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1. Perché è stato il primo giocatore europeo selezionato con la prima chiamata assoluta nel draft NBA.

Poco dopo l’All Star break della stagione 2006-2007 Bryan Colangelo, il General Manager dei Toronto Raptors, raccontava tronfio di quando gli erano stati comunicati i risultati fatti registrare da Andrea Bargnani nel Caliper Profile. Per l’incredulità aveva quasi fatto cadere il telefono a terra, diceva.

Il Caliper Profile prende nome dall’azienda che lo ha creato e viene utilizzato da moltissime compagnie a livello mondiale (e quindi anche da squadre professionistiche) nel processo di assunzione del personale. Sviluppato sulla base di una specie di quiz psicologico permette (o ambirebbe a permettere) di prevedere come reagirà una persona in determinate posizioni e condizioni, al netto di pressioni e stimoli. Molte squadre se ne sono servite per anni nel processo di valutazione di talento e potenziale di moltissimi dei prospetti che si sono trovate ad analizzare.

I risultati ottenuti da Bargnani erano così stupefacenti da spingere il dottor Greenberg, fondatore del test, ad ammettere di aver in qualche modo convinto i Raptors della bontà della scelta – a Colangelo il giocatore piaceva, ma sapeva che la sua eventuale chiamata avrebbe portato con sé delle critiche – che avrebbero fatto con Bargnani, garantendo loro che il ragazzo sarebbe diventato uno dei migliori 10 centri di tutti i tempi. Sull’affidabilità del Caliper Profile non ci esprimeremo ma su internet si trovano addirittura delle teorie del complotto che ipotizzano come il Mago possa aver barato nello svolgere il test.

Questo per dire che purtroppo non è diventato uno dei più grandi centri della storia del Gioco, e che da quando Bryan Colangelo si vantava della propria coraggiosa e storica chiamata, di acqua sotto i ponti ne è passata e parecchia. Addirittura, Bargnani è sceso così tanto nella considerazione degli appassionati di basket d’oltreoceano, che sembra in qualche (crudele) modo più credibile che abbia aggirato un test piuttosto che pensare che il test medesimo così probante non fosse.

Tornando al 2007: Bargnani è arrivato secondo nella classifica del Rookie Of the Year alle spalle del solo Brandon Roy e davanti a gente come Aldridge, Gay, Rondo, Lowry e Millsap. Tutti giocatori scelti dopo di lui al Draft 2006 e tutti giocatori, come sappiamo bene, protagonisti di carriere un po’ più fortunate della sua.

Bargnani era arrivato a Toronto circondato dallo scetticismo e “accarezzato” dalle parole del miglior giocatore della sua nuova squadra, Chris Bosh, che aveva detto: “Ottimo, un altro lungo con le mani buone! Era proprio quello di cui avevamo bisogno!”.

Bosh voleva giocare da 4 e avrebbe probabilmente preferito fare coppia con un giocatore che potesse difendere sui 5 avversari e imporre la propria fisicità nel pitturato, e considerando che Toronto aveva a roster anche Garbajosa e Nesterovic le sue parole erano ironiche.

Ma nelle prime due stagioni NBA il Mago ha giocato bene.

Addirittura Dirk Nowitzki, che in un primo tempo aveva rifiutato ogni paragone con l’ex Benetton Treviso forse infastidito dal fatto che ogni sette piedi con tiro da fuori in uscita dal vecchio continente gli venisse automaticamente accostato, aveva detto che Bargnani era molto più avanti di quanto fosse lui alla sua età, e che il cielo era il limite per il ragazzo.

Qualche anno dopo, Dirk ha detto le stesse cose parlando di Lauri Markkanen. Forse, le profezie del tedesco meritano un po’ più cautela.

L’insorgere per Bargnani dei primi problemi fisici, alcuni sempre più evidenti limiti mostrati sul campo e la scarsa fiducia (o la mancanza di comprensione) dimostrata da coach Sam Mitchell nei suoi confronti resero più complicate del previsto la seconda e la terza stagione NBA del Mago. In particolare, a preoccupare come poi sarà per il resto della carriera sono la difesa e le scarse doti a rimbalzo.

Quando Bosh nell’estate 2010 firma con Miami, Bargnani diventa il volto della (derelitta) franchigia e segna 21 punti di media a partita.

