel denaro, ma la “paura” la sopraffece. Nello stesso momento delle prime grandi vincite del duo Concannon-Donaghy, un altro ragazzo dalla Delco si incammina dritto sul viale di ingresso di questa storia. Si chiama James Battista, che in poco tempo sarà ribattezzato James “The sheep” Battista.
Perchè questo soprannome? Mike Rinnier, un gambler rinomato arricchitosi grazie ai supermercati della contea del Delaware, apre un piccolo gruppo di scommesse sportive di nome “The Animals” per i giovani più disperati: la classe operaia con l’ambizione di guadagnare al più presto e il più possibile. Tra i giovani reclutati c’è un ex barista, ristoratore, spacciatore nonché vecchio conoscente di Tim Donaghy: Battista, per l’appunto; soprannominato – come tutti gli appartenenti a quel gruppo – con il nome di un animale. The Sheep. The Animals è una società formata da bookmaker illegali, obbligati per ovvi motivi a stabilirsi in luoghi in cui la legge non sempre è di casa. Individuata l’isola caraibica di Curaçao come loco eletto, costituiscono il sito di scommesse PlayASAP. Con il vecchio Peter Ruggieri coinvolto a pieno titolo in questa “agenzia”. Peter, ribattezzato “Rhino”, tra un cuba libre al Mambo Beach Tiki Bar, qualche partita a golf e un giro nel casinò del posto, svolge il proprio lavoro in maniera impeccabile. Tant’è che, registrando le puntate di un membro del famoso Club di golf, si accorge di una sottile incongruenza: costui, infatti, punta somme ingenti di denaro su determinate partite piuttosto che altre, vincendo quasi sempre dove gioca più dollari. E il tanto scaltro quanto fortunato giocatore altri non è che Jack Concannon. Negli uffici della PlayASAP, l’agenzia spulcia con attenzione pedissequa l’account di Concannon. Analizzano dalla A alla Z ogni suo movimento fino a scoprire, confrontando la terna arbitrale di ogni gara giocata e vinta, della diabolica alleanza con Tim Donaghy. Ovviamente The Animals, lontani anni luce dal pianeta della legalità, si guardano bene dal denunciare il fatto, girando sapientemente la cosa a proprio favore. Il gruppo segue a propria volta i “suggerimenti” di Concannon. Se Jack punta 5.000 dollari, i Battista&Co ne puntano 30.000, 50.000, 100.000, avendo tra le mani una “fortuna” inattesa e insperata.
«Abbiamo mai pensato che stesse truccando le partite? Si, certo che l’abbiamo pensato. Ma non ce ne fregava un ca**o, perché era un’informazione grandiosa da avere.»
Eppure, quando questi due sistemi perfettamente complementari vanno a gonfie vele, il vento cambia. James “The Sheep” Battista, dopo che PlayASAP fallisce per motivi ignoti – le fonti tacciono su questo dettagli – torna a Philadelphia e decide di mettersi in proprio, aprendo un’agenzia di scommesse nel dicembre 2006. Perché? Risposta facile: ha un asso nella manica, che corrisponde a Tommy Martino, grande amico in comune con Tim Donaghy sin dai tempi del Liceo. Un ponte perfetto, la chiave diretta per aprire le porte del Paradiso. Allora pronti via. Un freddo giovedì di metà dicembre 2006, alle 11 di sera, avviene il grande incontro mediato da Martino. Nei propositi una chiacchierata veloce in una sala d’attesa semi deserta dell’aeroporto di Philadelphia. Una stretta di mano a sigillare il tutto. Durante gli ultimi anni sono circolate più versioni di quest’incontro. Dall’ipotesi che sia stato lo stesso Tim a richiedere l’incontro, a quella secondo cui Battista abbia ripetutamente minacciato l’arbitro per averlo. Ma una cosa è certa: da quella sera Tim Donaghy non avrebbe mai più collaborato con Jack Concannon. Come mai? Battista era più conveniente?
No. O meglio, anche. Si narra che Donaghy abbia interrotto per un momento la trattativa. Si dirige verso il bagno, facendo segno a Tommy Martino di seguirlo. Anni dopo racconterà di come l’arbitro, quasi con innocenza, si fosse lamentato con lui dicendo: «Tommy, ci credi ca**o? Ci credi? Concannon sta facendo vagonate di dollari e non mi da nulla!». Tornano quindi al tavolo, per avvisare Battista di uscire. Poco fuori il Marriott Philadelphia Airport, su un’auto scura impregnata di un forte odore di marjuana, i tre definiscono l’accordo: $2.000 a Donaghy, solo se il risultato giocato è vincente. Il patto recita, quasi ridicolmente: «Non dirlo a nessuno, perché così ci metti nei guai». Il linguaggio segreto per passarsi il nome della squadra su cui scommettere è semplice. Martino ha due fratelli: uno, Johnny, che vive nel New Jersey; l’altro, Chuck, nella Delco. Tim avrebbe detto «Hey Tommy, salutami tuo fratello…» aggiungendo il nome del primo se la squadra su cui puntare era quella fuori casa, il secondo invece per quella in casa. La prima vera partita dell’era Donaghy-Martino-Battista è il 13 dicembre 2006: Boston Celtics contro Philadelphia 76ers in Pennsylvania. Tim dice a Martino di salutargli Johnny. Risultato finale? Boston 101 Philly 81 e primo malloppo portato a casa: $2.000 dollari in pezzi da $100, come d’accordo e $3.000 come premio. L’inizio della più grande e pericolosa complicità criminale all’interno del NBA. «Come sta tuo fratello Chuck?», «Johnny, tutto bene?» le due domande con cui, a seconda delle partite, i tre facevano soldi a palate. Ma Tim truccava realmente le partite?
