Dal terribile infortunio che ne ha minato la carriera ai suoi albori alla rinascita sancita dal titolo del 2015 conquistato con i Golden State Warriors. Storia di Shaun Livingston, uno dei massimi esempi di resilienza che la Lega abbia mai conosciuto.

Vi siete guadagnati il diritto di essere qui. Vi siete guadagnati il diritto di giocare questa gara. Ma dobbiamo sudarci ancora una cosa… ed è appunto QUESTA partita, la partita di stasera. Nessuno la dia per scontata.

Steve Kerr incrocia gli occhi di ognuno dei suoi ragazzi. Li scruta, cerca di tranquillizzarli con ampi gesti delle mani e un’espressività il più possibile rivolta alla pace interiore. Ovunque si volti vede concentrazione, ascolta il rumoroso silenzio di menti concentrate e proiettate verso un unico obiettivo.

Lo spogliatoio dei Golden State Warriors è una cattedrale scandita dai ritmi dei metodici delle liturgie pre-gara di ciascun giocatore.


Klay Thompson ripassa con lo sguardo apparentemente perso nel vuoto il piano partita: sa che fin da subito dovrà rappresentare il killer silenzioso dei Cavs su entrambe le metà campo; anche se questi ultimi, sotto 3-2 dopo essere addirittura stati avanti e aggrappati disperatamente ad un LeBron James orfano di Kyrie Irving e Kevin Love, appaiono come una bestia ferita in attesa del colpo di grazia.

Ed è per questo che vanno temuti ed onorati.

Curry si soffia nei pugni chiusi, a scaldare quelle dita che fino ad allora hanno prodotto più di 26 punti di media in 5 gare. Si raccoglie per un momento in se stesso: vincendo quella sera, coronerebbe una stagione che lo ha portato a battagliare con lo stesso James per lo scettro della Lega, aprendo definitivamente un ciclo con il primo Titolo in carriera e il terzo dopo 30 anni nella storia dei Warriors.

Draymond Green, invece, rivolge ai compagni parole da condottiero emotivo, per ispirarli.

Qualcuno, tuttavia, non ha bisogno di parole altrui per sentirsi ispirato.

Sotto la targhetta numero 34 del proprio armadietto, Shaun Livingston siede, in silenzio. L’asciugamano avvolto attorno al collo, le braccia conserte.

Come per tutti i suoi compagni, quelle sono le sue prime NBA Finals. Come tutti i suoi compagni, è a 48 minuti dal massimo livello di estasi raggiungibile da qualunque atleta: la vittoria.

Lascia che la sua mente accarezzi questa idea, la accolga tra le sue braccia. Un momento di contemplazione di ciò che sta vivendo, pensando a come vi è arrivato. Smette le braccia conserte, appoggiando entrambe le mani sulle cosce. In particolare la sinistra si allunga sul ginocchio. Lo tocca, lo sfrega per scaldarlo.

Il pensiero vaga tra le insenature della sua carriera, del percorso che lo ha condotto sino a quella Gara 6.

Sospira profondamente, per placare un battito cardiaco ritmato dalla fisiologica tensione. E chiude gli occhi.


Il pallone, imbizzarritosi tra le mani di Derek Anderson, rimane sospeso per un istante. La guardia dei Bobcats ne ha appena perso il controllo, complice anche la forte difesa di Cuttino Mombley; con un tuffo cerca disperatamente di riacciuffarne le redini, di sottrarlo da un agguato che sembra ormai prospettarsi inesorabile all’orizzonte.

2.01 metri, e 211 centimetri di apertura alare. Recuperare quella palla vagante assume i connotati di una pratica irrisoria.

In due palleggi e un’effimera manciata di falcate colma il vuoto che separa la linea da tre difensiva e il canestro avversario. Una galoppata inarrestabile, le treccine della sua pettinatura afro a scandirne ritmicamente ogni passo. Imprendibile di certo per il suo difensore, che con un fuori giri nel proprio motore tirato al massimo finisce fuori dal campo non appena prende contatto.

Un contatto impercettibile. Che parrebbe non alterare la sua traiettoria, né le sue intenzioni. Eppure, come un soffio beffardo sulla prima tessera di un domino malefico, innesca un meccanismo incontrollato. E, nelle mani di un buio Destino, incontrollabile.


Le prime 3 Gare della serie erano state parecchio complicate per i Warriors. Scontri equilibratissimi nei quali un Lebron James rispettivamente da 44-8-6, 39-16-11, e 40-12-8 aveva fatto il bello e il cattivo tempo. E se in Gara 1 Golden State era riuscita a spuntarla in un overtime difensivo da urlo – 10-2 il parziale nei minuti extra – altrettanto non poteva dirsi di G2 – nella quale i Cavs erano riusciti a strappare il fattore campo portando la serie a Cleveland in parità – e del ribaltone di G3.

