Abbiamo avuto modo di intervistare coach Will Weaver, ex assistant coach di Nets, 76ers e Rockets, oltre che della nazionale australiana.

FOTO: NBA.com

In onore della terza edizione di “Jr. NBA Coaches – Online“, abbiamo avuto la grande opportunità di intervistare coach Will Weaver, ex assistente allenatore di Philadelphia 76ers (2013-2016), Brooklyn Nets (2016-2018) e Houston Rockets (2020-2022), oltre che campione di Conference in G League con i Long Island Nets e NBA G League Coach of the Year nel 2019.

Weaver ha rivestito anche un ruolo di rilievo all’interno del coaching staff della nazionale australiana, iniziando come assistant coach dei ‘Boomers’ sotto Brett Brown fino a diventare tassello fondamentale del gruppo che ha ottenuto la medaglia di bronzo ai Giochi Olimpici di Tokyo 2020.

Partito come allenatore universitario in Texas e affermatosi anche in Australia nella NBL come Head Coach dei Sidney Kings, ad appena 38 anni coach Weaver ha già raccolto numerose esperienze, consolidandosi come una personalità di spicco soprattutto nelle formazione e nello sviluppo dei giovani, allo stesso tempo in grado di far parte anche di realtà competitive, come dimostrano i successi da Head Coach in G League e NBL, per non parlare delle campagne vincenti con i Boomers.

L’allenatore terrà un clinic oggi, giovedì 14 luglio (ore 18:00), per “Jr. NBA Coaches – Online”, evento che sarà fruibile scaricando l’app OWQLO, seguendo le indicazioni riportate nel seguente estratto di un comunicato stampa:

Aperta ad utenti di tutti i livelli e competenze, dai 16 anni in su, l’app includerà sessioni con varie offerte di contenuti rese ancora più stimolanti grazie alla presenza di coaching clinics live moderati dall’operation team dell’NBA e da diversi allenatori NBA attuali e non.

I fans possono trovare maggiori informazioni su owqlo.com, gatorade.it e @NBAItalia su Facebook, Twitter e @NBAEurope su Instagram. Per informazioni generali sul programma Jr. NBA, gli interessati possono visitare i social Facebook, Twitter e Instagram.

Ecco, infine, l’intervista a coach Will Weaver, che ha risposto alle seguenti domande, poste da noi e dagli altri media presenti all’evento.


Non tornerà con i Rockets il prossimo anno: quale sarà la tappa successiva della sua carriera?

L’esperienza che si acquisisce è qualcosa che si apprezza sempre di più andando avanti allenando. Quello a cui penso sempre è il numero di giocatori che ho potuto seguire durante questo tragitto, poterli aiutare nel provare a raggiungere obiettivi sempre più alti, facilitarli nel percorso verso i loro sogni. Questo è un privilegio che non avevo previsto cominciando questo viaggio.

Le mie speranza sono quelle di diventare capo allenatore in NBA un giorno, e sono molto grato della possibilità che ho avuto di essere head coach della nazionale australiana e in G League. Sono anche consapevole che questo non è un percorso lineare, quindi posso solo sperare di incontrare persone che apprezzo, che condividano il mio entusiasmo per la pallacanestro e che si concentrino sui modi di aiutare giocatori a crescere. Sono felice di poter interagire con altri allenatori durante questo viaggio, i quali condividono il mio stesso spirito.

Come può descrivere la sua esperienza da assistente in NBA, spiegando le differenze nell’allenare una squadra in sviluppo rispetto a una competitiva?

Quando sono arrivato a Philadelphia e Brooklyn, queste erano due squadre senza particolari Draft asset, né con grandi star su cui fondare un cammino fino ai Playoffs. Come prima esperienza da allenatore professionista è stato come leggere l’inizio di una storia, capire quanto sia arduo, la fortuna di cui hai bisogno e quanto sudore devi versare per far diventare una squadra NBA quello che sono ora i Sixers. Partire dall’inizio di questo percorso è stato incredibile e mi ha ripagato. Quando vedi crescere ragazzi come Jerami Grant, Nerlens Noel, TJ McConnell o Caris LeVert, arrivati come fossero dei cuccioli, questo è un sentimento particolare.