Ma in realtà è l’inizio della fine.

Ciò che dal Caliper Profile era emerso chiaro e tondo e aveva più impressionato Colangelo era questo: “Ad Andrea non interessa minimamente ciò che gli altri pensano di lui, non sente le pressioni esterne. Se ne frega di tutto e tutti”.

La sua più grande dote sarà la sua croce più pesante.

2. Perché è diventato uno dei giocatori più odiati dell’NBA.

Bargnani viene fischiato dal pubblico di casa durante le sue ultime due stagioni in maglia Raptors. Viene fischiato durante il primo tempo della prima partita casalinga dei New York Knicks, la sua nuova squadra, nella stagione 2013-14. All’esordio al Madison Square Garden.

Qualche mese dopo. Stesso palcoscenico. Bargnani è seduto in panchina, infortunato. Sul maxi schermo del palazzo compaiono le foto dei giocatori dei Knicks da bambini; uno spettatore sorteggiato deve indovinare quale giocatore è diventato quel bambino. Compare una fotografia del giovane Mago. Ululati dalla tribuna.

Come si è arrivati a questo?

La prima mossa dell’ex GM dei Denver Nuggets Masai Ujiri nel suo nuovo incarico ai Raptors è quella di liberarsi del contratto dell’ex prima scelta italiana. I Knicks mettono sul piatto un paio di giocatori inutili e tre future scelte: due seconde e una prima, che diventerà poi Jakob Poeltl. Home run Toronto. I tifosi canadesi esultano alla sua cessione. Quelli dei Knicks si prenderanno addirittura gioco di lui quando si farà male.

I Knicks sono una franchigia perdente con un pubblico troppo competente e troppo importante, di conseguenza estremamente frustrato, che non ci mette molto a trovare un capro espiatorio. Bargnani viene accusato di essere molle, di non lottare, di farsi male troppo spesso e di avere una soglia del dolore troppo bassa. E’ un difensore improponibile e uno dei peggiori rimbalzisti di tutti i tempi se paragonato ai centimetri che si porta appresso. Non è un tiratore abbastanza efficace e come stoppatore è poco più che decente. Non sembra neanche provarci. Esattamente come diceva il suo profilo psicologico, sembra che se ne freghi del parere degli altri e di ciò che lo circonda. Quella che sembrava una dote che sarebbe tornata buona nei momenti di maggiore pressione, in contesti perdenti diventa la maledizione di un giocatore cui i tifosi non possono perdonare un atteggiamento che appare come menefreghista. Un tifoso, uno sportivo, non perdonerà mai il giocatore che non ci prova neanche. E Bargnani sembra non provarci neanche. Per davvero. Ma è realmente così?

Nelle sue ultime due stagioni a Toronto e nelle due in maglia Knicks (contando anche la stagione, l’ultima in NBA, con Brooklyn, Bargnani non ha mai giocato più di 46 partite in una singola stagione nei suoi ultimi cinque anni nella Lega – mai meno di 65 nei primi cinque anni) le advanced stats di Bargnani crollano. Le sue squadre sono sensibilmente meglio quando lui è seduto, e il suo impatto negativo lo pone ai vertici nella Lega quanto a dannosità sul parquet.

Il Mago viene inserito nelle classifiche delle peggiori prime scelte assolute di tutti i tempi (in alcune classifiche vaga tra la terza e la settima posizione, altre in cui la memoria storica pesa di più lo escludono dai primi dieci più grandi abbagli di tutti i tempi) e in ogni sorta di classifica negativa che un fan medio della NBA possa stilare (il giocatore più pigro, il più indisponente).

Qualcuno ipotizza che il suo menefreghismo sia una forma di auto-protezione. Qualcuno pensa che odi il basket. Qualcun altro nota come un atteggiamento del genere non gli procuri la benché minima empatia. I più dicono semplicemente: “Non gliene frega niente”.

Difficile pensare fosse così. Anche se a volte sembrava proprio.

3. Perché è stato un precursore.

Un po’ tutti gli allenatori di Bargnani hanno provato a fare di lui un giocatore più cattivo, più grintoso e combattivo. Qualcuno che non era. Hanno faticato a trovargli un posto in campo. Lui, troppo lento e poco esplosivo per giocare da 4, troppo leggero e debole a rimbalzo per giocare da 5. Probabilmente non è mai riuscito ad essere se stesso.