In tutte e tre le partite Kerr aveva optato per Bogut nel quintetto base, facendo subentrare Iguodala dalla panchina.

Livingston era il settimo uomo, play delle seconde linee con interesse principale rivolto alla difesa e al far rifiatare Curry. Un ruolo per il quale era necessario un grande impatto in un minutaggio ridotto, con scelte offensive il più possibile chirurgiche e massima attenzione a catalizzare il gioco.

Era stato fortemente voluto in estate dal GM Bob Myers proprio per questo motivo: avere un’alternativa di talento che coprisse il minutaggio residuo di Curry, offrendo anche soluzioni di convivenza con quest’ultimo. Era passato dagli oltre 26 minuti in campo con la casacca dei Brooklyn Nets ai 18 circa concessigli da Kerr, nel corso dei quali, durante le 78 gare di Regular Season disputate, aveva prodotto 5.9 punti e 3.3 assist di media con il 50% dal campo su 5 tentativi. E in un ruolo nel quale Steph faceva propendere il proprio ago della bilancia verso il versante offensivo, disporre a roster di una PG di quelle dimensioni, in grado di poter cambiare difensivamente su più ruoli, garantiva importanti possibilità di adattamento a diverse situazioni di gioco.

Gara 4 aveva rappresentato la svolta: complici diversi acciacchi fisici, Bogut era stato sollevato dal ruolo di 5 titolare; il coaching staff, con una mossa geniale, aveva così promosso Iguodala tra gli starters, facendo scalare Harrison Barnes e Draymond Green rispettivamente negli spot di Ala Grande e Centro. Per una squadra che aveva enormemente sofferto l’esplosività James negli switch difensivi, una Small Ball fatta di meno centimetri ma decisamente più atletismo poteva avere un impatto molto più immediato sin dai primi minuti di gioco.

Questa scelta, oltre ad aver giovato decisamente sull’equilibrio nei primi quarti degli inesperti Warriors, aveva fatto sì che Livingston per conseguenziale carisma tecnico avesse preso il ruolo di Iguodala in uscita dalla panca.

In Gara 4 il nuovo sesto uomo aveva spiccato sui compagni per solidità con un favoloso +25 di Plus Minus in 24 minuti di impiego, nei quali aveva supportato la squadra non solo difensivamente come da copione – 8 rimbalzi, 1 rubata e 1 stoppata – ma si era anche preso glacialmente delle ulteriori responsabilità offensive – 7 punti con 2/4 al tiro e 3/4 ai liberi. Risultando nel complesso determinante nel pareggiare i conti nella serie.

Vista l’efficacia del nuovo assetto, Kerr lo aveva riproposto invariato anche nella vittoriosa Gara 5, in cui Livingston era stato chiamato a gestire con ordine il pace offensivo dei Warriors permettendo a Curry – nel quintetto col doppio portatore – di giocare maggiormente off the ball e potersi così concentrare sui suoi 37 punti finali, frutto di un irreale 7/13 da 3 punti.

Riapre gli occhi. È tempo di andare sul parquet della Quicken Loans Arena per rompere il ghiaccio con le proprie emozioni e iniziare a sciogliersi.

Superata la cerimonia del passaggio nel tunnel degli spogliatoi, una volta sul campo l’atmosfera si fa quasi ovattata. E il riscaldamento rappresenta un’ulteriore possibilità di confronto con se stesso. Ogni serie è il frutto di più storie nella Storia. La sua, dopo il crocevia di Gara 4, era cambiata radicalmente. Onore e onere per chi deve essere pronto qualunque cosa accada.

Era stata la tranquillità e la maturità con cui aveva affrontato il suo nuovo ruolo. Si parlava comunque di un atleta di 30 anni, nel pieno della consapevolezza della propria carriera seppur alla prima apparizione alle NBA Finals. Livingston, anche paragonato ai mostri sacri Curry, Thompson e Green, era a tutti gli effetti un veterano a cui vacillare emotivamente non poteva essere concesso.

Eppure, se si parla di consapevolezza, quella che invade i suoi occhi dona agli stessi una luce ferma e risoluta. Speciale. Perché se un lontano e gelido febbraio di 8 anni prima gli avessero parlato della possibilità di giocarsi il Titolo da sesto uomo in una serie di NBA Finals si sarebbe visto scuotere malinconicamente il capo. Trovandosi nel buio di un futuro che da luminescente si era fatto, di colpo, pesto.


