
Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape, tradotto in italiano da Luca Rusnighi per Around the Game.
Erika Ruiz non ha avuto qualcuno a cui ispirarsi per diventare un agente NBA. Qualcuno come lei, perlomeno. Per questo cerca sempre di dare consigli ad altre donne di colore che vogliono intraprendere la sua stessa strada.
“Non c’era proprio nessuno,” ha dichiarato la statunitense di origini messicane durante la sua intervista a Andscape.
“E questo mi spinge ad andare avanti. Chiunque dica che questa non è una professione difficile o che non è dura cercare di farcela senza avere attorno qualcuno che ti assomigli, si prende un po’ in giro, direi. E non lo dico per fare una critica: è il lavoro.Ci sono volte in cui mi fanno un complimento, anche piccolo, e mi dicono: ‘Sei tu che mi hai fatto venire voglia di entrare in quest’ambiente’. Mi basta per continuare per settimane e mesi, andando da ‘Mi piacerebbe farcela’ a ‘Devo farcela’ a ‘Posso farcela’. Ci dev’essere un qualcosa che ti sprona. E finché questo può aprire una, dieci, cento, mille porte, allora andrò avanti senza fermarmi.”
(Erika Ruiz)
La stagione NBA 2020/21 è partita con circa 450 giocatori che fanno capo a uno stuolo di agenti. Ma di questi, solo tre sono donne: Ruiz e due bianche, Danielle Cantor e Jessica Holtz. Alcuni agenti registrati con l’Associazione Giocatori, la NBPA, sono donne afroamericane, tra cui Nicole Lynn che lavora anche con l’NFL. Nessuna tra loro, però, ha rappresentato gli atleti in termini di contratti di gioco prima della stagione.
Marzo è Women’s History Month negli Stati Uniti. E quindi The Undefeated ha pensato di parlare a Ruiz, Holtz e Cantor del loro percorso e di come sperano d’ispirare altre donne con il loro esempio.
Chi o cosa vi ha spinto a diventare un agente NBA?
Cantor: Nei primi sette anni di carriera ho lavorato per SFX, un’agenzia molto importante. Mi occupavo di branding e di marketing nei contratti di sponsorizzazione per gli atleti. Poi ho cominciato a collaborare con David Falk, per due ragioni: uno, perché è uno dei migliori in questo business oltre che un autentico pioniere, e due perché l’idea me l’ha data lui. Mi ha detto: ‘Voglio che mi fai da partner, ma non solo per questioni di marketing, PR o cose così: devi diventare un’esperta di salary cap e di CBA, il contratto di negoziazione collettiva, e prendere l’abilitazione’. Se non me l’avesse proposto, non credo che ci avrei mai pensato.
Holtz: Danielle Cantor. È nel settore da una vita e ha un’intelligenza incredibile. Inoltre, ho tantissime ex colleghe di quando lavoravo negli uffici della Lega e che adesso occupano posizioni di front office – Becky Bonner a Orlando, Teresa Resch a Toronto e Annabel Padilla a Brooklyn, ad esempio. Guardando le mie colleghe e parlando con i clienti, ho capito quali erano le mie possibilità. Questa è stata la mia ispirazione.
Ruiz: Ho avuto un primo contatto con l’ambiente quando giocavo al college. Nello stesso periodo, altri atleti sono diventati professionisti. E più andavo a fondo, più mi dicevano che si tratta di un’industria durissima, competitiva da morire e dove per le donne non c’è spazio. E chi me lo diceva non voleva necessariamente essere negativo, ma non voleva indorare la pillola. ‘Non sai in che business ti stai andando a ficcare’, mi spiego? Ma dovevo essere sicura: se volevo veramente entrarci, dovevo farlo al 100%. E credo che a spingermi sia stato il rendermi conto che potevo crearmi il mio percorso, una volta capito meglio come funzionava. Mio padre me lo diceva sempre: se vuoi qualcosa, non aspettare che ti aprano la porta, buttala giù.”

Chi è stato il vostro primo cliente nella NBA? E che effetto vi ha fatto quando vi hanno detto che vi volevano come procuratore?