Ha chiuso la sua carriera NBA con poco meno del 44% dal campo e poco più del 35% da tre punti. Non sono cifre buone.

Le statistiche ma ancor più l’impatto che il Mago ha avuto sulla Lega sono state una delusione, nasconderlo non avrebbe senso. Nonostante una stagione chiusa a 21 di media e quattro stagioni consecutive a più di 15 a partita (roba che fatelo voi, verrebbe da dire) Bargnani salvo rarissimi momenti della sua esperienza a Toronto non è mai stato ciò che sarebbe dovuto essere. Mai una prima scelta assoluta, mai un giocatore importante in una squadra forte. In realtà, mai in una squadra forte.

E quest’ultima cosa è un gran peccato.

Perché forse gli Americani no, ma noi, che pure ci aspettavamo di più, i limiti di Andrea li conoscevamo bene, sapevamo che avrebbe faticato in difesa, che fisicamente non se la sarebbe mai potuta lottare con i migliori centri dell’NBA e che più che di sciabola avrebbe sempre preferito tirare di fioretto; ma uno così, con quei centimetri e quelle mani, quella grazia pura in certi movimenti e quel talento offensivo, lo avremmo voluto vedere sfruttato per le sue qualità piuttosto che esposto al pubblico ludibrio per i propri limiti. Lo avremmo voluto vedere terzo o quarto o sesto violino in una squadra vera, piuttosto che tollerato comprimario in una squadra con poco presente e meno futuro, falsa stella di una squadra in ricostruzione, uomo a cui dare una seconda e ultima chance nel mercato più schizofrenico d’America e infine causa di ogni male di ogni squadra in cui abbia mai giocato.

Bargnani è venuto dopo Dirk Nowitzki ma prima di Porzingis, Markkanen e moltissimi altri. Aveva le sue doti e non ne ha molte altre, ma in qualche modo anche lui era un Unicorno. Prima del tempo degli unicorni.

Con certe scelte, con certe decisioni e certi atteggiamenti non si sarà aiutato da solo. Ma gli è stata riservata ben poca pietà, ben poco amore. Troppo poco, anche per chi non sembra meritarne. Sembrare ed essere sono due cose diverse, e Bargnani è sempre stato il primo ad essere gettato sotto al bus ben al di là dei propri (evidenti) demeriti.

E’ stato creato per un basket più avanzato rispetto a quello in cui ha giocato. E ciò che lo rendeva speciale lo ha reso diverso. Infine, sbagliato.

4. Per una serie di sfortunati eventi.

Toronto non era preoccupata del fatto che Bargnani ci potesse mettere del tempo a sviluppare il proprio talento. Era normale che risultasse più indietro rispetto ad altri rookie nella prima stagione. Invece questo non accadde, anzi. Forse proprio per questo Colangelo parlava con tanta sicurezza ed entusiasmo a neanche un anno dall’inizio del viaggio americano di Bargnani. Il basket europeo aveva forgiato e reso pronto subito il Mago. Il suo talento lo metteva nelle condizioni di brillare. Il suo fisico lo sorreggeva. Se le cose sono andate a sud nel giro di pochi anni è stato per una serie di ragioni solo in parte legate le une con le altre oppure tutte legate intrinsecamente: dal fisico all’allenatore ai compagni alla dirigenza ai contesti non vincenti alla cultura del lavoro alla fame interiore alla voglia di emergere ai soldi a chissà quante altre cose che non sappiamo, non potremo mai sapere, che forse dipendono tutte da qualcosa che sta nel cuore, nella testa, nel braccio di Bargnani o forse no, dipendono dalla storia che il mondo aveva in serbo per lui.

Se però gli Americani non si dimenticheranno di lui (noi, come potremmo?) sarà anche per una serie di concause accidentali e non così importanti.

Bargs”, uno dei soprannomi utilizzati per il Mago dalla stampa americana, è uno dei raggruppamenti di lettere più osceni e uno dei nomi più cacofonici che possiate contare di udire nella vostra vita, specie se esce dalla bocca di un Americano e solo vagamente richiama al capo cattivo di Homer Simpson. Semplicemente, è un nome che vi impedisce di prendere sul serio chi viene chiamato così.