Si libra, apparentemente sinuoso, per appoggiare comodamente al tabellone. Chi lo guarda ha come l’impressione che galleggi in aria. Eppure dentro di sé una sensazione di disequilibrio lo pervade.

Allarga le gambe per cercare di coordinarsi nuovamente. L’aria si trasforma in un muro, il volo in uno schianto rovinoso. Atterrando sul legno, il piede sinistro si inchioda al di fuori del cilindro nel quale giace il suo baricentro, totalmente non in grado di sostenere il peso del corpo. Il ginocchio, facendo descrivere alla gamba intera un angolo grottescamente innaturale, cede brutalmente.

Il rintocco sinistro della campana del Destino riecheggia nell’aria dello Staples Center, dopo appena 2.40 minuti nel primo quarto di un’anonima Bobcats-Clippers, in un altrettanto anonimo 26 febbraio dell’anno 2007. In un’azione routinaria per qualunque giocatore di pallacanestro, quasi a voler rimarcare lo stridere di un evento così tragico rapportato ad un contesto così… normale.

Ad esserne vittima è un ragazzo di 21 anni, reduce dalla prima doppia doppia in carriera – 14 punti e 14 assist nella vittoria contro i Golden State Warriors – appena due giorni prima.

Un playmaker totalmente sui generis per tecnica correlata alle dimensioni, entrato nella Lega con la 4a scelta al Draft 2004. Attorno al suo nome le speranze del Predestinato, a gravare sulle sue spalle i paragoni con i più grandi: per caratteristiche fisiche, infatti, i suoi 201 cm erano stati più volte associati ai 206 di Earving Magic Johnson, mostro sacro della compagine antagonista dei suoi Clippers, che in lui credeveano a ragione di aver trovato il proprio futuro.

Dopo due stagioni adattato a guardia, vista la presenza di un interprete del ruolo come Sam Cassell nello spot di Point Guard, il 2007 stava coincidendo con l’esplosione di un giocatore straordinario per mentalità e propensione alla crescita, visto e considerato il doppio salto dai fasti di Peoria Central High School nel natìo Illinois ai piani alti della Los Angeles meno nobile. Doppio salto con il quale aveva bypassato la lauta borsa di studio offerta da Duke per poter beneficiare dei suoi talenti, inserendosi con titolo di “liceale prodigio” all’interno dell’universo professionistico più competitivo al mondo.

Shaun Livingston è a terra, gli occhi e i denti serrati in una smorfia che nemmeno lontanamente riesce a sfogare il lancinante dolore fisico ed emotivo che sta devastando il suo fisico e il suo cuore. Il ginocchio sinistro stretto al petto quasi fosse un fanciullo inerme e indifeso.

L’orrida deviazione che colpisce la sua articolazione è il frutto della rottura dei due legamenti crociati – anteriore e posteriore – del legamento collaterale mediale e del menisco laterale, ai quali si vanno ad assommare la lussazione della rotula e una conseguente dislocazione – consensuale a quella dell’intera struttura del ginocchio – del nervo tibiale e soprattutto dell’arteria poplitea; dettaglio questo non di poco conto, considerate le componenti motorie e sensitive portate dal primo – con principali rischi di perdita di sensibilità locale – e la vascolarizzazione apportata dalla seconda, soggetta – se torta o dislocata – a rischio concreto di ischemia dai risvolti devastanti per un arto lasciato senza irrorazione del sangue.

Più di 15’000 anime si chiudono in un silenzio tombale, spettatori di una tragedia che, inesorabile, si sta consumando davanti ai loro occhi.

Su di lui accorre il medico dei Clippers, il dottor Shimoyama. Prontamente gli afferra la gamba e, a malincuore sordo ai suoi gemiti, riduce delicatamente il più possibile l’articolazione deformata.

I sanitari lo caricano poi su una barella. Il pubblico applaude. Un fotografo immortala il momento, al contempo struggente e cinico per la straordinarietà dello scatto: Shaun è seduto sul lettino, in silenzio. Negli occhi un’espressione distrutta, rassegnata… persa nel buio vuoto di ciò che verrà, del futuro che lo attende. Sul suo volto, martoriato e quasi rassegnato, si legge fugace un solo pensiero: e adesso?


Celestiale. Era stata la pallacanestro dei Warriors del 28-15 del primo quarto. Un’orchestra che sotto la guida del direttore in maglia blu numero 30, coadiuvato da Andre Iguodala e Draymond Green, aveva offerto al mondo intero una prova superba su entrambe le metacampo per coesione di intenti e armonia di ruoli.

