Quello di Hassan Whiteside è un infinito viaggio, un’Odissea che lo porta dalla North Carolina alle coste più disperse del Mediterraneo, toccando anche le serie minori del basket cinese. Per giungere, infine, alla sua Itaca: l’NBA.
È sera, quasi notte. Siamo in Libano, a Beirut, la capitale.
L’amore che si trova lì è unico, dicono. Quello che s’incontra quando si è troppo soli. Un amore senza confini. Dettato da una storia lunga e intricata che fa di Beirut il più straniante degli scenari, e il meno straniero: una città araba ma diversa, una città diversa ma araba. Un amore dipinto tra i vicoli e le strade, vivaci e spregiudicate.
Nel 2013 Hassan Whiteside cammina per una di queste vie. Solo, fin troppo. Eppure, quello che prova non è l’amore raccontato dagli innumerevoli poeti siriani che hanno trovato a Beirut la loro piccola culla di libertà. No. Hassan è distrutto, affranto. Triste.
Quella sera fa qualche passo verso la sua automobile, parcheggiata a pochi metri dalla palestra.
Sbatte le palpebre. Respira in modo affannoso. C’è qualcosa che non va, lo percepisce. Chiude gli occhi. Sente urla, schiamazzi e un rumore frastornante di automobili. Li riapre.
Vede una delle scene più impietose e crudeli della vita. Un ragazzino libanese corre in mezzo alla strada e abbraccia il corpo del padre, ferito e ormai senza sensi. Il ragazzo piange e grida. Hassan è confuso, quasi non si regge in piedi, senza riuscire a muovere un muscolo per consolarlo. Singhiozza finché non gli cade una lacrima. Una delle tante che ha già versato in 24 difficili anni. Ma questa volta è diversa. È una lacrima che lo cambierà per sempre. Forse.
«Where do I end up?». Si chiede dove sia finito. Ha paura. Tanta. «I want to go back to America!». Vuole tornare a casa.
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Quello di Hassan Whiteside è un viaggio infinito, simile a un’odissea. Ha dovuto abbandonare la sua Gastonia, in North Carolina, per affrontare sfide inimmaginabili per tutto il globo, alla ricerca di una strada verso il suo sogno: un ruolo da protagonista nella National Basketball Association, com’era stata Itaca per Ulisse.
Un sogno che è sempre stato impossibile da piccolo, da quando aveva 10 anni e stava andando in un negozio vicino a casa. Mentre attraversava Davis Park Road una macchina gli è andata addosso. Un incidente brutale, violento, che avrebbe dovuto segnargli la vita per sempre, impedendogli di fare sport, bloccando, quasi, la crescita di una gamba.
Invece è proprio in quegli attimi di terrore, portato in ospedale e tenuto in vita solo grazie a un defibrillatore, che Whiteside matura l’idea di diventare un grande giocatore di pallacanestro.
Così, dopo diverse operazioni, una volta ricostruitogli l’intero ginocchio e sventati altri pericoli, torna a scuola e racconta alle sue insegnanti che un giorno farà canestro davanti a migliaia di persone. Ovviamente nessuno gli crede.
L’infanzia di Hassan è estremamente complicata, non solo per il grave incidente. Il padre Hasson Arbubakkr, ex giocatore di football americano, da una parte gli trasmette il DNA dello sportivo, dall’altra lo abbandona prestissimo, lasciando alla madre Debbie Whiteside il compito di crescere da sola sei figli, lavorando giorno e notte per mantenerli.
Hassan è follemente innamorato della pallacanestro, ma non riesce mai a entrare definitivamente in una squadra. Non perché gli manchino le qualità, anzi. Ma le squadre sono a scuola e Whiteside con lo studio e la disciplina non va molto d’accordo. Frequenta tre medie e sei high school diverse, senza fermarsi a lungo.
Passa anche da papà Hasson, in New Jersey, dove gli fanno capire che se a 16 anni è alto quasi 2 metri, il suo ruolo non è fare crossover o ankle-braker, ma stare sotto canestro, schiacciare e stoppare.