Domanda da un milione di dollari. La risposta sembra facile, ma non lo è per nulla. Phil Scala, dell’FBI, se ne accorge ben presto. Phil era a capo del dipartimento FBI che si occupava del clan dei Gambino e da più di trent’anni aveva a che fare con le famiglie del crimine organizzato newyorkese. Un giorno, ancora una volta nel 2006, una spia del reparto di Scala arriva con una notizia shock: un arbitro NBA è al centro del mondo delle scommesse clandestine. Non c’è ancora un nome, solo la notizia che una gang affiliata ai Gambino è entrata nell’affare e sta macinando profitti senza sosta. Le scommesse sportive illegali non c’entrano niente con Phil Scala, ma smascherare e bloccare un qualsiasi tipo di guadagno della mafia sì, eccome. La squadra FBI dedicata ai Gambino si mette subito all’opera: ascoltano e riascoltano decine di registrazioni, analizzano messaggi e interrogano tutti i giocatori d’azzardo vicini alla famiglia mafiosa newyorkese, finché non emerge un nome: Tim Donaghy.
Il gioco dei due criminali sta per terminare, complice un evento sfortunato: mentre l’FBI riordina le idee, proprio James Battista subisce un ricovero. Battista e Donaghy, nel 2006 e all’inizio del 2007, ovviamente non sapevano ancora nulla della scoperta di Phil Scala e del suo team, ma avevano entrambi molta paura. Chi stava andando realmente fuori controllo però era la stessa “Pecora”, letteralmente divorato dalla paranoia. L’unico rimedio per procurargli un po’ di sonno erano pastiglie di Vicodin e Oxycontin, antidolorifici a base oppiacea. A volte si addormentava al ristorante, altre volte stava sveglio tutta la notte per giocare a Black Jack online o scommettere su alcuni sport che nemmeno pensava esistessero. E aveva cominciato così a perdere sempre più soldi. Il 15 marzo 2007 confessa alla moglie di aver perso circa 7 milioni di dollari dei suoi clienti. Su casa Battista si abbatte una tempesta senza precedenti. Due giorni dopo, come detto, si trova in un centro di riabilitazione sotto l’osservazione di una nutrita equipe medica. Il Business è chiuso: pochi giorni prima di trovarsi in una stanza d’ospedale in pigiama e con una serie di dottori al suo fianco, James Battista lascia le redini della sua “agenzia” in mano ai vecchi Animals. A gestirla è lo stesso Peter Ruggieri che in poco tempo, dopo aver scoperto dell’asse Donaghy-Battista, fa terminare lo show. Anche perché, finalmente, entra in gioco anche la stessa NBA.
Il 21 giugno 2007 Scala e altri agenti dell’FBI si presentano negli uffici della Lega per parlare degli affari tra un arbitro e il mondo delle scommesse clandestine. In sede nessuno si è accorto di nulla e il commissioner David Stern, profondamente turbato di essere all’oscuro di tutto, si dichiara ovviamente disponibile a collaborare con l’agenzia federale con ogni mezzo. Ad oggi l’agente Scala afferma: «Con il senno di poi, se ora mi chiedessero se avessi dovuto muovermi in modo diverso risponderei di sì: non sarei andato a parlare con Stern.». Perchè? Circa un mese dopo l’incontro con i “senatori” della Lega – Stern, Silver, Litvin e Tolbert – Donaghy si dimette da arbitro ufficiale NBA e la notizia dell’indagine dell’FBI esce in pompa magna sul New York Post. Se non fosse stata resa pubblica, Tim – come pianificato da Scala – avrebbe indossato un registratore e forse staremmo parlando più di arrosto che di fumo. Già, tanto fumo e niente arrosto. Perché oggi non abbiamo – e non avremo mai – la certezza che Tim Donaghy abbia davvero truccato le “sue” partite. Andiamo per ordine.
A metà luglio 2007 finalmente l’NBA si espone ufficialmente in una conferenza stampa tenuta da David Stern: «Donaghy è un delinquente e ha agito da solo. E’ stato un episodio di gioco d’azzardo, sì, ma quasi sicuramente non ci sono state partite truccate. Anzi, per le sue prestazioni in campo è ai primi posti nelle classifiche di precisione e rendimento». Parole che si commentano da sole semplicemente dando una rapida occhiata all’elenco dei probabili errori che hanno indubbiamente condizionato le partite. Eccoli:
- Il 30 gennaio 2007, a Dallas, Donaghy fischia un solo fallo contro la squadra di casa e ben 12 – di cui 6 di fila – contro i Seattle Supersonics. Dallas vince.