Celestiale. Era stata la pallacanestro di LeBron James nel primo ma soprattutto nel secondo periodo. All-Around dei Cleveland Cavaliers disperatamente aggrappati con le unghie e con i denti alla serie e con più di una speranza di poterla riaprire.

Livingston aveva sostituito Thompson a circa 3 minuti dalla fine del primo periodo, segno che Kerr non voleva rinunciare all’imprevedibilità di Steph ma al contempo voleva sgravarlo della fatica fisica di dover, ogni singola azione, portare palla nell’altra metà campo. Nel secondo periodo aveva sofferto, come tutti i compagni, il contagioso strapotere fisico del Re, che aveva portato la partita ad altissime frequenze di intensità. Essendo G6 di NBA Finals il tutto era preventivabile. + 2 Warriors all’intervallo sul 45-43.

Era rientrato nel terzo quarto con Golden State avanti di 5. Concentrato, mentalmente duro. Dopo circa un minuto dal suo avvicendamento in campo, aveva siglato i suoi punti numero 3 e 4 con un layup in penetrazione dal palleggio, arrampicandosi con le sue braccia infinite dopo un arresto di potenza sopra Jones, che nulla aveva potuto sulla sua verticalità.

Qualche azione dopo aveva ricevuto in punta fuori dalla linea del tiro da 3, di fronte Iman Shumpert. Un paio di palleggi a sinistra, esitazione, crossover a destra e split frapponendo il proprio corpo a quello del numero 4 in maglia Cavs, per potergli tirare in testa indisturbato dal centro dell’area. Suo autentico marchio di fabbrica. Kerr nel Game Plan gli aveva chiesto di entrare e spaccare la partita. Lui aveva dato principio ad un mini parziale Warriors, che cercavano sempre più di perdere contatto con gli inseguitori.

Il grande equilibrio dato gli era valso l’inizio del quarto periodo con Golden State sopra di 12 punti sul 73-61. A 8.43 dalla fine del quarto periodo, Iguodala finge un consegnato a Curry e divora in palleggio un Jones fisicamente alle corde. In aiuto sulla sua penetrazione piomba niente meno che LeBron James, che nei mille switch difensivi prodotti dai Warriors era finito accoppiato con Livingston sul lato debole, a liberare la linea al compagno. Iguodala alza la parabola del suo layup, che si infrange prima contro il tabellone e poi contro il ferro.

Il pallone si impenna timidamente, rimanendo sospeso per un istante. Shaun, fino a quel momento sornione e apparentemente passivo nell’azione, si libra in aria.


“Amputazione”. Una parola asciutta, fredda. Dura.

“Amputazione” era stato il pensiero che aveva sfiorato le menti dei medici. Una gamba così disastrata avrebbe anche potuto non sopravvivere. Ciò significava non solo la fine della carriera professionistica per un giocatore che quasi non l’aveva nemmeno iniziata, ma anche una serie di collateralità nella vita quotidiana che Livingston fino a 24 ore prima non aveva nemmeno lontanamente immaginato o preventivato.

Era rimasto solo un pensiero, perché la prontezza della manovra del dottor Shimoyama aveva concesso all’arto pur sofferente di essere preservato. Già ma adesso? Quale futuro? Quali prospettive?

Lottare contro le avversità ti permette di poter sperimentare chi sei veramente e il punto in cui ti trovi; di vedere ciò di cui realmente sei capace.

Dopo lo smarrimento iniziale le prospettive e il futuro vengono frammentate in micro obiettivi: dal letto d’ospedale passare a camminare lentamente, dal camminare lentamente al farlo velocemente; dal camminare velocemente al correre, al cambiare direzione e velocità, avanti e indietro; dal correre a saltare, al scivolare difensivamente.

Credo che la paura dell’ignoto ci sia sempre. Ma che al contempo ti permetta di svegliarti la mattina convinti che sia un nuovo giorno da cui ripartire. E in cui credere per ricostruirsi.

Con l’aiuto di Judy Seto, specialista nella riabilitazione, in qualche mese torna a recuperare i gesti motori di base. Next Step. Si chiude in palestra, per rafforzare la muscolatura e riabilitare l’articolazione alle sollecitazioni cui è soggetto un giocatore di basket professionista. Perché quello si reputa ancora fermamente: non può accettare il rintocco di quella campana. Il suo destino profuma ancora del cuoio del pallone e del legno del parquet.

Il “futuro Magic” deve ricostruirsi e senza la scolarizzazione del college la faccenda è tutt’altro che semplice. Servono forza d’animo, comprensione dei propri limiti e di come spostare l’asticella dei suddetti, oltre che una profonda conoscenza e propensione allo studio del Gioco.