Cantor: David e io abbiamo più o meno co-rappresentato tutti i nostri giocatori dal 2007 in poi. Il primo atleta seguito solo da me è stato Malcolm Brogdon. Sono stata coinvolta in ogni aspetto: dalle runioni di reclutamento alle contrattazioni dei free agent, dai preparativi per il Draft alle chiamate per il Draft stesso. Con Malcolm è stata tutta una questione di tempismo – è arrivato quando sapevo di avere abbastanza esperienza e i contatti necessari. E soprattutto, ero convinta delle mie capacità. Malcolm mi ha dato fiducia, è la persona giusta perché si espone per quello in cui crede. Insomma, una specie di congiunzione astrale.
Holtz: Se parliamo di contratti, i miei primi due clienti sono stati Devin Booker e Karl-Anthony Towns dopo che Leon Rose, un nome storico in quest’ambiente, è diventato presidente dei Knicks. Sono stati loro a scegliere me e l’hanno fatto di loro iniziativa, senza nessuna pressione da parte dell’agenzia. È stata una decisione loro perché si sono fidati di me. E questa fiducia, questa convinzione che li potessi rappresentare e proteggere durante la loro carriera, oltre che essere un onore, ha significato moltissimo per me. Sapevano che ero la persona giusta per quel lavoro, poco importava che fossi uomo o donna. È qualcosa di speciale, che non do affatto per scontato.
Ruiz: Ho cominciato da assistente. Ma il primo giocatore è stato Jordan Bell. In seguito, il manager di Jordan mi ha detto che hanno firmato con CAA perché c’ero io. E questo l’ho scoperto mesi dopo. Ha contato tantissimo per me: non me lo sono mai dimenticato e mi ha dato il coraggio di andare avanti con più forza.
Qual è stata la difficoltà maggiore o il momento più deludente durante la vostra carriera nel mondo dello sport?
Cantor: Anni fa, quando già avevo il patentino da agente e seguivo ogni dettaglio sia in campo sia fuori, sono andata a vedere una partita dei Pacers con David Falk. Eravamo seduti a bordocampo e di fianco a lui c’era il proprietario di un team assieme a sua moglie. Lei ha cercato di fare conversazione con me per far sì che David e suo marito potessero parlare in pace. E dopo qualche minuto, ho capito: pensava che fossi la compagna di David. Mi sono sentita insultata, più scioccata che altro, perché con questa signora io stavo parlando d’affari. Fino a quel momento non mi ero resa conto che un sacco di gente probabilmente la pensava allo stesso modo.

Holtz: I momenti bui ci sono stati, come quando ti senti fuori posto o ti fanno sentire fuori posto. C’è chi ti fissa o cerca qualcuno più qualificato per avere conferma di quanto stai dicendo. Mi hanno persino detto: ‘Mi faccia parlare con l’agente’, invece di discuterne con me, anche se potevo rispondere, o comunque avevo la risposta a portata di mano, o i contatti giusti. Mi ha sempre dato sui nervi e mi ha fatto capire che c’è una ragione. Non è una cosa diretta a me necessariamente e non devo prendermela troppo sul personale. Chi è nella mia posizione viene visto in una certa maniera. Sono io a dover far cambiare questa percezione e fare quanto in mio potere per gestire questo cambiamento a mio vantaggio, ma soprattutto devo cambiare le cose per altre persone nelle mie circostanze.
Ruiz: Per tutte noi ci sono situazioni che possono venire percepite come un insulto. E se mi dovessi concentrare su quest’aspetto, probabilmente mollerei. Cerco di non fissarmi su queste cose. Per me è tutta una questione di prospettiva.
Che cosa deve ancora accadere per far entrare più donne, specialmente di colore, in questa particolare professione?
Cantor: Ci stiamo arrivando. Ci siamo quasi. Dobbiamo parlarne di più, ci devono essere maggiori possibilità per noi donne. E sono d’accordo: per quanto riguarda le donne di colore, bisogna farsi le ossa e farsi notare per avere queste opportunità. A mio avviso, parte del problema è il fatto che tantissime in questo settore lavorano nel marketing o nelle pubbliche relazioni, o ancora in un ruolo di supporto e assistenza del cliente. In generale non vengono viste in ruoli di upper management o come agenti. E così, anche quando si cercano donne, di colore e non, per questi profili, non c’è nessuno con sufficiente esperienza. È il classico cane che si morde la coda: non puoi fare esperienza se nessuno ti dà la possibilità, e viceversa.