«Non volevo fare il centro. Non mi piaceva. Non faceva per me lottare a rimbalzo per raccogliere la palla».
Invece migliora il gioco in post, a saltare verso il ferro e fare battaglia nel pitturato.
Poi cambia di nuovo scuola e torna in North Carolina, alla Patterson School di Lenoir, a un’ora in macchina da casa.
A Lenoir cresce ancora di qualche centimetro, aggiunge 14 chili e cattura l’interesse di diverse università. Su tutte Connecticut e Kentucky, ma lui sceglie Marshall University, in West Virginia.
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Arriva ad Huntington ancora sbarbato, immaturo ed estremamente arrogante. Coach Donnie Jones lo capisce subito:
«Aveva un talento incredibile, ma non capiva che oltre a questo serviva anche allenarsi duramente».
Quindi lo affida a un suo assistente, Darren Tillis, che lo cura e lo guarda come fosse suo figlio. Non a caso Whiteside stupisce tutti. A fine stagione sono 13.1 punti, 8.9 rimbalzi e 5.4 stoppate in soli 26.1 minuti a partita. Vince sia il premio di freshman dell’anno, sia il Defensive Player of the Year della Conference USA.
Piccolo particolare: passare vicino ad Hassan per fare canestro è quasi impossibile.
Dopo l’incidente a 10 anni e non aver quasi mai giocato in una vera e propria squadra, la carriera di Whiteside sembra aver spiccato il volo con destinazione NBA.
Ma nella vita esistono momenti di debolezza, crolli totali che quasi fanno spegnere il cervello. Dei blackout.
E quando coach Jones, insieme a Tillis, va all’University of Central Florida, Hassan perde ogni sicurezza. I due allenatori tentano di portare il ragazzo a Orlando. Ma lui è confuso, vulnerabile, incredibilmente pieno di sé. Sceglie di fare subito il grande passo. Dopo solo una stagione al college si rende eleggibile al Draft del 2010. Lo danno tutti al primo giro.
È la sera del 24 giugno 2010. Whiteside è tranquillo.
Adam Silver sul palco inizia. Il numero uno a essere scelto è John Wall, poi Evan Turner e Derrick Favors. I nomi passano, ma il suo non si sente. Uno dopo l’altro quasi tutti salgono di fianco a Silver con un cappellino di una franchigia, mentre con una brutale e crudele calma, Hassan sprofonda su una sedia.
«With 33rd pick in the 2010 NBA Draft, the Sacramento Kings select Hassan Whiteside, from Marshall University».
Si alza. Tira un sospiro di sollievo. Nella sua testa è passato dall’essere scelto in lottery ad undrafted. Non è contento, si aspettava di essere chiamato prima. Abbraccia i cari, non ammicca nemmeno un sorriso e sale a fare la foto di rito.
La verità è che non doveva essere già lì.
«Avevamo preparato un piano di due anni. Nessuno pensava volesse andare in NBA dopo solo il primo. Né io, né il coach, né la madre», dice Tillis.
E infatti l’impatto con la Lega è particolarmente difficile. Ai media racconta di essere il nuovo Dwight Howard o Hakeem Olajuwon, ma il parquet lo vede solo per 105 secondi.
In realtà, il suo posto se l’è giocato in una partita di preseason, quando è rimasto negli spogliatoi senza riscaldarsi, dicendo a uno dei coach che non avrebbe giocato, quindi non aveva senso allenarsi nel pre-gara.
«Non aveva idea di dove fosse e cosa fosse il basket professionistico», racconta Grant Napear, telecronista dei Kings.
Inoltre, non c’è spazio per un altro centro nel roster di Sacramento: hanno appena scelto DeMarcus Cousins con la numero cinque nello stesso Draft.
Hassan Whiteside ha voluto più del dovuto e troppo velocemente. Viene subito mandato in D-League ai Reno Bighorns, dove gioca anche Jeremy Lin.
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Due giocatori, due maturità diverse.
Da una parte Hassan si domanda come diavolo sia finito lì, dall’altra Jeremy si chiede come possa migliorare.