- A Miami, qualche giorno dopo, chiama 12 falli contro Charlotte: vince Miami.
- Poi in New Jersey fa uscire per falli Vince Carter, al tempo stella dei Nets: Toronto vince, quotata a 10,5.
- Al Madison Square Garden ne fischia 12 agli Heat e NY vince.
- Il 14 marzo a Indianopolis fischia 4 falli consecutivi contro i Pacers: I Wizards, dati a 6, vincono.
Sono solo alcuni degli episodi rilevabili come quantomeno strani che lo hanno visto protagonista. Cos’hanno in comune tutte queste partite? Battista si è sempre giocato la squadra vincente. Ritornando alla domanda precedente: Tim truccava realmente le partite? No. O meglio, no in base agli indizi raccolti e alle indagini che sono state fatte in seguito.
Larry Pedowitz, socio di uno dei più grandi studi legali di New York, conduce infatti l’inchiesta per conto dell’NBA. La sua missione è guidata da due domande: se Donaghy qvesse truccato le partite e, se sì, con quali modalità. Per rispondere a questi quesiti, Pedowitz forma una squadra composta da un team di quattro altri avvocati, per riuscire ad analizzare il numero maggiore di incontri arbitrati da Donaghy. Inspiegabilmente, ad oggi sappiamo che il numero di partite passate al setaccio dal team legale incaricato dall’NBA di approfondire il caso scommesse è solo pari a 17. Pedowitz, anche grazie a Ronnie Nunn – direttore degli arbitri della Lega tra il 2003 e il 2008 – esamina ogni tipo di fischio all’interno degli incontri selezionati e arriva a una conclusione: solo un match di questi può essere davvero definito “truccato”. Una sola partita. Detroit Pistons-New Jersey Nets del 16 dicembre 2006, appena qualche giorno dopo l’incontro tra Battista e Donaghy all’aeroporto. 5 falli fischiati consecutivamente contro New Jersey, chiamati quando il risultato era ancora in bilico. Una sola gara su 17 non basta per sostenere che Tim Donaghy abbia truccato “molte” partite. L’unico modo per incastrare Tim, quindi, è quello di ottenere un suo “mea culpa”, una confessione di colpevolezza. Una sua dichiarazione in cui ammetta di aver ritoccato gli incontri NBA a suo piacere. Questo, ovviamente, non accadrà mai. Anzi, in innumerevoli interviste e nelle udienze in tribunale ha sempre ribadito di non aver mai imbrogliato in nessuna partita. Eppure non è così arduo pensare che Donaghy non la racconti giusta. Come giustificare il suo “conflitto di interessi”? Come poteva prendere decisioni importanti da arbitro se allo stesso tempo aveva una scommessa in gioco proprio su quella partita? Impossibile che la sua mente non sia stata influenzata. A confermare che Tim Donaghy non avesse mai truccato alcuna partita non era solo lui, ma anche l’NBA stessa, che lo ha sempre protetto. «E’ categoricamente impossibile truccare una partita della National Basketball Association», dicevano all’FBI. Il risultato di questa faccenda è a dir poco risibile:
– Tim Donaghy 15 mesi di carcere
– James Battista 15 mesi di carcere
– Tommy Martino 12 mesi di carcere
Una cosa, però, è certa: si è scoperto che un gruppo di scommettitori accaniti può facilmente destabilizzare e influenzare una partita NBA. Perché dunque la Lega non ha mai ammesso esplicitamente di avere tra le sue fila un arbitro che truccava le partite? Perché ha tenuto molti lati di questa vicenda nascosti? Con ogni probabilità questo è il vero quesito irrisolto, perché è proprio quello che ha mantenuto i riflettori accesi su questo caso fino a oggi, senza mai riuscire a voltare definitivamente pagina. La verità è che l’NBA ha sempre avuto paura. Di perdere in toto la propria credibilità. Una macchina perfetta non può avere meccanismi difettosi, specie se si tratta del brand sportivo più influente ed importante al mondo. Sicuramente questo “incidente” poteva essere chiuso prima, con un esito differente. Magari più severo nei confronti di criminali puniti dalla legge in modo oltremodo leggero. Di contro, ha senz’altro reso gli appassionati per l’ennesima volta consapevoli che l’avidità e la corruzione si annidano nelle pieghe di ogni attività umana, e quindi anche nello sport. Pratica che per definizione dovrebbe essere trasparente, corretta e imparziale. Perché, come sosteneva Pierre de Coubertin, il fondatore dei moderni Giochi Olimpici: «Per ogni individuo lo sport è una possibile fonte di miglioramento interiore». In tutta questa faccenda, una dichiarazione di intenti così integra e retta è stata senz’altro dimenticata.