Bargnani era, cosa ancor più crudele se si vuole, un’autentica macchina da triple in una serie non irrilevante di giochi per la Playstation che tra il 2008 e il 2015 una discreta parte dell’universo interessato all’NBA ha frequentato a fasi più o meno intense. Un sette piedi che spara dall’arco senza pensarci con percentuali roboanti fa la felicità del giocatore (che tira più triple in cinque minuti di una squadra di D’Antoni in una partita – il giocatore che ama Bargnani è in qualche modo precursore della Sloan Conference e di tutte le analytics del mondo). Il giocatore che ama Bargnani resterà due volte più stupito dalla sua inefficacia nella vita reale e si farà delle domande su quale sarebbe il modo più giusto di impiegare il ragazzo. Ma il suo potenziale virtuale e la sua tragicità reale regala immortalità!

Al di là della sciagurata giocata contro Milwaukee (la partita poi i Knicks la vinsero), del volo rovinoso contro Philadelphia e di una serie di giocate più o meno buone che resteranno nella memoria collettiva, al di là degli infortuni e dei troppi fischi presi, ci sono due momenti particolari nella carriera NBA del Mago che meritano di essere ricordati. O meglio, che non possono essere dimenticati.

Del primo momento il Mago è stato solo uno spettatore, ma molto privilegiato.

Questo potrebbe essere uno dei fatti più esilaranti della storia dell’NBA e lo è soprattutto per un Italiano. Lapo fa qualcosa di mitologico (e che a ben pensarci potrebbe accadere più spesso?) e il Mago c’è. Verosimilmente si vergogna, unico giocatore in campo a riconoscere quel tifoso che non sa le regole. Suo compatriota. La partita la vinsero i Lakers.

Toronto in quella stagione arrivò nona a Est, con una partita di ritardo da Chicago, ottava e ultima qualificata per la postseason. I Raptors avevano il tiebreaker favorevole nei confronti dei Bulls. Ma persero una partita in più.

Del secondo episodio Bargnani è protagonista assoluto.

Siamo nel 2013, prima stagione a New York. In un accalorato ma tecnicamente modesto derby in trasferta contro i Nets, il Mago ha un alterco con Kevin Garnett. KG, che sta all’estremo opposto della galassia rispetto ad Andrea per quanto riguarda l’atteggiamento sul campo, sta perdendo la partita e sta anche venendo discretamente dominato dall’Italiano (non si parla del miglior Garnett, ma anche qui, non è roba da tutti, Bargnani era speciale per davvero e sarebbe potuto esserlo molto di più).

I due si aggrovigliano facendo finta di lottare a rimbalzo. C’è una piccola zuffa nell’area dei Knicks, intervengono compagni ed arbitri e i contendenti sono separati.

Azione seguente. Close-out in ritardo di Garnett e bomba del Mago, che torna indietro verso la propria metà campo urlando qualcosa all’indirizzo dell’ex Celtic. Joey Crawford è lì vicino e fa partire la consueta raffica di fischi impazziti.

Bargnani espulso.

I Knicks vinceranno la partita per 113-83. Bargnani ne mette a referto 16 contro i 6 soli di Garnett. KG nel dopopartita interrogato sulla questione dirà che non sa cosa gli abbia detto Bargnani perché non capisce l’italiano. Ma la leggenda vuole che tornando verso il proprio canestro il “Mago d’Italia” (sentire lo speaker dell’Air Canada Center dire queste quattro parole dopo i canestri di Andrea dovrebbe essere un’altra cosa che gli Americani non dimenticheranno) abbia detto a KG, il re del trash talking di tutti i tempi, le seguenti parole:

“Your wife tastes like fettuccine Alfredo”. Scolpite nel muro dei momenti sacri del Gioco.

5. Perché non l’hanno capito.

E per la verità, chi lo ha fatto?

Una cosa particolarmente difficile è provare a slegarsi dalle connessioni emotive che si hanno con un oggetto, un evento, una persona per darne una valutazione oggettiva. “Cosa ne penserei se non…? …se fossi libero da pregiudizi?”.

Non riesco a immaginare come vivrei Andrea Bargnani se non fossi italiano. Non che il patriottismo o il campanilismo siano sentimenti particolarmente forti in me, ma è innegabile che per me Bargnani non sarà mai Anthony Bennett o Andrew Bogut o Jakob Poeltl.