Sono stato anche abbastanza fortunato da avere un’altra fetta di questa esperienza. Quando ho allenato in G League, ma anche i Sidney Kings e la nazionale australiana, queste erano tutte squadra arrivate fino alle fasi finali delle rispettive competizioni. Soprattutto con l’Australia siamo stati vincenti in molti tornei che abbiamo svolto e siamo saliti al terzo posto nel Ranking mondiale. Nei miei due anni da head coach della nazionale ho avuto un’esperienza molto riconducibile a un livello Playoffs, sospesi fra un tiro segnato e uno sbagliato, studiando nel dettaglio gli avversari, al contrario di quanto accadeva nella regular season NBA, dove ero più concentrato sullo sviluppo a lungo termine dei giocatori. Sono grato di aver avuto un’intera panoramica.

Ci può dire quali sono stati i suoi giocatori preferiti da allenare e spiegarci i motivi?

Il primo che mi viene in mente è Alperen Şengün, sono stato molto fortunato a lavorarci la passata stagione. Ho una gran considerazione di lui come persona e credo anche che abbia un futuro molto luminoso davanti, ha la fame di diventare qualcosa di grande. È vicino al livello dei migliori giocatori NBA che abbia allenato, ed è una persona molto dolce, ha legato molto con mio figlio, che lo chiama “Big Horsey Man” perché lo ha portato in spalla. Questo incarna molto bene il tipo di comportamento che mantiene nell’essere un compagno di squadra, e sono molto curioso di vedere dove arriverà la sua carriera.

Un altro che mi viene in mente è Matthew Dellavedova, non ho mai avuto un giocatore come lui. Ricordo quando eravamo alla World Cup del 2014, cercavo di spiegargli uno schema avversario e lui mi ferma dicendo “Lo so”, spiegando poi nel dettaglio la soluzione per ostacolarlo. La mia reazione è stata: “Ok, sei già due passi avanti a me. Grazie, lo apprezzo, io ci ho messo tre settimane di lavoro e tu hai risolto tutto in circa 12 ore”. Credo che questo spieghi alla perfezione la sua intelligenza cestistica. Il solo essere accanto a qualcuno che fosse così concentrato, che studiasse più duramente di qualsiasi allenatore e che si impegnasse così tanto per aiutare i compagni – dalla panchina, negli huddle, prima o dopo la partita – fa capire quanto sia un agonista implacabile e uno dei migliori professionisti che abbia mai allenato.

Quali sono le qualità più importanti per avere successo come allenatore?

Per prima cosa, essere umile, sono stato molto fortunato nello stare attorno alle persone che ho conosciuto. Credo che chiunque sia stato abbastanza fortunato da lavorare a lungo nella pallacanestro professionistica apprezzi sempre più nel tempo quanto sia dura trovarsi in questa posizione e svolgere il lavoro che ama. Tutto inizia da questo impegno e dal piacere che deriva dallo sport, questo è il prerequisito davanti a tutti gli altri. Ci sono un sacco di sfide che devi affrontare da allenatore professionista: cene, compleanni, matrimoni persi, cose che succedono quando viaggi così tanto. Non saprei quantificare il numero di bus a noleggio su cui mi sono seduto, e qualche volta capita un imprevisto, il tuo volo viene cancellato, l’orario in cui dovevi arrivare a cena cambia e te la perdi. Quindi, a meno che tu non sia davvero dedito allo sport, imparando a fare tutto ciò che serve per aiutare giocatori e allenatori, queste sfide ti faranno a pezzi.

Credo che un altro requisito fondamentale nel coaching moderno sia l’apertura mentale. Comprendere che un allenatore prima di te, tuo padre o tua madre, o un giocatore della tua zona abbiano fatto qualcosa in un determinato modo non significa che quello sia il modo giusto per ogni situazione. Anzi, ho apprezzato molto l’opportunità di poter imparare guardando altri sport. Mi viene in mente il calcio europeo, dal quale mi sono divertito ad imparare molto perché penso abbiano saputo risolvere molti dei problemi che stiamo cercando di risolvere nella pallacanestro americana. Ho avuto modo di seguire football, rugby, cricket, calcio, ciclismo e vari sport olimpici in Australia, e ogni volta ne esco depresso, con la consapevolezza che stiamo cercando di risolvere problemi che da qualche altra parte nel mondo sono già stati risolti, chiedendomi se vogliamo goderci una migliore esperienza sportiva o vincere una partita in più.