Ovviamente il secondo raggiunge per primo il grande palcoscenico.
«Era un enorme sacrificio giocare in D-League per lui – parla Eric Musselman, ex coach dei Bighorns. Non voleva essere lì.»
La stagione termina tra poche apparizioni e diversi infortuni inventati. Whiteside è caduto nell’oblio e sembra impossibile rialzarsi.
L’anno successivo poco cambia. Gioca 18 partite, sette con i Kings, undici in D-League. Non sorprende nessuno e nel 2012 viene tagliato da Sacramento. Carriera finita. Forse.
All’inizio pensa che sia meglio rimanere negli States. Ancora in D-League, ma questa volta ai Sioux Falls Skyforce. Ci rimane qualche mese, poi vola in Texas, dai Rio Grande Valley Vipers.
Gioca male, segna poco e guadagna pochissimo. Dopo aver sfiorato il grande sogno Hassan è precipitato e ora deve trovarsi anche un lavoro “vero”.
Ma al suo agente, Alan McLean, arriva un’ultima proposta. È l’Amchit Club, squadra di una piccolissima città in Libano. È la sua ultima occasione.
Ecco che torniamo all’inizio. Torniamo ai tristi giorni per Beirut, all’incidente mortale dell’uomo, al figlio che urla e lo abbraccia.
Il Libano è una terra che segna profondamente Whiteside. Lo cambia radicalmente. Gli fa capire che ha toccato il fondo. Non può giocare a pallacanestro in una città con i palazzi bucati da proiettili. O dove gli sospendono una visita medica perché viene segnalato un pacco bomba in una macchina nell’isolato. O dove finisce la stagione perché ai Playoffs è iniziata una vera e propria guerriglia in campo e sugli spalti, nemmeno impedita dai militari armati presenti.
Dopo quest’ultimo evento viene sospesa la stagione e Hassan è costretto a cercare una nuova squadra. Lo chiamano i Sichuan Blue Wales, nella seconda serie cinese.
È vero, il livello è minimo, ma Hassan Whiteside è cambiato. Tempo fa si sarebbe demoralizzato ancor di più, rassegnato, ora, invece, ha più fame, più cattiveria agonistica. Guida la squadra alla promozione, non perdendo mai ai Playoffs, con 25.7 punti, 16.6 rimbalzi e 5.1 stoppate di media.
L’anno dopo torna in Libano, all’Al Mouttahed Tripoli, per poi fare di nuovo la strada inversa e giocare al Jiangsu Tongxi.
Anni difficili, turbolenti, pieni di imprevisti e decisamente scomodi. Ma così si è preparato al futuro, a ogni inconveniente. D’altronde ha capito che vuole solo giocare a basket, niente di più. E se si impegna può essere anche molto bravo.
Con la testa messa a posto e la reputazione da arrogante limitata, i Memphis Grizzlies vogliono dargli un’occhiata. Più specificamente lo vuole Chris Makris, il Gm degli Iowa Energy, l’affiliata dei Grizzlies in D-League.
Chris ha notato il talento, ma ha inteso che sul resto si deve ancora lavorare. Per sua fortuna c’è coach Bob Donewald jr.
«Penso che il coach sia stata la chiave per tutto – racconta oggi Whiteside. Mi scrisse una lettera uno dei primi giorni, in cui diceva: “Non mi interessa del tuo passato. Non ci siamo mai incontrati. Qui giocherai solo se ti alleni bene. You’ve just to shut up and work!”».
All’esordio contro i Reno Bighorns segna 30 punti, 22 rimbalzi e 8 stoppate. Dopo 3 partite viene chiamato dai piani superiori. Il 24 novembre 2014, Pat Riley e Erik Spoelstra hanno bisogno di Hassan a Miami.
«Che cosa vuoi davvero? Vuoi solo entrare nella Lega o esserne protagonista?», gli chiede Spoelstra.
Dopo l’exploit a Marshall, la caduta di Sacramento, l’infinito viaggio tra D-League, Libano e Asia, Hassan Whiteside ce l’ha fatta. Dopo tante delusioni e mille lacrime versate, è arrivata quella di Beirut che l’ha cambiato per sempre. Ora è pronto a tornare a Itaca, a prendersi il suo sogno. È pronto per l’NBA.