“Ogni giorno è un giorno nuovo da cui ripartire. Ed in cui credere.” Ore e ore di esercizio fisico, di fondamentali sul tiro, passaggio e trattamento di palla. È conscio che sarà pressochè impossibile tornare l’atleta esplosivo e resistente di prima, ma a 22 anni la vita e il suo amore per il Gioco non possono essere soffocati così.

Dopo un anno un’equipe medica attonita gli autorizza il ritorno in campo. Livingston a tratti è evidentemente non fluido, ma comunque ha centrato il punto. 20 mesi dopo, uscito dal contratto coi Clippers, firma per i Miami Heat. Per i quali giocherà la miseria di quattro partite, prima di essere ceduto ai Grizzlies per una scelta protetta top 55 (!), i quali lo taglieranno immediatamente.

Firma per i Thunder, i quali lo inseriscono nel roster della loro compagine di D-League. È il 2009. In maglia OKC gioca 18 partite, prima di finire prima a Washington, poi – ironia della sorte – ai Bobcats, in seguito a Milwaukee, poi di nuovo a Washington e infine ai Cavs, in un giro di trade che pare un flipper. Dal 2009 al 2013 gioca 252 gare a variegati minutaggi ma sempre con un dogma ben chiaro in mente: versatilità.

L’esplosività non è più la sua arma migliore, ma altezza e wingspan non sono cambiate. Se sfruttate in maniera intelligente sono un bene di enorme qualità. E questo, assommato al fatto che spicchi come giocatore di alto QI, fanno sì che diverse antenne si alzino all’interno della lega.

In particolare quelle dei Brooklyn Nets, che dopo 6 anni riconoscono in lui un giocatore autentico e un playmaker da quintetto: delle 76 gare disputate nella stagione 2013-2014, 54 le inizia da titolare. In campo mette tutte le qualità che ha imparato a limare e costruirsi nel corso degli anni, oltre che una caratteristica che non tutti posseggono: un cuore temprato dalla sofferenza e forgiato nella resilienza. Il talento non era mai mancato.

La pallacanestro espressa in un’annata decisamente positiva da 8.3 punti, 3.2 rimbalzi, 3.2 assist e più di 1 steal a gara in oltre 26 minuti di impiego spingono Bob Myers a volerlo come parte integrante del progetto Warriors. Costruiti con un solo obiettivo: vincere.

Gioca una stagione di sacrifici, che lo portano ad avere un ruolo determinante per gli equilibri di una delle squadre più spregiudicate ed innovative della storia della Lega. In una cavalcata che porta Golden State sotto la guida del Rookie Steve Kerr a compiere il passo decisivo rispetto all’ottimo lavoro svolto nelle annate precedenti dal Reverendo Jackson: le NBA Finals.


La schiacciata che inchioda sulle spalle di Mozgov non è solo quella del +10 a 8 minuti e spicci dal Titolo. Ma è anche la rifioritura luminosa e definitiva della sua rinascita agli occhi del mondo. In quel gesto, apparentemente anonimo e non difficoltoso – perché nemmeno ben contestato dal russo – risiede l’essenza di Shaun Livingston e il superamento della sofferenza da parte di un talento cristallino che ha rischiato di non vedere mai più la luce.

E se per certi versi ci si interroga su chi effettivamente sarebbe potuto essere, d’altro canto bisogna avere la forza di superare la malinconia dei se per sottolineare l’incredibile forza ed ispirazione dei fatti.

Quelli che hanno portato un ragazzo a divenire un uomo nello spazio di una caduta, e l’uomo un modello in primis per se stesso e in seguito per chi lo ha potuto vedere giocare conoscendo la sua storia.

Ed è qui che sta la grandezza di Shaun Livingston: aver reso ordinario lo straordinario senza mai dare nulla per scontato ma, tanto meno, per impossibile.

Certo, l’infortunio ha fatto parte del mio percorso, non posso far finta che non sia così. Credo però al contempo che essere in questo punto della mia carriera, Campione NBA con questa squadra, sia una sorta di cerchio che si chiude.

Il Larry O’Brien che avrebbe sollevato qualche minuto dopo rappresenta infatti il saldo del credito nutrito nei confronti di un Destino che ha saputo affrontare a testa alta, non accettando mai – come è nell’indole dei più grandi – la parola “impossibile”. Ma venendo intelligentemente a patti, invece, con la parola “compromesso”.

Cosa che, oltre ad avergli fornito una carriera letteralmente insperata, gli avrebbe poi regalato altri due anelli; e, di diritto, il proprio posto all’interno della Dinastia Warriors e nella Storia della Lega.