Qual è la sua opinione su G League e NBL, piattaforme importanti per lo sviluppo dei giovani, e su G League Ignite?

Ho una considerazione enorme per quanto sia difficile costruire l’ambiente ideale per aiutare i giocatori a svilupparsi. Ci sono molti allenatori che hanno passato una carriera asserendo che fossero loro a fare il duro lavoro, a costruire il successo di un giocatore e che senza di loro nessuno ci sarebbe riuscito. Ma, in realtà, quello che noi possiamo fare è solo costruire un ambiente che permetta che questa crescita si manifesti, che tiri fuori i migliori istinti di questi giocatori per permettere loro di sbocciare. Questo a volte significa defilarsi, lasciare che la scia del loro apprendimento e della loro crescita ti trascini.

Questo è quello che ho provato allenando Jordan [ndr, McLaughlin; allenato ai Long Island Nets e citato come parte della domanda in quanto esempio di “allievo” di Weaver salito di livello], la persone più matura e dedita alla squadra che si possa incontrare. Me lo ricordo sostituire senza battere ciglio Shannon Scott snel ruolo di point guard titolare. Lo stesso Scott che, nello stesso anno, è tornato dall’infortunio riprendendosi il quintetto iniziale. Nonostante la decisione di farlo partire dalla panchina, la risposta di Jordan è stata “Ok, cool”, la stessa di quando gli avevo chiesto di far parte della starting lineup. Lì ho capito che gli importasse più della squadra che non del suo successo. Credo che questo si sia riflesso nel modo in cui sta giocando a Minnesota, e non è casuale il tipo di crescita che abbia avuto lì e quale sia il modo in cui ha aiutato i compagni a migliorare.

Per quanto riguarda NBL e G League Ignite, amo che ci siano sempre più percorsi per i giovani per trovare quello che sia migliore per loro. Parlando con Jalen Green e Daishen Nix riguardo alla loro esperienza con Ignite, o con Rod Baker [ndr, vice di Ignite dalla passata stagione e nello staff dei Sixers ai tempi di Weaver], ho avuto modo di capire cosa significhi per un giovane poter raggiungere quel quantitativo di opportunità, anche al di fuori dell’allenamento. Essere capaci di prendere parte a partite NBA e interfacciarsi direttamente con giocatori NBA è un dono, e penso che questi ragazzi stiano facendo leva su queste esperienza per trarne vantaggio prematuramente nelle loro carriere.

La NBL è una delle più dure, fisiche, intelligenti leghe cestistiche del mondo. Non può che aiutare a crescere competere contro giocatori che sono cresciuti lì e ci sono da molto tempo. A Houston ho lavorato con Jae’Sean Tate, che porta ancora in campo molte lezioni specifiche che ha imparato durante la sua stagione in Australia, applicandole direttamente all’NBA.

Più opportunità ci sono di crescere in contesti diversi, più probabilità ci sono di avere un maggior numero di Dyson Daniels, Jalen Green, Jae’Sean Tate, tutti ragazzi che hanno avuto modo di svilupparsi più velocemente nelle loro carriere grazie al supporto ricevuto nei loro rispettivi percorsi.

Quale rebuilding team in NBA ha attualmente il core più promettente e perché?

Penso che possa parlare di Houston, dove le cose sono eccitanti soprattutto per la qualità del materiale umano che si può trovare in Jalen Green, Josh Cristopher, Jae’Sean Tate, KJ Martin, Alperen Şengün. Tutti questi ragazzi sono “superhumans”, ognuno di loro crede fermamente di poter diventare uno dei grandi. Questo apre alla domanda: come risponde questa convinzione a una battuta d’arresto? La NBA non perdona, punisce tutti gli errori che commetti, e si impara tramite gli errori, perciò ogni volta che impari qualcosa vieni anche punito. Perciò la resilienza che viene dimostrata è uno dei migliori indicatori per capire se qualcuno sia in grado, o meno, di diventare il giocatore che ha il talento di diventare.

Nel caso di questi ragazzi, ognuno di loro ha uno skillset particolare, ma nessuno è ancora lontanamente vicino a un prodotto finito, un archetipo da Playoffs. Credo che, se ognuno di loro finisse per diventare quello che si prospetta, allora si potrebbe creare qualcosa di veramente nuovo ed intrigante nell’ambiente NBA, ma la fortuna, la salute, il tempo che sono richiesti per permettere a questi ragazzi di farcela, specialmente come un gruppo, sono limitati.