Fin da subito fa la differenza. 11.8 punti, 10 rimbalzi e 2.6 stoppate di media al primo anno. Continua a fermare chiunque gli passi vicino. Sotto il proprio canestro è una sicurezza che permette ai difensori sul perimetro di aumentare l’intensità, sapendo che hanno le spalle ben coperte.
La stagione successiva grazie al tempismo perfetto e a un’apertura alare di 231 cm realizza 3.6 stoppate a partita. Sovrumano.
Mese dopo mese, settimana dopo settimana, partita dopo partita, continua a migliorare.
Ma il 25 gennaio 2015 è la prima volta che il mondo intero nota quel ragazzo che fino a qualche anno prima giocava nella seconda serie cinese. Chicago Bulls-Miami Heat. 96-84 per Miami. Tripla doppia per Whiteside: 14 punti, 13 rimbalzi e 12 stoppate.
In attacco, invece, vola più in alto di tutti, è un gran schiacciatore ed è particolarmente esplosivo. Tra il 2016-17 mantiene una media di 17 punti e 14 rimbalzi.
Diventa una vera e propria certezza della Lega e per gli Heat. La franchigia della Florida pare aver trovato l’uomo su cui fondare il proprio futuro dal post Big Three.
Poi, ancora una volta, nella carriera di Hassan tutto pare crollare.
Dopo aver firmato nel 2016 un contratto da 4 anni per poco più di 98 milioni, Miami comincia a perdere fiducia. Coach Spo gli riduce i minuti sul parquet. L’intero ambiente sembra essergli diffidente. Pare essere tornato il vecchio Hassan Whiteside, di nuovo arrogante e pigro.
La situazione è straziante. Addirittura a fine 2018, a quarto-quarto inoltrato di una partita contro gli Orlando Magic, in cui gli Heat sono sotto di 15 punti, si alza dalla panchina e va negli spogliatoi infastidito per non essere in campo.
Multa da parte della squadra e qualche brutta parola tra il centro e Spoelstra.
Il 6 luglio 2019 è costretto ad abbandonare la costa. È all’ultimo anno di contratto e ai Portland Trail Blzares può servire un centro con il suo atletismo in vista Playoffs. Hassan Whiteside vola in Oregon in cambio di Myers Leonard e Moe Harkless.
A Portland durante la Regular Season rinasce. Segna e stoppa con continuità. Poi però arriva il Covid, quindi la pausa per la pandemia e la Bolla.
Ai Playoffs 2019/20, contro i Lakers di LeBron e AD, però non ha più il suo spazio. Ricade di nuovo. A fine stagione diventa free agent. E ora?
Come in tante belle storie c’è sempre la possibilità di riscatto, di rivincita, così in questa si ripresentano i Sacramento Kings. La stessa squadra che dopo un anno di college ha scelto di portarlo in NBA per poi abbandonarlo al proprio destino, adesso lo riprende riaccendendogli un lume di speranza. Che giocatore è? Lo stesso dei primi anni di Miami, esplosivo e insuperabile, o l’ultimo Whiteside, spento e senza stimoli?
Firma un solo anno di contratto al minimo salariale e registra 8.1 punti, 6 rimbalzi e 1.3 stoppate in soli 15 minuti di media. Non male per un giocatore che prende solo 2 milioni.
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Oggi è ancora una volta senza squadra. Di nuovo. Il suo futuro è un enigma, proprio come tutta la sua carriera. Un giocatore potenzialmente strepitoso, dotato di mezzi atletici unici, che ha sempre vissuto come un funambolo, in equilibrio su una fune.
Talvolta è caduto, perdendo tutto. Altre volte è rimasto in piedi, mirando sempre al suo più grande obiettivo: un ruolo da protagonista nella Lega di basket più bella del mondo.
In questo mare increspato dalle onde, ci sono ancora delle rotte da percorrere. E delle pagine da scrivere.