Holtz: Si tratta di vedere per credere, per quanto mi riguarda. Prendiamo Gregg Popovich, il coach di San Antonio, che dopo una sua espulsione ha dato la panchina a Becky Hammon, la sua assistant coach. Vedere una donna fare da capoallenatore per una squadra NBA – peraltro, aveva tutte le carte in regola e lo sapeva benissimo – è stato un momento fondamentale nella storia dello sport. Il fatto di affidarle quella posizione sin dall’inizio non è stata affatto una scelta popolare, e tutt’altro che scontata. Bisogna che gli uomini ci supportino per poter raggiungere una vera uguaglianza in termini di opportunità. Devono poter guardare al di là delle apparenze e dire ‘Sai cosa c’è? Lei è la persona giusta per fare quel lavoro’, anche se non è un ruolo tradizionalmente occupato da donne e donne di colore. È qui che gli uomini entrano in gioco e ci possono dare una mano in questo percorso.
Ruiz: Il talento c’è, ne sono convinta. Vedo tante di quelle donne e uomini, in particolare di colore, che hanno questa passione e le giuste qualità. A chi sta in alto e si occupa di reclutare nuovi agenti direi di mettere nella ricerca dei procuratori lo stesso impegno dedicato al rappresentare i clienti e allo scovare la prossima superstar in campo.

Che responsabilità vi sentite addosso per le donne che vi considerano un esempio da seguire?
Cantor: È una responsabilità enorme. Io preferisco lavorare dietro le quinte. Ma quando mi sono resa conto di quello che poteva rappresentare per tutte le giovani donne che verranno dopo di me, ho deciso di farmi sentire. È una grossa responsabilità, appunto.
Holtz: Io voglio aprire le porte ad altre donne. Voglio poter dimostrare ad altre come me che possiamo farcela, che è una cosa normale e che abbiamo un posto da occupare. Ci sono tantissime colleghe che fanno un lavoro incredibile ogni giorno, e spesso e volentieri nessuno lo nota o lo fa notare. Per cui, se possiamo unire le forze e riesco a portare altre donne dalla mia parte nel corso della mia carriera, dimostrando loro che siamo alla pari con gli uomini, l’impatto sarà maggiore. E questa è la cosa che conta di più per me.
Ruiz: Il fatto di essere autentica, senza filtri o conformismi, è qualcosa che devo non solo a me stessa, ma anche a chiunque vuole fare questo percorso o mi vede come modello. Ho letto il libro di Abby Wambach e c’è una frase che mi è molto piaciuta: ‘Sono grata per quello che ho, ma voglio quanto mi spetta.’ È una cosa importantissima, perché se non lo faccio per me, non aiuto chi verrà dopo di me.
Che cosa dite alle altre donne che vi contattano per avere consigli?
Cantor: Al momento mi piace fare da mentore e parlare del business con le giovani donne che vogliono farlo. Io non ho avuto un modello da seguire o qualcuno che mi prendesse sotto la sua ala, anche se mi sarebbe piaciuto. È fondamentale rendersi conto delle possibilità e fare ancora di più. E so bene che chi ci seguirà, farà esattamente questo. Parlo per esperienza personale: troppo spesso noi donne ci sentiamo minacciate da altre donne forti, intelligenti e di talento. Non è il mio caso e non credo ci sia alcuna ragione per sentirsi minacciate. Secondo me dovremmo fare gruppo, aiutarci e sostenerci a vicenda.
Holtz: A loro dico di credere in sé stesse e dare retta all’istinto. Si parla spesso d’intuito femminile, ma è la verità, specialmente in un ambiente dove l’intuito e i rapporti sono alla base. Per cui tento di dare un incoraggiamento in queste situazioni. Se ce l’ho fatta io, allora ce la potete fare anche voi. Lavorate sodo, siate ambiziose e soprattutto sappiate che avete tutto il diritto di starci, in quest’ambiente.
Ruiz: Non c’è un vero e proprio modello da seguire per diventare un agente NBA, così come non c’è una tempistica fissa. Non è mai troppo tardi per cominciare. C’è da dire che ho avuto il supporto di tantissimi, e la cosa mi ha molto sorpreso dopo il Draft. Sulla sua pagina Instagram, On Her Turf ha postato che sono stata l’unica donna a rappresentare un giocatore nel Draft, e il feedback è stato più che positivo. Cerco di farmi sentire con più persone possibili e di sicuro voglio continuare a raggiungere più gente possibile.