Forse anche io non avrei simpatia per il Mago come la maggior parte degli appassionati di basket nel Mondo pare non ne abbiano (io stesso non so se ho simpatia per lui, ma in qualche modo sì, e certamente sempre in qualche strano modo, gli voglio bene) e lo giudicherei menefreghista, svogliato, molle, deludente, frustrante, pigro, viziato. Per quello che si è visto in campo, parte di questi giudizi sembrerebbero attaccarsi molto bene ad Andrea Bargnani. Ma come dicevamo sopra, il perché di tutto questo non è chiaro. L’atteggiamento, anche se reiterato per anni, non può bastare come parametro di condanna. I risultati, neanche.

Forse a Bargnani davvero il basket non interessava poi così tanto. Che non avesse la fame di Kobe Bryant appare evidente. Questo ha fatto di lui un giocatore meno forte di quanto si sperasse. Ma non ha fatto di lui un uomo meno degno di rispetto, né un uomo di minore valore. In realtà le peculiarità del gioco e del modo di stare in campo e forse al Mondo di questo ragazzone di Roma lo hanno reso ciò che è agli occhi dei tifosi e degli appassionati, ma non ciò che è, veramente, lui. Quello sfugge al nostro giudizio. Per fortuna. E pensare che non sia così è prova di arroganza, di malafede. Di un modo non bello di giudicare chi è esposto perché fa qualcosa che tutti guardano. Per l’appassionato medio è stato impossibile provare empatia nei confronti di questo ragazzo. Ma forse non è stata colpa sua. Non è stata colpa di nessuno. Il profilo di Colangelo ci aveva avvisati.

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Ho sentito dire che Bargnani fosse molto popolare tra i giocatori NBA per la sua competenza in ambito finanziario. Due soldi li ha guadagnati in carriera, e pare abbia saputo e anche molto bene che farne. I colleghi gli chiedevano spesso consigli.

Non so se questa storia sia vera e (non che c’entri qualcosa) se anche fosse vero – come capita per molte persone che si ritrovano improvvisamente molto ricche e un po’ a corto di stimoli – che i soldi non hanno fatto del bene ad Andrea, che la vita da giocatore NBA non l’ha saputa vivere da grande professionista, e che si è un po’ rovinato con le sue mani per mancanza di impegno a volte o di stimoli; o, di nuovo, per una serie di ragioni che difficilmente possiamo o potremo comprendere.

Penso che sia normale per l’appassionato empatizzare con la voglia tarantolata di Dellavedova, ad esempio, e storcere il naso davanti ad un giocatore dall’atteggiamento distaccato come poteva essere Andrea; ma non penso che così si arrivi all’essenza delle cose, a poter stabilire che un giocatore è migliore di un altro, che a uno importi più che all’altro. L’atteggiamento apparente ci dice delle cose, ma ci abbaglia se pensiamo di poterlo elevare a fattore determinante per le nostre valutazioni finali.

Quella di Bargnani è una storia non così fortunata e dove non si racconta di vittorie. L’atteggiamento del Mago è stato uno dei suoi problemi ma non l’unico. E’ stato però quello che gli è costato la comprensione e l’empatia di chi lo guardava.

L’appassionato a volte non capisce come uno sportivo che avrebbe tutto per dominare finisca a leccarsi le ferite dimenticato dal Mondo. Non concede al suo eroe l’onore delle armi a meno che non abbia dato tutto per diventare la versione migliore possibile di se stesso. Non concepisce che la felicità possa non dipendere da dove finirà la palla, dall’ossessione sfamata del suo eroe nel suo sogno di grandezza.

Non tutti hanno quell’ossessione, non tutti vogliono diventare Grandi, o almeno non tutti ci provano con la stessa forza. Non tutti nascono Kobe Bryant. E’ per questo che è così bello quando ne nasce uno.

Bargnani l’hanno giudicato in tanti, e in tanti lo hanno anche odiato, preso in giro.

Ma non sanno, non sappiamo, davvero perché non ha funzionato. Se avrebbe potuto funzionare. Forse, giusto lui lo sa. E siccome con l’NBA è finita così, alla fine non resta che ammettere che come per molte cose, con Andrea Bargnani non ci abbiamo capito niente.

Spero che sia felice, perché questo lo merita. Probabilmente era la cosa più importante fin dall’inizio, e ce ne siamo fregati.