Questo renderebbe comunque la NBA molto avvincente, ci sarebbe un set completamente nuovo di squadre orientato in quella direzione che potrebbero presto diventare i nuovi Bucks, Warriors, Suns. La natura di questo renderebbe la NBA avvincente come non mai, uno dei prodotti più intrattenenti che si possa cercare negli sport professionistici.

Film e analytics sono i pilastri della sua esperienza da allenatore: può dirci di più su questi strumenti e come li usa?

“Strumenti” è la parola giusta, rientrano nel repertorio di ogni allenatore moderno.

Gran parte della mia esperienza si è basata sullo scoprire quanto ci sia da imparare a riguardo e come applicarlo quando la situazione lo richiede. Se c’è qualcosa che capiamo guardando le registrazioni video, poi dobbiamo pensare: “Ok, si presenta al meglio in una conversazione? In un messaggio? In una film session dove si discute insieme?”

E lo stesso accade con le analytics. La quantità di strumenti che abbiamo in NBA ci offre molte informazioni su cosa sia accaduto e da lì si può iniziare a ragionare: “Ok, so che è successo questo, e proverò ad aiutare questo giocatore o a continuare con questa tendenza o a cambiarla”. Quindi, capire quale sia il percorso per arrivare da quell’informazione a un risultato, capire l’intervento che serva fra queste due fasi.

Secondo me i giocatori non ricevono abbastanza meriti per la loro abilità nel capire e nell’apprezzare delle prove che dimostrino come allinearsi per migliorare le cose. Spesso capita che si sentano criticati prima ancora che tu cominci, o magari che li metta in una posizione in cui sentano di dover reagire o difendersi contro quello che sta per accadere. Anche se, in base alla mia esperienza, la maggior parte dei giocatori vuole trovarsi attorno persone che li aiutino a migliorare, aiuta me come allenatore e loro.

Ad esempio, non c’è nessuno in questo pianeta di più scettico di Andrew Bogut ma, dopo aver passato tempo con lui in nazionale, abbiamo sviluppato il nostro rapporto perché io volevo dirgli la verità e mostrargli le prove di quale fosse questa verità. A Sydney ci siamo addentrati in una conversazione che ci ha permesso di voler lavorare ancora insieme, tutto grazie a quella interazione.

Ognuno di noi vuole inserire nella scatola degli attrezzi quante più cose possibile, e questa è la parte divertente di lavorare in NBA, l’essere circondati da analyst e persone incredibilmente preparate a livello tecnologico che possano permettere a un allenatore come me di imparare molte cose e implementare la quantità di informazioni da dare ai giocatori.

È mai capitato che un giocatore venisse scambiato e non ne fosse felice? Come si possono aiutare?

La parte umana è molto sottovalutata. Se qualcuno è coinvolto in un cambiamento improvviso nella propria vita non gli resta altro che la difficoltà logistica che ne deriva, l’afflizione di abbandonare un posto e l’ansia di arrivare in un contesto nuovo. Quando si pensa a giocatori scambiati o appena scelti al Draft l’emozione gioca una parte importante.

Da allenatore, il nostro lavoro è cercare di capire come siano fatte queste persone e cosa stiano passando, così possiamo andar loro incontro dove serve. La dinamica psicosociale è in ogni interazione, ognuno di noi la porta con sé in ogni intervista, ogni partita, ogni conversazione, ricordo nitidamente un noto giocatore NBA piangere quando Brandon Davies è stato rilasciato dai Philadelphia 76ers. Questo non è usuale, la maggior parte dei giocatori è riservata, ma per noi è stato un enorme promemoria che ci sono amicizie, relazioni che si forgiano in questa pentola a pressione che è la stagione NBA, in cui si spendono 7-8 mesi e 6 o 7 giorni a settimana gli uni con gli altri, e che sono reali.

Per ogni bella opportunità che ti capita ci sarà un momento di tristezza per l’abbandono, fa parte di quello che è la NBA e la pallacanestro nel mondo, e come allenatore credo tu debba capire cosa capiti con ogni persona con cui stai interagendo. Tutti sentono la pressione di dover spostare i propri figli, cambiare scuola, perdere amicizie che hai costruito nel tempo in ogni città.